di Anna
Curcio
Pochi giorni fa ci ha
lasciati Stuart Hall, figura di grande importanza del pensiero radicale
dell’ultimo mezzo secolo. Animatore dei cultural studies e della critica
postcoloniale, ci lascia studi e scritti fondamentali sulle sottoculture
giovanili, sul razzismo, sul thatcherismo, sul rapporto tra capitalismo e
colonialismo, sulla produzione delle identità migranti e diasporiche. Per
ricordare l’importanza di Stuart Hall, mettiamo a disposizione la sua conversazione
con Miguel Mellino dal titolo La Cultura e il potere.
Conversazione sui cultural studies (scarica il pdf). Lo accompagniamo con la recensione di Anna
Curcio, uscita a pochi mesi dalla pubblicazione del volume
Capire
il presente vuol dire rovesciare l’ottica parziale della tradizione europea,
spiazzare il punto di vista e analizzare la pluralità delle forme di dominio e
sfruttamento così come delle esperienze di lotta e insubordinazione che
accompagnano la produzione capitalistica. È questa, in estrema sintesi, la
proposta di La Cultura e il potere. Conversazione sui cultural studies (Meltemi
2007, pp.66, € 10), dialogo a due voci tra Stuart Hall, figura chiave del
panorama intellettuale europeo degli ultimi cinquanta anni, e Miguel Mellino,
attento interprete critico del dibattito postcoloniale in Italia. È un’agile
introduzione ai Cultural Studies, che spazia tra i momenti più significativi
dell’esperienza, gli aspetti controversi del dibattito, la diffusione oltre i
confini geografici della Gran Bretagna e l’istituzionalizzazione del campo di
studi, concentrandosi sui temi della razza, dell’etnicità e della diaspora.
Chi
fa cultural studies, è noto, lavora sul nesso cultura-potere alla ricerca di
«ciò che cambia», di «ciò che è storicamente specifico»; identifica, per dirla
con Hall, «le differenze nella continuità» e l’ambivalenza dei processi.
Analogamente, di ambivalenze, discontinuità e pluralità di esperienze è fatto
il presente «postcoloniale». Rotto il compromesso welfarista del novecento, al
contempo conquista e pacificazione della conflittualità operaia e delle lotte
di donne, studenti e antirazzisti, le coordinate dello sfruttamento
capitalistico hanno assunto una nuova dimensione spaziale e temporale. Le
multinazionali hanno dislocato la produzione, «la sede a Manhattan e i
lavoratori in Indonesia», ripristinando gli antichi rapporti coloniali
all’interno di una nuova configurazione politica, sociale ed economica. Mentre
il lavoro vivo – sempre meno coincidente con l’operaio, maschio, bianco di cui
“grande fabbrica” e fordismo si sono nutriti – si è messo in movimento
valicando confini simbolici e materiali, rimanendo imbrigliato in nuove
gerarchie da attraversare e rovesciare. Per riprodursi, il capitalismo
contemporaneo costruisce frontiere e passaggi lungo le differenze di sesso,
etnia, religione, nazionalità. Segmenta il mercato del lavoro così come le
relazioni sociali e lo spazio della cittadinanza: dentro chi sa essere
produttivo e si assimila al modello egemonico delle whiteness,
fuori tutti gli altri. Un processo di inclusione selettiva e di etnicizzazione
delle differenze, trama del progetto multiculturalista.
Il New
Labour britannico, nella conversazione tra Hall e Mellino, è attore di
una «strategia neocivilizzatrice», un progetto storico di «(auto)costruzione
egemonica» pervaso dalla logica del mercato. «Deve produrre soggettività per
immettere le persone nelle proprie “strutture del sentire”» e così facendo intreccia
«i modi di pensare, i media, la cultura, la lingua, la filosofia, l’economia,
la Chiesa». È un processo aperto, sempre reversibile, aleatorio nei
termini di Althusser, che vive tra forme disciplinari e di controllo, e momenti
di insubordinazione e rottura conflittuale. Da una parte l’ansia securitaria e
l’assimilazione alla Britishness, dall’altra la surdeterminazione del
sentimento religioso, ovvero la produzione di conflitti lungo le nuove linee di
stratificazione della società britannica postcoloniale: la crescente attenzione
dei giovani musulmani britannici per gli imam radicali così come la
rivendicazione all’uso del hijab da parte di ragazze anche
giovanissime.
Ma
la politicizzazione delle differenze – dell’Islam in questo caso – è un
processo delicato, dal portato ambivalente. Le differenze sono un prodotto del
capitalismo, non solo spazio di resistenza alle discriminazioni e allo
sfruttamento. Possono dunque riprodurre linee di separazione e barriere, e
sostenere la produzione di identità chiuse e separate che resistono al
cambiamento, riproponendo il fantasma dello scontro di civiltà. Compito di chi
fa Cultural Studies diventa dunque indagare la condizione politica e culturale
dei soggetti, problematizzare i comportamenti: agency, soggettività, resistenza
culturale, articolazione delle differenze e sutura dell’identità, sono gli
strumenti analitici.
Stuart
Hall è un intellettuale diasporico: in prima persona ha fatto i
conti con «la cultura del colonial-master a casa “sua”», ha dislocato la sua
esperienza attraverso confini geografici e disciplinari. La diaspora è il filo
conduttore della sua riflessione; un progetto di disseminazione, di
ibridazione dell’esperienza culturale, legato al colonialismo, alla schiavitù,
alle migrazioni forzate e volontarie, alla governance neoliberista.
È Una condizione comune del presente e, tuttavia, un concetto controverso: a
tratti «estetizzante», a tratti incapace di rovesciare la retorica
essenzialista dello scontro di civiltà, di «spezzare la gabbia “razziale” o gli
“orientalismi” costruiti dal potere». Certo è che la diaspora segnala la
necessità di mettersi in traduzione, di articolare le differenze: rompere
confini e barriere per produrre nodi, legami, giunture. E questo non può darsi
al di fuori del potere. I Cultural Studies non possono dunque chiudersi dentro
un vuoto formalismo, devono al contrario operare con «spirito antagonista»,
«connessi con la critica politica del regime al potere». E quando questo non si
dà, sono finiti fuoristrada.