sabato 7 marzo 2015

Foxconn. La fabbrica globale

di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto -

Pubblichiamo un estratto dell’introduzione all’edizione italiana del volume Nella fabbrica globale. Vite al lavoro e resistenze operaie nei laboratori della Foxconn” (Ombre Corte, 2015). Curato da Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto il libro raccoglie le ricerche di giovani scienziati sociali che hanno preso “letteralmente parte alla condizione operaia, schierando la loro scienza dalla parte dei lavoratori che hanno incontrato”.

Il modello produttivo della Foxconn che è qui analizzato al microscopio costituisce senza dubbio il superamento delle forme di organizzazione del lavoro preesistenti, ma al contempo pare esserne la sua continuazione. Taylorismo, fordismo e toyotismo si condensano alla Foxconn in un sistema che sovrappone la sfera della produzione a quella della riproduzione. Il processo lavorativo incorpora quindi la dimensione dello spazio solitamente riservato alla vita privata. Ma, diversamente dal quadro convenzionale che di norma ne dà la descrizione, questa messa al lavoro dell’intera vita avviene grazie all’internamento notturno degli operai in dormitori attigui alle fabbriche. La liberazione dal lavoro è una mappa cognitiva che qui non è ancora stata disegnata, mentre le capacità umane, le relazioni e gli affetti sono compressi e ridotti a manifestazioni estemporanee. La violenza insita in tale sistema di lavoro è sostenuta direttamente dallo stato come necessità per il suo sviluppo verso il socialismo con caratteristiche cinesi. Sarebbe comodo leggere tale modello come esclusivamente cinese, quasi esso fosse peculiare solo all’interno dei confini nazionali, avulso dallo sviluppo del capitalismo globale. In realtà, si tratta di tendenze allo sfruttamento che non si sono mai placate a livello internazionale.
Tuttavia se in Asia il capitale internazionale può appoggiarsi a diversi bacini di giovane forza-lavoro per l’industria, le dimensioni di quelli cinesi e il potenziale della loro mobilitazione non hanno uguali in alcun altro Paese. La peculiarità delle migrazioni interne cinesi dello scorso venticinquennio consiste nell’impulso all’esodo dalle campagne di circa 250 milioni di individui, prevalentemente giovani alla ricerca di un’occupazione che essi hanno trovato nelle periferie industriali delle grandi città. Nuove misure politiche ed amministrative hanno in parte preceduto, in parte accompagnato e in parte mancato l’appuntamento con i movimenti migratori. Dotati di una scolarità di almeno nove anni e di un’intensa motivazione a procurarsi un salario, i migranti si sono lasciati alle spalle un’economia agraria generalmente afflitta da scarsi redditi. Dietro di loro rimangono le generazioni anziane delle campagne che sono prive di quel peso politico che pure la demografia e la Costituzione cinese garantirebbero loro sulla carta. Il sistema economico attuale favorisce sia le città, e specialmente le città costiere, sia le imprese statali con i loro manager, sia i funzionari del partito comunista (tra i quali si conta la maggioranza degli imprenditori privati) oltre agli investitori stranieri.
I migranti si sono trovati a vivere negli angusti margini consentiti da imprenditori cinesi di ritorno, da investitori e committenti stranieri e da una classe dirigente composta da alti funzionari di partito e imprenditori. Dalla condizione precaria e dal lavoro a ritmi serrati dei migranti nel settore elettronico non sono scaturite – se non episodicamente – aperte campagne per la rivendicazioni di diritti politici e di migliori condizioni di vita e di lavoro. Tuttavia nella filigrana di questa apparente apatia si può leggere un disagio profondo e avvertire alcune scosse, nonostante i ristretti spazi che l’attuale situazione permette ai lavoratori migranti. Sono questi spazi di azione che si traducono non solo nella crescente ripulsa delle occupazioni industriali più pesanti da parte delle giovani donne, ma anche nel blocco generale e risoluto della corsa verso il fondo dei salari e delle condizioni di lavoro. Sono i medesimi spazi che hanno permesso le prime prove di un agire collettivo che non rientra in un modello precostituito di “società armoniosa”.14

Non è soltanto una storia recente. Gli studi qualificati concordano sul mutevole divario che fin dagli anni Trenta del Novecento ha distinto i comportamenti operai dalla funzione di guida del partito comunista cinese.15 Dopo la presa del potere da parte del partito (1949), la prima prova di una pronunciata divergenza è la decisione della sua dirigenza di liquidare l’autonomia del sindacato. Quando il sindacato finisce per soccombere nel 1953, è già in corso la nazionalizzazione delle imprese private, che genera magri risultati. Il malcontento nei confronti del primo piano quinquennale e la diffidenza nei confronti del sindacato subordinato al partito sfociano in pubbliche critiche ai nuovi assetti durante la campagna dei “Cento fiori” (1956-1957), inducendo le autorità a reprimere l’aperto dissenso che si è ampiamente manifestato. Più intensamente, i comportamenti di fabbrica durante la Rivoluzione culturale testimoniano l’autonomia di movimenti che sono estranei alle due linee ufficiali contrapposte, tradizionalmente chiamate “maoista” e “revisionista”. In tale frangente, mentre gli strati più protetti dei lavoratori dell’industria tutelano le loro garanzie nel posto di lavoro, gli strati sottoposti al lavoro temporaneo e al subappalto rivendicano migliori condizioni, come dimostra l’ondata delle occupazioni di fabbrica del gennaio del 1967, benché il partito comunista diffonda la falsa accusa che i ribelli della rivoluzione culturale sono i sostenitori dei perdenti maoisti.
È ancora il partito comunista, guidato da Deng Xiao-ping, che a partire dal settembre del 1980 sopprime il Muro della democrazia, ovvero il pubblico dibattito sull’orientamento politico del Paese e che poi apre la porta agli investimenti diretti stranieri, all’inizio provenienti perlopiù da Taiwan e Hong Kong. La nuova politica di espansione industriale istituisce le Zone economiche speciali e avalla i metodi neo-tayloristici nelle fabbriche. Di fatto vengono eliminati i margini della contrattazione sull’intensificazione dei ritmi di lavoro. Il primo banco di prova è l’apertura (1984) di due Zone economiche speciali nella provincia costiera del Guangdong: taglio dei tempi, addestramento obbligatorio per l’eliminazione di “movimenti inutili” nello svolgimento delle mansioni cronometrate, divieto di parlare, mangiare e bere lungo le linee, potere manageriale di introdurre i cottimi, multe severe per i ritardi al lavoro, licenziamenti in tronco per scarso rendimento.16 La durezza del nuovo comando manageriale mette fine alle contorsioni degli apologeti del taylorismo che fin dagli anni Sessanta del Novecento ne avevano difeso “l’uso socialista”. La stampa ossequente degli anni Ottanta presenta come un’innovazione positiva la tendenza invalsa nelle Zone economiche speciali “a spremere quanto più possibile pluslavoro da queste macchine umane”.17
Quattro diritti nei luoghi di lavoro vengono aboliti nel 1982 con emendamenti costituzionali: libertà di parola, di opinione, di pubblicazione di manifesti, di dibattito aperto, oltre al diritto di proclamare scioperi. Queste restrizioni, benché variamente applicate nelle province, si accompagnano all’allargamento della forbice salariale tra operai e strati superiori dell’industria, all’accentramento delle decisioni di politica aziendale nelle mani della direzione e all’introduzione di incentivi monetizzabili che si riveleranno poi di scarso peso e di breve durata. A queste prime misure seguono quelle, ancora più incisive, della metà degli anni Novanta, quando vengono allargate le maglie che avevano rallentato l’arrivo di operai migranti nelle periferie industriali. Al contempo, con la massiccia privatizzazione di imprese statali sono licenziati circa 30 milioni di lavoratori.18 In altri termini, una parte significativa degli operai che avevano esperito spazi di libertà e di dibattito all’interno delle imprese statali dalla fine degli anni Sessanta ai primi anni Ottanta vengono espulsi e sostituiti con giovani operai privi di esperienze industriali. In tale clima, l’intenso regime lavorativo prevalente nelle Zone economiche speciali si estende alle imprese privatizzate. Si profila il crescente divario del trattamento riservato alle maestranze avvantaggiate delle imprese statali rispetto alle condizioni dei licenziati e dei migranti che devono acconciarsi a bassi salari, scarsa previdenza sociale e instabilità del posto di lavoro. La stridente coesistenza dei due aggregati per un quarto di secolo è diventata ormai fonte di apprensione perfino in coloro che si erano a lungo compiaciuti dell’esperimento di decine di milioni di individui avviati all’industria con scarse o nulle reti di protezione.
La Foxconn è una delle aziende che ha maggiormente beneficiato di questa enorme mobilitazione produttiva, passando dai circa 10 mila dipendenti del 1996 al milione di occupati nel 2013. A questi si aggiungono altri 300 mila dipendenti in altri paesi quali: Brasile, India, Malesia, Messico, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Russia, Taiwan, Turchia, Ungheria. Una sorta di albatri del genere Diomedea con un corpo e una mente ben piantati in Cina e le ali che possono giungere ai quattro angoli della Terra. L’impresa taiwanese è così diventata il terzo datore di lavoro mondiale, dopo Walmart e McDonald’s, producendo come terzista per i principali marchi dell’IT, quali Apple, Ibm, Hewlett & Packard, Nokia, Samsung.
Si tratta di un sistema che nella sua spinta alla valorizzazione produce un veloce turnover lavorativo e che, proprio per questo effetto, necessita di un rifornimento continuo di nuovo lavoro vivo. Quando l’azienda non riesce ad attrarre sufficienti energie fisiche e mentali nel cosiddetto mercato del lavoro, le cerca perfino tra gli studenti degli istituti tecnici. Pur concentrandosi sui luoghi di lavoro, questo libro permette dunque di evidenziare come le istituzioni statali cerchino di strutturare e definire le relazioni lavorative.
Se nei prossimi decenni la Cina diventasse la prima potenza a livello mondiale, la notizia del primato indurrebbe forse qualche attardato ammiratore a brindare. In realtà, dietro alla gigantesca trasformazione della Cina sono opportunamente occultate o quantomeno rimosse, dai più, le condizioni di lavoro di milioni di operai migranti che sostengono l’impetuoso sviluppo. Le pagine che seguono vogliono essere un contributo per svelare i costi insostenibili e insopportabili di quella che è diventata la dominante vulgata della via cinese al socialismo. La nuova classe operaia migrante cinese che vive in questi enormi “campus” non è per niente rassegnata a sacrificare silenziosamente la sua vita per abbassare i costi dei consumi occidentali. Le condizioni di lavoro in Cina permettono la produzione di enormi quantità di merci che giungono nei mercati occidentali a basso costo. Quanto più in Occidente si contraggono i salari e le condizioni di vita, tanto più le merci che vi fluiscono dalla Cina o da altri Paesi devono essere fruibili a basso costo. Ma, come gli ultimi due articoli presenti in questo volume evidenziano, i livelli salariali e più in generale le condizioni di lavoro all’interno di alcuni paesi dell’Unione europea potrebbero presto essere ignobilmente competitivi.

Note bibliografiche*
14 Si veda Pun Ngai, Cina, la società armoniosa. Sfruttamento e resistenza degli operai migranti, ed. it. a cura di F. Gambino e D. Sacchetto, Jaca Book, Milano 2012. Su importanti aspetti del disagio come su altri processi di trasformazione della società cinese è indispensabile Angela Pascucci, Potere e società in Cina. Storie di resistenza nella grande trasformazione, Edizioni dell’Asino, Roma 2013.
15 Jackie Sheehan, Chinese Workers. A New History, Routledge, Londra-New York 1998, sulla base di una ricerca che studia in particolare tale rapporto nel periodo 1949-1994. Sul movimento dei “Cento fiori” nelle fabbriche cinesi, v. lo studio di François Gipouloux, Les cent fleurs à l’usine. Agitation ouvrière et crise du modèle Soviétique en Chine, 1956- 1957, Editions de l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Paris 1986.
16 Sheehan, Chinese Workers, cit., pp. 99-100.
17 Anita Chan, The Emerging Patterns of Industrial Relations in China and the Rise of Two New Labor movements, in “China Information”, 9, 4, 1995, pp. 36-59, in particolare p. 48.
18 Hao Qi, The Labor Share Question in China, in “Monthly Review”, 65, 8, 2014, pp. 23- 35, in particolare pp. 33, 35, n. 22. L’autore si riferisce alla stima della diminuzione del numero degli occupati nel settore delle imprese statali dal 1995 al 2000, secondo i dati del National Statistical Bureau, China Statistic Yearbook 2012.

* la numerazione corrisponde all'originale del testo 

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