domenica 16 febbraio 2014

Oltre i confini delle nuove geografie del potere

di Anna Curcio

Pochi giorni fa ci ha lasciati Stuart Hall, figura di grande importanza del pensiero radicale dell’ultimo mezzo secolo. Animatore dei cultural studies e della critica postcoloniale, ci lascia studi e scritti fondamentali sulle sottoculture giovanili, sul razzismo, sul thatcherismo, sul rapporto tra capitalismo e colonialismo, sulla produzione delle identità migranti e diasporiche. Per ricordare l’importanza di Stuart Hall, mettiamo a disposizione la sua conversazione con Miguel Mellino dal titolo La Cultura e il potere. Conversazione sui cultural studies (scarica il pdf). Lo accompagniamo con la recensione di Anna Curcio, uscita a pochi mesi dalla pubblicazione del volume

Capire il presente vuol dire rovesciare l’ottica parziale della tradizione europea, spiazzare il punto di vista e analizzare la pluralità delle forme di dominio e sfruttamento così come delle esperienze di lotta e insubordinazione che accompagnano la produzione capitalistica. È questa, in estrema sintesi, la proposta di La Cultura e il potere. Conversazione sui cultural studies (Meltemi 2007, pp.66, € 10), dialogo a due voci tra Stuart Hall, figura chiave del panorama intellettuale europeo degli ultimi cinquanta anni, e Miguel Mellino, attento interprete critico del dibattito postcoloniale in Italia. È un’agile introduzione ai Cultural Studies, che spazia tra i momenti più significativi dell’esperienza, gli aspetti controversi del dibattito, la diffusione oltre i confini geografici della Gran Bretagna e l’istituzionalizzazione del campo di studi, concentrandosi sui temi della razza, dell’etnicità e della diaspora.
Chi fa cultural studies, è noto, lavora sul nesso cultura-potere alla ricerca di «ciò che cambia», di «ciò che è storicamente specifico»; identifica, per dirla con Hall, «le differenze nella continuità» e l’ambivalenza dei processi. Analogamente, di ambivalenze, discontinuità e pluralità di esperienze è fatto il presente «postcoloniale». Rotto il compromesso welfarista del novecento, al contempo conquista e pacificazione della conflittualità operaia e delle lotte di donne, studenti e antirazzisti, le coordinate dello sfruttamento capitalistico hanno assunto una nuova dimensione spaziale e temporale. Le multinazionali hanno dislocato la produzione, «la sede a Manhattan e i lavoratori in Indonesia», ripristinando gli antichi rapporti coloniali all’interno di una nuova configurazione politica, sociale ed economica. Mentre il lavoro vivo – sempre meno coincidente con l’operaio, maschio, bianco di cui “grande fabbrica” e fordismo si sono nutriti – si è messo in movimento valicando confini simbolici e materiali, rimanendo imbrigliato in nuove gerarchie da attraversare e rovesciare. Per riprodursi, il capitalismo contemporaneo costruisce frontiere e passaggi lungo le differenze di sesso, etnia, religione, nazionalità. Segmenta il mercato del lavoro così come le relazioni sociali e lo spazio della cittadinanza: dentro chi sa essere produttivo e si assimila al modello egemonico delle whiteness, fuori tutti gli altri. Un processo di inclusione selettiva e di etnicizzazione delle differenze, trama del progetto multiculturalista.

Il New Labour britannico, nella conversazione tra Hall e Mellino, è attore di una «strategia neocivilizzatrice», un progetto storico di «(auto)costruzione egemonica» pervaso dalla logica del mercato. «Deve produrre soggettività per immettere le persone nelle proprie “strutture del sentire”» e così facendo intreccia «i modi di pensare, i media, la cultura, la lingua, la filosofia, l’economia, la Chiesa». È un processo aperto, sempre reversibile, aleatorio nei termini di Althusser, che vive tra forme disciplinari e di controllo, e momenti di insubordinazione e rottura conflittuale. Da una parte l’ansia securitaria e l’assimilazione alla Britishness, dall’altra la surdeterminazione del sentimento religioso, ovvero la produzione di conflitti lungo le nuove linee di stratificazione della società britannica postcoloniale: la crescente attenzione dei giovani musulmani britannici per gli imam radicali così come la rivendicazione all’uso del hijab da parte di ragazze anche giovanissime.
Ma la politicizzazione delle differenze – dell’Islam in questo caso – è un processo delicato, dal portato ambivalente. Le differenze sono un prodotto del capitalismo, non solo spazio di resistenza alle discriminazioni e allo sfruttamento. Possono dunque riprodurre linee di separazione e barriere, e sostenere la produzione di identità chiuse e separate che resistono al cambiamento, riproponendo il fantasma dello scontro di civiltà. Compito di chi fa Cultural Studies diventa dunque indagare la condizione politica e culturale dei soggetti, problematizzare i comportamenti: agency, soggettività, resistenza culturale, articolazione delle differenze e sutura dell’identità, sono gli strumenti analitici.
Stuart Hall è un intellettuale diasporico: in prima persona ha fatto i conti con «la cultura del colonial-master a casa “sua”», ha dislocato la sua esperienza attraverso confini geografici e disciplinari. La diaspora è il filo conduttore della sua riflessione; un progetto di disseminazione, di ibridazione dell’esperienza culturale, legato al colonialismo, alla schiavitù, alle migrazioni forzate e volontarie, alla governance neoliberista. È Una condizione comune del presente e, tuttavia, un concetto controverso: a tratti «estetizzante», a tratti incapace di rovesciare la retorica essenzialista dello scontro di civiltà, di «spezzare la gabbia “razziale” o gli “orientalismi” costruiti dal potere». Certo è che la diaspora segnala la necessità di mettersi in traduzione, di articolare le differenze: rompere confini e barriere per produrre nodi, legami, giunture. E questo non può darsi al di fuori del potere. I Cultural Studies non possono dunque chiudersi dentro un vuoto formalismo, devono al contrario operare con «spirito antagonista», «connessi con la critica politica del regime al potere». E quando questo non si dà, sono finiti fuoristrada.