di
Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto -
Pubblichiamo un estratto dell’introduzione
all’edizione italiana del volume “Nella
fabbrica globale. Vite al lavoro e resistenze operaie nei laboratori della
Foxconn” (Ombre Corte, 2015). Curato da Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto il
libro raccoglie le ricerche di giovani scienziati sociali che hanno preso “letteralmente
parte alla condizione operaia, schierando la loro scienza dalla parte dei
lavoratori che hanno incontrato”.
Il
modello produttivo della Foxconn che è qui analizzato al microscopio
costituisce senza dubbio il superamento delle forme di organizzazione del
lavoro preesistenti, ma al contempo pare esserne la sua continuazione.
Taylorismo, fordismo e toyotismo si condensano alla Foxconn in un sistema che
sovrappone la sfera della produzione a quella della riproduzione. Il processo
lavorativo incorpora quindi la dimensione dello spazio solitamente riservato
alla vita privata. Ma, diversamente dal quadro convenzionale che di norma ne dà
la descrizione, questa messa al lavoro dell’intera vita avviene grazie
all’internamento notturno degli operai in dormitori attigui alle fabbriche. La
liberazione dal lavoro è una mappa cognitiva che qui non è ancora stata
disegnata, mentre le capacità umane, le relazioni e gli affetti sono compressi
e ridotti a manifestazioni estemporanee. La violenza insita in tale sistema di
lavoro è sostenuta direttamente dallo stato come necessità per il suo sviluppo
verso il socialismo con caratteristiche cinesi. Sarebbe comodo leggere tale
modello come esclusivamente cinese, quasi esso fosse peculiare solo all’interno
dei confini nazionali, avulso dallo sviluppo del capitalismo globale. In
realtà, si tratta di tendenze allo sfruttamento che non si sono mai placate a livello
internazionale.
Tuttavia
se in Asia il capitale internazionale può appoggiarsi a diversi bacini di
giovane forza-lavoro per l’industria, le dimensioni di quelli cinesi e il
potenziale della loro mobilitazione non hanno uguali in alcun altro Paese. La
peculiarità delle migrazioni interne cinesi dello scorso venticinquennio
consiste nell’impulso all’esodo dalle campagne di circa 250 milioni di
individui, prevalentemente giovani alla ricerca di un’occupazione che essi
hanno trovato nelle periferie industriali delle grandi città. Nuove misure
politiche ed amministrative hanno in parte preceduto, in parte accompagnato e
in parte mancato l’appuntamento con i movimenti migratori. Dotati di una
scolarità di almeno nove anni e di un’intensa motivazione a procurarsi un
salario, i migranti si sono lasciati alle spalle un’economia agraria
generalmente afflitta da scarsi redditi. Dietro di loro rimangono le
generazioni anziane delle campagne che sono prive di quel peso politico che
pure la demografia e la Costituzione cinese garantirebbero loro sulla carta. Il
sistema economico attuale favorisce sia le città, e specialmente le città
costiere, sia le imprese statali con i loro manager, sia i funzionari del partito
comunista (tra i quali si conta la maggioranza degli imprenditori privati)
oltre agli investitori stranieri.
I
migranti si sono trovati a vivere negli angusti margini consentiti da
imprenditori cinesi di ritorno, da investitori e committenti stranieri e da una
classe dirigente composta da alti funzionari di partito e imprenditori. Dalla
condizione precaria e dal lavoro a ritmi serrati dei migranti nel settore
elettronico non sono scaturite – se non episodicamente – aperte campagne per la
rivendicazioni di diritti politici e di migliori condizioni di vita e di
lavoro. Tuttavia nella filigrana di questa apparente apatia si può leggere un
disagio profondo e avvertire alcune scosse, nonostante i ristretti spazi che
l’attuale situazione permette ai lavoratori migranti. Sono questi spazi di
azione che si traducono non solo nella crescente ripulsa delle occupazioni
industriali più pesanti da parte delle giovani donne, ma anche nel blocco
generale e risoluto della corsa verso il fondo dei salari e delle condizioni di
lavoro. Sono i medesimi spazi che hanno permesso le prime prove di un agire
collettivo che non rientra in un modello precostituito di “società armoniosa”.14
Non
è soltanto una storia recente. Gli studi qualificati concordano sul mutevole
divario che fin dagli anni Trenta del Novecento ha distinto i comportamenti
operai dalla funzione di guida del partito comunista cinese.15 Dopo la presa del potere
da parte del partito (1949), la prima prova di una pronunciata divergenza è la
decisione della sua dirigenza di liquidare l’autonomia del sindacato. Quando il
sindacato finisce per soccombere nel 1953, è già in corso la nazionalizzazione
delle imprese private, che genera magri risultati. Il malcontento nei confronti
del primo piano quinquennale e la diffidenza nei confronti del sindacato
subordinato al partito sfociano in pubbliche critiche ai nuovi assetti durante
la campagna dei “Cento fiori” (1956-1957), inducendo le autorità a reprimere
l’aperto dissenso che si è ampiamente manifestato. Più intensamente, i
comportamenti di fabbrica durante la Rivoluzione culturale testimoniano
l’autonomia di movimenti che sono estranei alle due linee ufficiali
contrapposte, tradizionalmente chiamate “maoista” e “revisionista”. In tale
frangente, mentre gli strati più protetti dei lavoratori dell’industria
tutelano le loro garanzie nel posto di lavoro, gli strati sottoposti al lavoro temporaneo
e al subappalto rivendicano migliori condizioni, come dimostra l’ondata delle
occupazioni di fabbrica del gennaio del 1967, benché il partito comunista
diffonda la falsa accusa che i ribelli della rivoluzione culturale sono i
sostenitori dei perdenti maoisti.
È
ancora il partito comunista, guidato da Deng Xiao-ping, che a partire dal
settembre del 1980 sopprime il Muro della democrazia, ovvero il pubblico
dibattito sull’orientamento politico del Paese e che poi apre la porta agli
investimenti diretti stranieri, all’inizio provenienti perlopiù da Taiwan e
Hong Kong. La nuova politica di espansione industriale istituisce le Zone
economiche speciali e avalla i metodi neo-tayloristici nelle fabbriche. Di
fatto vengono eliminati i margini della contrattazione sull’intensificazione
dei ritmi di lavoro. Il primo banco di prova è l’apertura (1984) di due Zone
economiche speciali nella provincia costiera del Guangdong: taglio dei tempi,
addestramento obbligatorio per l’eliminazione di “movimenti inutili” nello
svolgimento delle mansioni cronometrate, divieto di parlare, mangiare e bere
lungo le linee, potere manageriale di introdurre i cottimi, multe severe per i
ritardi al lavoro, licenziamenti in tronco per scarso rendimento.16 La durezza del nuovo
comando manageriale mette fine alle contorsioni degli apologeti del taylorismo
che fin dagli anni Sessanta del Novecento ne avevano difeso “l’uso socialista”.
La stampa ossequente degli anni Ottanta presenta come un’innovazione positiva
la tendenza invalsa nelle Zone economiche speciali “a spremere quanto più
possibile pluslavoro da queste macchine umane”.17
Quattro
diritti nei luoghi di lavoro vengono aboliti nel 1982 con emendamenti
costituzionali: libertà di parola, di opinione, di pubblicazione di manifesti,
di dibattito aperto, oltre al diritto di proclamare scioperi. Queste
restrizioni, benché variamente applicate nelle province, si accompagnano
all’allargamento della forbice salariale tra operai e strati superiori
dell’industria, all’accentramento delle decisioni di politica aziendale nelle
mani della direzione e all’introduzione di incentivi monetizzabili che si
riveleranno poi di scarso peso e di breve durata. A queste prime misure seguono
quelle, ancora più incisive, della metà degli anni Novanta, quando vengono
allargate le maglie che avevano rallentato l’arrivo di operai migranti nelle
periferie industriali. Al contempo, con la massiccia privatizzazione di imprese
statali sono licenziati circa 30 milioni di lavoratori.18 In altri termini, una parte significativa degli
operai che avevano esperito spazi di libertà e di dibattito all’interno delle
imprese statali dalla fine degli anni Sessanta ai primi anni Ottanta vengono
espulsi e sostituiti con giovani operai privi di esperienze industriali. In
tale clima, l’intenso regime lavorativo prevalente nelle Zone economiche
speciali si estende alle imprese privatizzate. Si profila il crescente divario
del trattamento riservato alle maestranze avvantaggiate delle imprese statali
rispetto alle condizioni dei licenziati e dei migranti che devono acconciarsi a
bassi salari, scarsa previdenza sociale e instabilità del posto di lavoro. La
stridente coesistenza dei due aggregati per un quarto di secolo è diventata
ormai fonte di apprensione perfino in coloro che si erano a lungo compiaciuti
dell’esperimento di decine di milioni di individui avviati all’industria con
scarse o nulle reti di protezione.
La
Foxconn è una delle aziende che ha maggiormente beneficiato di questa enorme
mobilitazione produttiva, passando dai circa 10 mila dipendenti del 1996 al
milione di occupati nel 2013. A questi si aggiungono altri 300 mila dipendenti
in altri paesi quali: Brasile, India, Malesia, Messico, Repubblica Ceca,
Repubblica Slovacca, Russia, Taiwan, Turchia, Ungheria. Una sorta di albatri
del genere Diomedea con un corpo e una mente ben piantati in Cina e le ali che
possono giungere ai quattro angoli della Terra. L’impresa taiwanese è così
diventata il terzo datore di lavoro mondiale, dopo Walmart e McDonald’s,
producendo come terzista per i principali marchi dell’IT, quali Apple, Ibm,
Hewlett & Packard, Nokia, Samsung.
Si
tratta di un sistema che nella sua spinta alla valorizzazione produce un veloce
turnover lavorativo e che, proprio per questo effetto, necessita di un
rifornimento continuo di nuovo lavoro vivo. Quando l’azienda non riesce ad
attrarre sufficienti energie fisiche e mentali nel cosiddetto mercato del
lavoro, le cerca perfino tra gli studenti degli istituti tecnici. Pur
concentrandosi sui luoghi di lavoro, questo libro permette dunque di
evidenziare come le istituzioni statali cerchino di strutturare e definire le
relazioni lavorative.
Se
nei prossimi decenni la Cina diventasse la prima potenza a livello mondiale, la
notizia del primato indurrebbe forse qualche attardato ammiratore a brindare.
In realtà, dietro alla gigantesca trasformazione della Cina sono opportunamente
occultate o quantomeno rimosse, dai più, le condizioni di lavoro di milioni di
operai migranti che sostengono l’impetuoso sviluppo. Le pagine che seguono
vogliono essere un contributo per svelare i costi insostenibili e
insopportabili di quella che è diventata la dominante vulgata della via cinese
al socialismo. La nuova classe operaia migrante cinese che vive in questi
enormi “campus” non è per niente rassegnata a sacrificare silenziosamente la
sua vita per abbassare i costi dei consumi occidentali. Le condizioni di lavoro
in Cina permettono la produzione di enormi quantità di merci che giungono nei
mercati occidentali a basso costo. Quanto più in Occidente si contraggono i
salari e le condizioni di vita, tanto più le merci che vi fluiscono dalla Cina
o da altri Paesi devono essere fruibili a basso costo. Ma, come gli ultimi due
articoli presenti in questo volume evidenziano, i livelli salariali e più in
generale le condizioni di lavoro all’interno di alcuni paesi dell’Unione
europea potrebbero presto essere ignobilmente competitivi.
Note
bibliografiche*
14
Si veda Pun Ngai, Cina, la società armoniosa. Sfruttamento e resistenza degli
operai migranti, ed. it. a cura di F. Gambino e D. Sacchetto, Jaca Book, Milano
2012. Su importanti aspetti del disagio come su altri processi di
trasformazione della società cinese è indispensabile Angela Pascucci, Potere e
società in Cina. Storie di resistenza nella grande trasformazione, Edizioni
dell’Asino, Roma 2013.
15
Jackie Sheehan, Chinese Workers. A New History, Routledge, Londra-New York
1998, sulla base di una ricerca che studia in particolare tale rapporto nel
periodo 1949-1994. Sul movimento dei “Cento fiori” nelle fabbriche cinesi, v.
lo studio di François Gipouloux, Les cent fleurs à l’usine. Agitation ouvrière
et crise du modèle Soviétique en Chine, 1956- 1957, Editions de l’Ecole des
Hautes Etudes en Sciences Sociales, Paris 1986.
16
Sheehan, Chinese Workers, cit., pp. 99-100.
17
Anita Chan, The Emerging Patterns of Industrial Relations in China and the Rise
of Two New Labor movements, in “China Information”, 9, 4, 1995, pp. 36-59, in
particolare p. 48.
18
Hao Qi, The Labor Share Question in China, in “Monthly Review”, 65, 8, 2014,
pp. 23- 35, in particolare pp. 33, 35, n. 22. L’autore si riferisce alla stima
della diminuzione del numero degli occupati nel settore delle imprese statali
dal 1995 al 2000, secondo i dati del National Statistical Bureau, China
Statistic Yearbook 2012.
* la numerazione corrisponde all'originale del testo
per la lettura integrale della prefazione clicca sotto: