di Toni Negri
L’etica è riconoscimento e difesa di una resistenza che non può essere
riassunta in una qualsiasi dialettica, del capitale, dello Stato o del partito.
L’etica è piuttosto il fondamento di una dialettica negativa, dove
l’antagonismo soggettivo di classe riconosce la rottura, meglio,
l’impossibilità di ogni mediazione capitalistica in termini strategici
Se
di quel groviglio di prospettive teoriche, di progetti filosofici, di
iniziative e di nuove pratiche politiche, sorto e sviluppatosi fra il ’60 e la
fine secolo in Italia, se dunque di questo groviglio qualcuno non facesse un
insieme, magari plurale o dialettico, chiamandolo Italian Theory –
non ci sarebbe nulla da replicare. Come gli americani hanno fatto mettendo
assieme, nella French Theory, Derrida e Deleuze, Bataille e
Foucault, Althusser e Lyotard, senza pretendere matrici comuni e solo invece
costruendo un ambito, un territorio, un’epoca. In Italia, oltre ad essere
difficilmente identificabile un ambito ricopribile da una sigla unitaria, la
situazione è complicata dal fatto che quel territorio e quel tratto temporale,
più che da un pensiero, furono riempiti da un conflitto politico assai
drammatico. La filosofia nacque e si dispose dentro quel conflitto. L’origine
di un’eventuale Italian Theory ha dunque caratteristiche difficilmente
riconducibili ad una qualsiasi comune condizione storica e teoretica. Se il
mondo accademico gli è totalmente estraneo, quello sociale è scisso da
conflitti di classe e politici prossimi alla guerra civile. All’origine di quel
groviglio non si può certo narrare una teoria politica; al massimo, nei suoi
anfratti, si potranno riconoscere degli strumenti di lotta politica. La cassetta
degli attrezzi precede tutto il resto.
Alle
origini c’è la critica del gramscismo e della sua interpretazione togliattiana.
Quest’interpretazione si pretendeva come tradizione filosofica che si voleva
egemone, fondata su supposti caratteri nazional-popolari della storia italiana,
ma non sdegnando di raccogliere, assieme alle bandiere che la borghesia aveva
lasciato cadere nel fango, anche il sapere politico dell’agire sovrano e della
mediazione sociale, proprio delle classi dirigenti d’antan. Nello
storicismo si confondevano continuità dello Stato ed innovazione socialista: un
gigantesco Tocqueville troneggiava sul togliattismo. Lo sfondo su cui si
articola lo storicismo del PCI è vasto e profondo. Esso tende ad investire lo
sviluppo capitalistico con una critica che non è alternativa progressista –
l’alternativa è rinviata a quando lo sviluppo avrà ricoperto completamente la
società, i dualismi della storia italica saranno tolti, la corruzione interna
al sistema sarà evacuata e la bella società nazional-popolare sarà matura al
socialismo. A questa dolciastra ideologia si cominciano ad opporre alcune
critiche diffuse a partire dalla seconda metà degli anni 50. Una figura
centrale è quella di Franco Fortini. Con ascendenti brechtiani e benjaminiani,
ma soprattutto giovin-luckacsiani egli propone una critica feroce del
“nazional-popolare” e dello storicismo crociano cui il gramscismo aveva finito
per essere identificato. In questa critica confluiscono anche strati della
cultura della sinistra cattolica del tempo, di Felice Baibo e di tanti altri e
di un certo radicalismo liberale di origine gobettiana. Ma soprattutto è
fondamentale il fatto che dall’interno di questo insorgere critico, nasce e si
diffonde una nuova figura di militante di base, che fa rinascere il marxismo
dall’indagine di fabbrica e dalla sua estensione sociale – esso porta la
richiesta di un’alterità radicale sin dall’inizio. È una sorta di sociologia
militante, assai selvaggia in Montaldi e Alquati, che coinvolge tuttavia al suo
interno intellettuali del rango di Pizzorno e Momigliano, si estende al di là
della ricerca sociologica fino alle pratiche mediche e psichiatriche di
Basaglia, Terzian, Maccacaro, etc. Una politica nuova si fa combattendo contro
il potere, una filosofia nuova militando con gli sfruttati.
Raniero
Panzieri è il prodotto di questa cultura alternativa, pur provenendo da una
lunga militanza culturale comunista. Traduce il Secondo libro de Il
Capitale sulla circolazione. Su questa base si lega
all’interpretazione francofortese del capitalismo maturo proposta da Pollock.
Comincia ad indagare il “capitalismo sociale” – cioè ad attaccare l’immagine
profondamente pessimista di un mondo compatto, formattato univocamente dal
potere capitalista, che la teoria della scuola di Francoforte ci aveva, nei
suoi episodi finali, regalato. All’incantesimo del metodo (il capitale che
investe l’intera società, la produzione che si estende nella circolazione,
l’uomo che diventa macchina) segue – nota Panzieri – un blocco della ricerca.
Ma soprattutto un blocco dei movimenti, della lotta, dei processi di
emancipazione. Fin dal principio la reazione dei Quaderni Rossi a
quest’immagine di una società capitalista bloccata, di cui i massimi sacerdoti
sono identificati a torto o a ragione in una linea di pensiero che va da Max
Weber alla Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkeimer,
investe la fabbrica e la società, la vita operaia e quella della città – come
territori della lotta di classe e come realtà politica. È a partire da questa
percezione biopolitica che la cassetta degli attrezzi si organizza.
Si
può aggiungere qui che Panzieri e i suoi amici non erano soli. Anche in taluni
ambienti accademici la reazione alla duplice influenza del gramscismo
togliattiano e del pessimismo francofortese era emersa. Sia sul terreno della
fenomenologia (Paci e Semerari), sia sul terreno di una filosofia pragmatica e
neo-positivista, Preti e il proto-linguista Rossi-Landi, insistevano
sull’importanza della “relazione” fenomenologica e riattaccandosi all’ultimo
Husserl o al secondo Wittgenstein esigevano una radicale rottura con ogni forma
di hegelismo residuo. Personalmente penso che questo sfondo teoretico sia stato
molto più importante, nell’elaborazione di un pensiero dell’alternativa, di
quello che la storiografia accademica insiste esser stata la critica
dellavolpiana. Non era sulla base di un logicismo protervo ed irrazionalista
(di cui l’ultimo prodotto fu Colletti) che si poteva reinventare il quadro
filosofico di una critica che investiva la vita. L’eresia fenomenologica
italiana fu a questo scopo molto più efficace.
Con
Mario Tronti la rottura con l’interpretazione francofortese del capitalismo
maturo giunge al suo apice. Non si nega qui che il capitale abbia colonizzato
interamente la società, si nega semplicemente che questo sia un fenomeno
economico, necessario – che il concetto stesso di capitale sia unitario,
trascendente, fondazione del politico e della vita. No – la valorizzazione
capitalista si fa sulla/contro la resistenza operaia. Alla soggettività indubbia
dell’iniziativa capitalista, del “capitale costante”, del capitale-padrone
risponde la soggettività del “capitale variabile”, del capitale-operaio – al
potere risponde la vita. Insomma, Tronti ci offre un Marx riadattato alla lotta
politica nel presente, riproponendo adeguate caratteristiche soggettive del
capitale variabile. La soggettivazione è radicale: essa si pone in rottura con
tutte le linee dell’hegelismo presenti sul mercato del sapere italiano –
riscopre il carattere antagonista del rapporto di capitale, e quindi la durezza
del capitale variabile, dentro il concetto generale di capitale. Il recupero
dell’originaria intuizione marxiana si ha allora compiutamente
nell’affermazione che sono le lotte che producono lo sviluppo capitalistico, che
è la forza-lavoro organizzata che costruisce la storia. La soggettivazione si
approfondisce fino al punto di considerare, contro l’intera tradizione
leninista, che la strategia della distruzione storica della società borghese
appartiene direttamente alla classe operaia, mentre al partito,
all’intellettualità dirigente, appartiene solamente la possibilità di elaborare
una tattica, un modo di gestione del rapporto fra lotte e Stato. La meccanica
social-democratica che vedeva la tendenza capitalista dello sviluppo produrre
le condizioni della rivoluzione socialista, viene dissacrata e l’elaborazione
della tendenza ricondotta alla soggettivazione della classe operaia. L’elemento
teorico nasce all’interno di una politica che investe la vita e che scopre in
ciò i dispositivi di distruzione del dominio capitalista.
La
soggettivazione della rottura politica si svolge dunque all’interno delle
lotte. Qui c’è, nella rottura, il risalto di un’etica. Essa si rivela nel
rovesciamento immediato della funzione intellettuale, in una Beruf weberiana
completamente rovesciata, antagonista piuttosto che funzionale, partecipe del
destino operaio piuttosto che produttrice, dall’alto, di ideologia. È il
rovesciamento della teoria nella pratica. L’etica è riconoscimento e difesa di
una resistenza che non può essere riassunta in una qualsiasi dialettica, del
capitale, dello Stato o del partito. L’etica è piuttosto il fondamento di una
dialettica negativa, dove l’antagonismo soggettivo di classe riconosce la
rottura, meglio, l’impossibilità di ogni mediazione capitalistica in termini
strategici. Di qui, tuttavia, proprio in questa rottura, si dà la capacità di
vivere e di definire una tendenza che nelle lotte si afferma, una produzione di
soggettività che si dispone nella lunga temporalità. Il concetto di tendenza
qualifica una vera e propria gnoseologia ed epistemologia dell’agire. Una sorta
di approccio biopolitico si dipana non semplicemente come potenza conoscitiva
del capitale e del suo sviluppo ma come politica nella vita e della vita. Ci
sono tre punti, almeno, che qui risaltano. Il primo consiste in un’analisi dei
regimi salariali che dalla fabbrica trascorrono nella società, la investono
nella sua generalità, definiscono lo stato sociale presente e la sua continua
crisi. In questo trascorrere dalla fabbrica alla società l’analisi del salario
riarticola il rapporto fra bisogni e produzione sociale, fra consumi e
comportamenti collettivi, fra organizzazione della fabbrica ed organizzazione
della famiglia e della “società civile”. Un secondo terreno di analisi è quello
che riguarda la composizione politica del “salariato”. Qui la storia dei modi
di produzione riprende il grande affresco marxiano dall’accumulazione
originaria fino alla società industriale, dalla sussunzione formale alla sussunzione
reale, e dentro questo nesso storico definisce le linee di lettura delle forme
e figure istituzionali. La storia dei modi di produzione è storia dei modi di
dominazione. È qui che la teoria operaista si collega direttamente, alla sua
nascita, con le teorie della regolazione francesi e con la fenomenologia
economica dello sviluppo dei neo-marxisti tedeschi (Hirsch, Offe, etc.). La
soggettivazione capitalista e la soggettivazione proletaria vivono dentro
un’articolazione comune, rotta dalle lotte, riprodotta in un continuo
configurarsi istituzionale del processo. Su un terzo terreno si sviluppa
l’analisi, ed è quello sul quale la composizione tecnica del lavoro, della
classe operaia, giunge ad approfondirsi nell’analisi del rapporto uomo-macchina
in tutta la ricchezza delle trasformazioni che questo rapporto implica. È
soprattutto su questo terreno che la sociologia e l’antropologia tedesche
vengono riprese ed immediatamente trasformate in utensile nell’organizzazione
delle lotte.
C’è
dunque un intero orizzonte generico nel quale e sul quale si scontrano la vita
e il biopotere. Questa opposizione sta alla base dello sviluppo della filosofia
politica nuova negli anni 60, contro ogni storicismo ed ogni permanenza o
reviviscenza di un hegelismo dialettico. Si tratta allora di un’atmosfera
diffusa nel pensiero europeo. Questa rottura dell’onto-teleologia occidentale
trovava allora anche in Habermas un riconoscimento. I primi passi di Habermas,
nella sua rottura con l’orizzonte di impotenze che era il lascito della Scuola
di Francoforte, consiste nella riscoperta dello Hegel jenese e quindi di un
meccanismo aperto dell’interrelazione sociale. Quella frattura va
drammatizzata, secondo il primo Habermas, e risolta dalla mediazione
comunicativa. È una sorta di ultimo, flaccido neo-kantismo, quello che ci viene
proposto. È esattamente quello che quell’origine italiana di un pensiero delle
lotte nega. La fenomenologia non più semplicemente del capitale ma di un
capitalismo che ha investito la vita, il quadro francofortese cioè, è anche qui
assunto ma piegato ad una definizione antagonista del biopotere: essa non trova
soluzione intellettuale. Il senso di questa crisi può essere recuperato
solamente attraverso un’immersione etica, una rottura epistemologica ed un nuovo
orientamento politico. L’analisi si sposta dall’alto al basso, è condotta
dall’interno, non ammette cesure, assume la soggettivazione come terreno
imprescindibile di ogni ragionamento filosofico.
Il
nesso antagonista fra rapporti di produzione e forze produttive, tra
soggettivazione del dominio capitalista e soggettivazione prodotta dai
comportamenti della forza-lavoro sociale si accentua ed è man mano resa
drammatica dalla trasformazione dei rapporti di forza dentro questa polarità
antagonista. D’altra parte, il capitalismo investe sempre più la vita in
termini “estrattivi” di plus-valore quando la società intera, la vita intera,
sono diventate produttive – ma su questo medesimo terreno si scorge la tendenza
della società produttiva a riappropriarsi di un’autonomia sempre più
significativa ed importante. Al contesto biopolitico si oppone così in maniera
sempre più evidente un biopotere – e la resistenza si configura, nella
tendenza, in termini sempre più autonomi, costituenti ed istituenti.
Ma
la tendenza è presto sotto attacco. La si accusa di proporre sostituti
teleologici e contesti storicisti alla critica di ogni Aufhebung possibile.
Ma questa accusa non tocca il suo obiettivo: la sola teleologia possibile è
infatti, nella filosofia nuova, quella del punto di vista dell’azione e il solo
storicismo ammesso è quello del riconoscimento della sua storicità. Di contro,
si vuole che l’assunzione di una dialettica negativa non abbia soluzioni – la
fenomenologia della Krisis diviene mistica. È questo il punto
centrale di rottura del pensiero alternativo italiano alla fine degli anni ’60:
all’uscita pragmatica e tendenziale dalla Krisis ed alla sua
determinazione radicalmente immanentista ed umanista, alla fissazione del
biopolitico come tessuto produttivo si oppone una sorta di esorcismo – non più
quello debole, trascendentale, del neo-kantismo e delle filosofie linguistiche
e comunicative (è quello il momento della polemica Habermas-Apel) ma
escatologico, misteriosamente trascendente. Alle lotte, mai come allora
prepotenti, si oppone teoricamente la cosiddetta “autonomia del politico”,
praticamente l’effettività della “ragion di Stato”. La crisi di paradigma della
filosofia moderna che la filosofia nuova aveva interpretato in termini
politici, anticipando nei dialetti italici e nelle lotte, quell’orizzonte di
pensiero che il post-strutturalismo francese della seconda metà del secolo XX
presenta in maniera aperta (e sviluppa attraverso varie e molteplici
prospettive), viene qui ricondotta all’ontologia nichilista e all’impotenza
etica del Nietzsche interpretato da Heidegger, peggio, ad una Waste
land hartmanniana. Il risultato effettivo di questa critica/critica è
quello di consolidare un biopotere senza possibile alternativa laddove è
proprio in questa fase che la nuova filosofia comincia dall’interno della
dialettica spezzata, a costituire un’ontologia produttiva del comune, a
riempire cioè la critica della sussunzione reale della società nel capitale con
la scoperta e la costituzione di un potere costituente del comune. È qui che
questo potere costituente, ricondotto all’ontologia, si allarga a costituire
una vera e propria base materialista critica dello sviluppo capitalista. Hardt
e Virno già allora, all’inizio degli anni ’90, sottolinearono quanto la critica
pratica che il pensiero italiano delle lotte aveva sviluppato fosse stata
tradotta positivamente nella filosofia post-strutturale francese. Non fu un
caso quindi che la critica neo-heideggeriana e il misticismo del pensiero della
Krisis risultassero totalmente estranei a quel medesimo pensiero
post-strutturalista – ma soprattutto alieni da ogni visione della biopolitica e
della produzione di soggettività.
Ci
fermiamo qui. Brutalmente, quanto avviene dopo, ci sembra semplicemente un
riporto ed un’enfasi di quanto avvenuto fin qui. A fronte di quel groviglio di
problemi e di contraddizioni la Italian Theory si presenta come l’ennesimo
schema storiografico “debole” che coglie vagamente le determinazioni temporali
e locali del processo storico per condurle ad una pacificazione imbelle. Con
alcune conseguenze estremamente pesanti. In primo luogo, quella di distogliere
l’attenzione del ricercatore dalla fenomenologia contraddittoria del biopotere
mantenendo una confusione fra categorie dell’immanenza e della trascendenza. È
qui che il teologico politico fa ancora le sue prove. È qui che per esempio la
critica teologico-politica, dopo aver intravisto utopicamente una comunità che
viene, rifiuta la soggettivazione non tanto come resistenza ed antagonismo ma
come materialità, istituzione, storicità. La biopolitica verrà qui configurata
dunque come luogo che si esaurisce in un vuoto di potere, in una nudità che è
parola sostitutiva di un vuoto di tempo e di storia. In secondo luogo, l’Italian
Theory finisce per intimare l’evacuazione di ogni punto di vista storicamente
determinato, eticamente situato e politicamente orientato nella conoscenza e
nell’agire nell’orizzonte politico. Anche da questo punto di vista la storicità
delle lotte, le soglie di produzione di soggettività, le tendenze costruite
vengono sistematicamente ridotte e censurate. In terzo luogo, nell’Italian
Theory, nelle pacificazioni che essa pretende registrare, si esclude la
possibilità di assumere qualsiasi rottura del rapporto biopolitico come
emersione/insorgenza di nuove potenze autonome. La biopolitica è qui presentata
come terreno che non si colloca nella dialettica negativa ma la sopprime, che
non pone il rapporto ontologico come polarità, ma ne toglie la potenza, e nega
l’intransitività dell’antagonismo che comprende. In quarto luogo, e di
conseguenza, la crisi finale dell’onto-teleologia occidentale ci lascerebbe
nell’impossibilità di determinare uno spazio, di riabilitare una temporalità e
di costruire un soggetto che ritrovi nella storia un comune orizzonte
costituente. È invece per compiere questo lavoro che la nuova critica è nata
praticamente negli anni ’60 e si è riorganizzata filosoficamente più tardi –
per togliere a chiunque la possibilità di rinnegare il soggetto.
Ma
soggetto è soggettivazione. C’è stato qualcuno che ha pensato si potesse,
dentro le lotte, dentro le dinamiche dello scontro fra biopotere e soggetti
biopolitici, dentro la trasformazione del concetto di classe operaia in quello
di soggetto cognitivo e precario, meglio, in quello di moltitudine – c’è stato
forse qualcuno che ha pensato si potessero di nuovo presentare sulla scena
soggetti – chiamati identità, sostanze o individui – pur collettivi? Certo :
neppure questa diffamazione è mancata nei confronti della nuova filosofia.
Essa, tuttavia, tanto più si è confermata quanto più, sul terreno ontologico,
le emergenze soggettive e determinate (Spinoza le avrebbe definite infiniti
modi dell’essere) venivano qualificate come singolarità. Ed anche il concetto
di produzione non poteva esser colto che in termini di cooperazione di
singolarità, come assemblaggio di singolarità, altrimenti improduttive.
Singolarità definite tanto dalla forza-invenzione della loro natura cognitiva
quanto dalla potenza degli affetti messi in produzione, ma soprattutto definite
dal loro mettere in comune cooperando le potenze biopolitiche di cui esprimono
la tendenza. La loro esistenza è comune, e non può esserci esistenza fuori dal
comune. Sono moltitudine produttiva. La solitudine è una favola nera. Solo il
comune è produttivo ma lo è perché è composto da infinite singolarità che si
associano in maniera continua. Di contro, le ragioni dell’individualismo
cercano ancora spazio riemergendo in maniera equivoca, rispetto alla nuova filosofia,
in altre versioni della Italian Theory – sia la zoé che l’immunitas mantengono
il riferimento individualista come principale. Per non parlare degli autori che
della paura – oggi denominata katechon – hanno fatto il
movente hobbesiano dell’individualità nel ricorso alla sicurezza nello Stato.
Certo,
la soggettivazione è produttiva quanto è prodotta. Ma questo rapporto
antagonista è “estrattivo”, nei due sensi di quella insolubile dualità che la
dialettica negativa propone. Da un lato, il biopotere estrae dall’insieme degli
individui la sua ricchezza e la sua legittimità; dall’altro le singolarità,
promuovendosi come potenza comune nella cooperazione produttiva, espropriano il
biopotere della sua capacità di governo. Qui, dopo cinquant’anni, la filosofia
nuova ritorna (oltre ogni orpello della Italian Theory) a chiedersi quale
sociologia e quale economia politica possano essere “cassette di attrezzi” per
ricostruire – in queste nuove condizioni – una militanza del comune che
recuperi e sviluppi la forza sovversiva delle origini – nella formazione del
comune.
E,
nei riguardi dell’Italian Theory, nessun risentimento: omnia munda
mundis.
* Intervento
al Colloque International: “L’Italian Theory existe-t-elle?”, Paris, 24-25
janvier 2014
Sul Povero Yorick: Note sullo stato della
filosofia italiana:
Marco
Assennato, → Giocare il gioco dell’Italian Theory?
Antonio Negri, → Vana ricerca del buon governo
Girolamo De Michele, → La pop filosofia spiegata a un accademico (e non solo a lui)
Girolamo De Michele, → Oltre l’accademia: le strade
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