giovedì 31 maggio 2018

abstract&screening\ COMMONFARE E RICOMPOSIZIONE SOCIALE


- andrea fumagalli -
LA LOTTA PER IL REDDITO DI BASE INGLOBA QUELLA SALARIALE

\la proposta del reddito garantito incondizionato la si vorrebbe subordinata alla lotta per il salario: prima il salario poi il reddito. Ma è proprio tale nesso di causa e effetto che nel capitalismo bio-cognitivo non funziona più. Ed è da questa impasse che le sole lotte sul posto di lavoro non sono in grado di sviluppare una capacità offensiva – ma, al limite, sono in grado di arrestare temporaneamente l’offensiva del capitale. E le lotte sulla logistica -dice l'autore- ci pare lo confermino


(...) Nell’appendice del Manifesto*, l’attenzione è volta all’analisi della sostenibilità economica e finanziaria di un reddito incondizionato (dove per incondizionato non si intende il livello del reddito – mean tests – ma le misure di restrizione comportamentale e/o dei consumi). Chi scrive si è già espresso al riguardo, come riconosciuto dai due autori (cfr. Il valore politico ed economico dell’incondizionalità nella proposta del reddito di base). E come da loro evidenziato, tra universalità e reddito incondizionato, ma limitato dai mean tests, sorge un trade-off. La questione è la seguente.
Siamo concordi nel sostenere un reddito di base universale e incondizionato come diritto umano. Ma il reddito è uno strumento non un fine, come lo è invece la libertà. È veicolo, condizione necessaria (anche se non sufficiente) per l’autodeterminazione dell’essere umano e la sua liberazione dalla schiavitù di un lavoro imposto (la maledizione di Adamo)  che, paradossalmente, nega il suo essere “operoso”. Il reddito come diritto umano inalienabile non è quindi in discussione. Tuttavia, essendo anche uno strumento,  esso deve essere vagliato in base alla ricchezza sociale prodotta e espropriabile (sottolineo espropriabile). In termini concreti  l’incondizionatezza per essere realizzabile deve fare i conti con l’universalità. Siamo così di fronte ad un’ alternativa (trade-off):

  1. Seguendo l’impostazione universalistica alla Van Parijs (Il reddito di base. Una proposta radicale) se vogliamo dare a tutte/i un reddito incondizionato e universale degno, superiore come minimo alla soglia di povertà relativa (800 euro al mese), è necessario reperire risorse (nel caso dell’Italia) per un ammontare pari a circa il 40% del Pil, ovvero una cifra di poco inferiore al bilancio pubblico complessivo dello Stato. Una tale cifra è recuperabile solo annullando il ruolo dello Stato e privatizzando tutti i servizi sociali (come propongono i fautori “libertarian” del’imposta negativa sul reddito negli Usa – posizione, tuttavia non accettabile per Van Parijs). Il reddito universale e incondizionato ad un livello tale da ridurre il ricatto del bisogno e fuoriuscire da una condizione di povertà (anche relativa) ha come contraltare il completo smantellamento di ogni residuo di stato sociale. Coniugare il mantenimento dello stato sociale e l’universalità della misura sarebbe quindi possibile solo se il reddito di base ammontasse a poco più di 50-60 euro al mese – una somma che risulterebbe inutile sia ad uscire dalla povertà che a favorire l’autodeterminazione dell’individuo.

  1. Occorre quindi riconoscere che, mantenendo fermo il principio che il reddito di base è complementare e non sostitutivo dello Stato Sociale (come sostenuto da il Manifesto) e che nello stesso tempo deve essere pari come minimo alla linea della povertà relativa, il vincolo di risorse non consente la piena universalità. La cifra che si potrebbe recuperare (sempre con riferimento all’Italia), tra interventi fiscali, uso del quantitative easing, riforma degli ammortizzatori sociali, ecc.,  è al massimo di circa 60 miliardi. Il che significa poter disporre di un fondo per garantire un reddito incondizionato e in grado di favorire l’autonomia della persona di 10.000 euro all’anno a circa 12 milioni di persone, ovvero coloro che sono al di sotto della soglia di povertà relativa (circa 8,3 milioni di persone) più coloro che sono a rischio di povertà (altri 4 milioni di persone).
Di fronte a tale alternativa, pur riconoscendola, il Manifesto non si esprime in modo compiuto – pur lasciando intravvedere una preferenza per la seconda opzione. Ma è proprio su tale questione che si misura l’attendibilità (e quindi la praticabilità) di una proposta concreta di reddito di base. Occorre dunque scegliere se dare a tutti/tutte (a prescindere dal livello del reddito percepito), come diritto umano di base, una cifra insufficiente a sottrarsi al ricatto del bisogno oppure, in alternativa, garantire un livello di reddito sempre incondizionato (in termini di obblighi di comportamento e di consumo), ma selettivo sulla base di un criterio oggettivo come quello definito dall’attuale distribuzione del reddito. In altre parole, garantire un reddito incondizionato inizialmente solo a chi si trova al di sotto della linea di povertà relativa come soglia minima, senza dover così intaccare le misure di welfare oggi ancora esistenti.
Una volta declinate rigorosamente le ragioni economiche, politiche e sociali che giustificano l’introduzione di un reddito di base incondizionato, occorre ora inserire tale proposta all’interno di un più organico pacchetto di rivendicazioni per costruire un nuovo tipo di vertenza sociale. Non è nella natura di un manifesto addentrarsi nel difficile compito di tracciare una strategia politica. Tuttavia, vi è un punto che scaturisce logicamente dalla narrazione presentata e che merita di essere sottolineato, per un’eventuale trattazione futura: la centralità della tematica del welfare come ambito privilegiato di un conflitto che deve essere adeguato ai processi di valorizzazione dell’attuale capitalismo bio-cognitivo.
Più volte nel testo si fa riferimento alle lotte in corso sul terreno del welfare a partire dai movimenti delle donne come “Non una di meno” (tra le cui rivendicazioni compare non a caso la richiesta di un reddito di “autodeterminazione”). Il punto di partenza è il seguente: oggi il welfare è diventato un fattore di produzione sempre più nevralgico (al pari del consumo) ed è direttamente fonte di valore sia come sorgente di finanziarizzazione dei servizi sociali liberalizzati e privatizzati sia come perno su cui si esercita la governance dei processi vitali e relazionali. La riproduzione sociale (concetto che si estende ben otre il semplice lavoro di cura sino a comprendere la riproduzione biologica della vita e la gestione dell’intero tempo di vita) è sempre più centrale (al pari della produzione tradizionale) nel definire i sentieri dell’accumulazione capitalistica.
È in questo ambito che è possibile parlare di welfare del comune (Commonfare) come spazio di liberazione e di autodeterminazione della propria esistenza, in grado di favorire processi di sottrazione alla logica neo-liberista del ricatto e della mercificazione della vita. Risulta evidente che un reddito di base incondizionato ne costituisce uno dei perni centrali.
(…) Tutto chiaro, dunque? Niente affatto. Rimane aperta la questione di come sviluppare una vertenza sociale per un reddito incondizionato, in chiave conflittuale, in grado di incidere anche sulla dinamica salariale e sull’organizzazione del lavoro. Con l’obiettivo di essere noi a decidere “chi, come e che cosa produrre”.
Nonostante lo sviluppo (in alcune casi eroico) di conflittualità sul e nel lavoro (ne fanno fede le lotte nel settore della logistica, il collo di bottiglia della produzione per flussi del capitalismo contemporaneo), siamo costretti a riconoscere che di questi tempi i rapporti di forza sono assai sfavorevoli all’affrancamento della condizione lavorativa. Frammentazione, precarietà, debito, immaginario dell’imprenditore di se stesso e l’economia della promessa sviluppano più fattori di dumping sociale e individualismo che processi di solidarietà e ricomposizione sociale. Certo, la crisi della rappresentanza tradizionale del lavoro svolge un ruolo importante, ma non è la sola causa. Il ricatto del bisogno, acuito dalla crisi del lavoro e dalla sua svalorizzazione (con un preoccupante aumento di prestazioni sottopagate se non del tutte gratuite), è oggi dirimente e sotto gli occhi di tutte/i.
Tuttavia, riteniamo che sia proprio il limitarsi al solo conflitto sulle condizioni di lavoro a essere la causa principale dell’attuale impasse. Dedicarsi alla sola battaglia per il salario con esclusivo riferimento a quei segmenti del lavoro salariato che più ne soffrono è oggi una strategia perdente. Non che le ragioni di una tale battaglia non siano sacrosante, ma se essa non sarà svolta in un’ottica di ricomposizione sociale più ampia difficilmente riuscirà ad avere quella massa critica necessaria per iniziare un processo di trasformazione sociale anti-liberista. In una simile prospettiva, la battaglia per un reddito di base incondizionato ingloba quella salariale e favorisce quella ricomposizione sociale che oggi, in modo ottuso, alcuni settori del movimento anticapitalista non riescono a cogliere.
A quando una manifestazione nazionale per il reddito incondizionato, oltre il lavoro?

*Il Manifesto per il reddito di base di Federico Chicchi e Emanuele Leonardi (Laterza, Roma, 2018)
per la lettura integrale del testo Oltre il Manifesto per il reddito di base di Fumagalli clicca quì