-marco bascetta-
UNA BATTAGLIA COMUNE E UNIVERSALE
\ sono sempre più numerosi gli individui
che sperimentano nel lavoro e nella vita reale il nomadismo nelle sue diverse
forme: “da una parte la necessità di sottrarsi a situazioni avverse di ordine
naturale o sociale, dall’altra la scelta di migliorare la propria condizione
rendendosi autonomo dai dispositivi di controllo e di oppressione”. In altri
termini: un intreccio di libertà e imposizione, di espulsione e di fuga
Sembrava
essere il pomo della discordia, il segno di visioni radicalmente divergenti
della realtà sociale e delle sue prospettive future e invece, nella sostanza,
sul famigerato «reddito di cittadinanza» tutti si mostrano concilianti e
inclini all’accordo.
Altrove si è spostato il centro del
conflitto tra forze politiche che, tra accuse e avversioni, vanno scoprendo di
giorno in giorno sempre più punti di sovrapposizione nei rispettivi programmi.
La ragione è semplice: le proposte in campo, riunite sotto la bandiera della
«lotta alla povertà», non hanno nulla in comune con i caratteri di universalità
e incondizionalità del reddito di base garantito. Si tratta, infatti, di
politiche di «inclusione», di avviamento al lavoro o di tamponatura a termine
della povertà più estrema. L’ inclusione è, del resto, tra i concetti più
insidiosi che vi siano. Anche la riduzione in schiavitù può essere annoverata
tra le sue forme storiche. È anzi il primo passo, quello che succede
immediatamente allo sterminio puro e semplice del nemico sconfitto, verso la
«civiltà». Sulla base di questa idea di inclusione lo scrittore messicano
Octavio Paz illustrò in un celebre saggio del 1950 la differenza tra la
colonizzazione cattolica dell’America meridionale fondata sull’assoggettamento
delle popolazioni indigene e quella protestante dell’America del nord, più
propensa all’annientamento degli autoctoni che al loro asservimento. Il
richiamo genealogico, sia pure remoto ed estremo, può servire a sottolineare
l’elemento di coazione, condizionalità e disciplinamento che generalmente
regola (e infelicità) la vita dei disoccupati di lungo corso presi in carico
dalle politiche di inclusione. Tra queste sono senz’altro da annoverare quei
sussidi temporanei condizionati, nel migliore dei casi dall’accettazione di una
offerta di lavoro ritenuta idonea e «dignitosa» (altra definizione tra le più
equivoche) dalle burocrazie incaricate del controllo sui programmi di
inclusione. Nel peggiore dall’imposizione di un lavoro comunque sia. In buona
sostanza l’intero arco delle forze politiche condivide quella stessa idea di
workfare che attribuisce al lavoro, riconosciuto e certificato come tale,
aldilà dalla sua razionalità produttiva o effettiva utilità sociale, la
condizione dalla quale ogni diritto e legittimità sociale prendono origine. La
polemica riguarda semmai la platea dei beneficiari e l’entità di questa forma
modernizzata ed estesa del sussidio di disoccupazione. Qui si combatte a colpi
di propaganda e di calcoli ispirati a pura fantasia.
Si può certamente ritenere che anche
una forma così condizionata di reddito minimo sia meglio dell’attuale nulla, ma
certo è che queste tamponature non prendono in alcun modo in considerazione il
problema sostanziale e cioè il ripensamento dell’intero sistema di welfare in
un assetto produttivo che prevede ineluttabilmente la rarefazione,
l’intermittenza del lavoro e la sua precarietà sotto perenne ricatto. Le
cosiddette politiche di inclusione rappresentano una razionalizzazione statuale
di questa ricattabilità e un contenimento autoritario della libertà di scelta.
O, per dirla altrimenti, una stanzializzazione temporanea di quella condizione
nomade della vita e del lavoro scaturita dalla crisi della società industriale.
Il nomadismo, già sconfitto nella più
remota antichità, seppur tornato prepotentemente in forme nuove sulla scena
contemporanea, continua a subire la sua cattiva fama: predatorio,
imprevedibile, incontrollabile, consumatore improduttivo di energie e risorse.
Tanto che è generalmente il capitale finanziario ad essere assimilato a questa
figura negativa mentre la cosiddetta «società civile» è immaginata come
comunità stanziale e radicata. Fatto sta che nel lavoro e nella vita reale sono
individui sempre più numerosi a sperimentare il nomadismo nelle sue diverse
forme. Quest’ultimo possiede una doppia connotazione: da una parte la necessità
di sottrarsi a situazioni avverse di ordine naturale o sociale, dall’altra la
scelta di migliorare la propria condizione rendendosi autonomo dai dispositivi
di controllo e di oppressione. Un intreccio, insomma, di libertà e imposizione,
di espulsione e di fuga.
Il reddito universale, nella sua
versione più propria, altro non è che la tutela di questo nomadismo, imposto o
scelto che sia, e il riconoscimento del suo valore sociale e produttivo aldilà
da ogni certificazione normativa. In buona sostanza si tratta di una scelta
politica contro la tirannia del mercato.
Il passo è breve, a questo punto,
nel riconoscere la parentela del reddito di base con un altro diritto di natura
universalistica: quello di asilo. Anche in questo caso si tratta di consentire
e proteggere un nomadismo che racchiude in sé la costrizione a fuggire e la
libertà di inseguire, attraverso gli spazi geografici del pianeta, nuove
opportunità. Il migrante non è più da un pezzo una deviazione dalla norma della
società stanziale, ma una figura permanente, decisiva, inarginabile del tessuto
globale. Un movimento storico che si pretende di fronteggiare riconducendolo a
una stanzialità imposta brutalmente e accompagnata da una insopportabile
retorica del «ritorno». La menzogna dell’«aiutiamoli a casa loro» (questa «casa»
non è che un’astrazione andata in fumo) è pari a quella della «piena
occupazione», del tutto immaginaria, se non in quella forma di generale
precarietà e lavoro non retribuito in cui si è già concretizzata. Ciò verso cui
le forze politiche convergono, in Italia e in gran parte d’Europa, è la
riduzione di questi diritti di natura universalistica. Ricorrendo in entrambi i
casi all’accusa, ampiamente diffusa a livello popolare, di parassitismo: che si
tratti di un reddito svincolato dal lavoro o dell’accesso degli stranieri alle
opportunità offerte dai «laboriosi ed evoluti» paesi europei è sempre una
«appropriazione indebita» a venir messa all’indice. Nel caso del reddito di
base questa riduzione passa attraverso i requisiti sempre più stringenti richiesti
ai potenziali beneficiari. In quello del diritto d’asilo attraverso una
improbabile tassonomia dei motivi di fuga (bellico, persecutorio, climatico,
economico), distinti tra legittimi e illegittimi e l’esclusione di un gran
numero di paesi incredibilmente ritenuti «sicuri», sorvolando sulla
persecuzione selettiva (minoranze, oppositori, omosessuali) che vi viene
ferocemente esercitata. La gestione restrittiva e arbitraria di questi diritti
implica la crescita di un pleonastico e costoso sistema di controllo e
l’assuefazione a ricorrenti episodi di ordinaria disumanità.
La sinistra, anche quella che
esprime tratti più radicali, è sempre più gravemente infettata dall’ostilità
nei confronti di questi diritti. Avendo fatto della «stanzialità» del lavoro un
valore da contrapporre al nomadismo del capitale e coltivando un’idea di
«popolo» che il fenomeno delle migrazioni mette continuamente in questione, si
è preclusa la possibilità di costruire una propria risposta alle contraddizioni
del presente e riprendere quel tema della libertà e del suo esercizio effettivo
che è stato generalmente escluso dall’orizzonte stesso del discorso politico.
da il manifesto il
29 aprile 2018