LA
SVOLTA AUTORITARIA DEL NEOLIBERISMO
/Dietro la modesta
ripresa economica interrotta dal susseguirsi di flash crash dei mercati
finanziari si nasconde l’incapacità dei
modelli economici dominanti di leggere la realtà/ Dopo un lungo periodo di relativa stabilità a inizio febbraio si sono
manifestate delle nuove turbolenze/ I più pessimisti parlano dell’inizio di una
nuova ondata di crisi, altri dicono che è il risultato di una ‘eccesiva autonomia’ degli algoritmi/ Altri
analisti ancora spiegano la
volatilità dei mercati con la ripresa dei salari in Usa e con
l’accordo salariale che l’IG Metal ha raggiunto in Germania
Partiamo
da questi dati sui salari americani, che hanno non poco contribuito a far
precipitare le borse, anche se in modo circoscritto. Questi dati si riferiscono
solo all’ultimo trimestre, quello precedente a febbraio, eppure questa
informazione è stata trascurata nel dibattito. Leggendo questi dati
sull’innalzamento dei salari bisogna tenere in considerazione che nei mesi
invernali i lavoratori a bassi salari non lavorano o lavorano meno. Basti
pensare al settore dell’edilizia, l’indice è salito, perché è aumentata la parte
dei salari medio alti. Gli algoritmi sono scattati sulla base di questo dato
distorto, una sorta di fake news, che però ha fatto partire una
serie di reazioni a catena “come se” i salari americani fossero veramente
aumentati. C’è stato, dunque, un problema di interpretazioni dei dati
sull’aumento dei salari. Se si fossero calcolati i salari sugli ultimi dodici
mesi, e non solo sugli ultimi tre, non ci sarebbe stata nessuna “paura sui
mercati”, perché in realtà i salari sono rimasti stagnanti e non c’è alcun
rischio di inflazione.
C’è
però un problema più ampio su come calcolare l’inflazione. Questo dei salari
invernali è un esempio che ci fa rendere conto del fatto che gli economisti non
sono più in grado di calcolare l’inflazione. Questo perché ci sono una serie di
scambi “gratuiti” che non riescono a rientrare nel calcolo dell’inflazione.
Facciamo l’esempio dello scambio dei dati online, uno scambio che avviene in
modo completamente “gratuito e consensuale”, su cui però le imprese sono in
grado di capitalizzare e trarne profitti. Lo stesso vale per la questione del
lavoro gratuito, che si è molto espanso, rendendo da un lato difficoltoso il
calcolo della produttività, e dall’altro il calcolo dell’indice dei prezzi,
cioè l’inflazione. Questo significa che non siamo in grado di calcolare una
parte di produzione del valore perché non è riconosciuta monetariamente.
Questo
problema del calcolo, ci porterà ad avere ulteriori flash crash,
oltre quello del 5 febbraio, mini crisi borsistiche, che hanno delle conseguenze
importanti, in primo luogo proprio sul piano dei salari. Infatti, chi perde in
borsa si rifà esattamente sui salari dei propri dipendenti: una sorta di
riflessività al contrario.
Lo
stesso vale per l’accodo dell’IG Metal in Germania, se questo è un accordo che
lascia fuori tutti i lavoratori precari o interinali, non stiamo parlando di un
innalzamento dei salari, ma di un ulteriore strumento di divisione della classe
operaia, in una parte più garantita e una parte senza tutele.
Quindi,
rimane oggi irrisolto il rapporto tra salari e inflazione, occupazione e
disoccupazione. Oggi, più diminuisce la disoccupazione più diminuiscono i
prezzi, c’è un’inversione della curva di Phillips in corso. Però i programmi
che si utilizzano per gli investimenti sono basati su questi modelli, come la
curva di Phillips, che al momento non sono in grado di leggere la realtà.
Si
è probabilmente alle soglie di un cambiamento nel regime di politica monetaria,
dopo che le principali banche centrali hanno inondato i mercati di liquidità.
La FED ha chiuso con il QE iniziando a rialzare i tassi di interesse, la BCE
“rallenta” i suoi programmi espansivi. A questo si aggiungono i cambi al
vertice delle due banche centrali: negli Usa Jerome Powell è recentemente
subentrato a Janet Yellen, mentre a novembre del prossimo anno scadrà anche il
mandato di Draghi alla BCE. Quali scenari si aprono?
Le
politiche monetarie si stanno restringendo in maniera molto graduale, questo
era in qualche modo inevitabile dopo dieci anni, però con un precedente molto
importante, quello del 2013, quando si era annunciata la restrizione delle
politiche monetarie e tutto ha rischiato nuovamente di crollare. Questa
lentissima restrizione delle politiche monetarie insieme ai flash crash rappresentano
bene la fragilità dei mercati finanziari. Si vogliono restringere le politiche
monetarie ma sulla base di indicatori poco fondati, come quello dei salari,
come abbiamo visto. In realtà, le banche centrali rimangono pronte a ritornare
a politiche espansive di fronte alla fragilità e volatilità dei mercati
finanziari.
Sembra
che all’interno del mainstream si parli sempre più di rado di
“stagnazione secolare”. L’ordine del discorso appare mutato. Adesso
l’attenzione si è spostata su questi contraddittori e fragili segnali di
crescita. Come si spiega?
In
passato abbiamo anche noi affrontato il discorso sulla stagnazione secolare,
perché ci sembrava che caratterizzasse bene la situazione segnata da calo della
domanda globale, o meglio, dalla contraddizione tra una elevata deflazione sul
piano dell’economia reale e una altrettanto forte inflazione finanziaria.
L’orizzonte
è probabilmente cambiato da quando nel 2012, si è iniziato a registrare un
nuovo aumento dell’indebitamento privato, principalmente delle imprese, poi
estesosi ai consumatori americani. I bassi tassi di interesse, da una parte,
hanno favorito l’indebitamento delle imprese, dall’altra, hanno reso possibile
impiegare i profitti realizzati e la liquidità in eccesso per compiere
operazioni di buy-back, ossia ricomprare le proprie azioni sul
mercato finanziario allo scopo di spartirsi i dividendi. La stessa riforma
fiscale di Trump ha finito per favorire questo genere di condotta da parte
delle imprese, non a caso, secondo alcune stime, più del 25% degli sgravi
fiscali sarà utilizzato nel riacquisto dei propri titoli azionari.
In
questo nuovo quadro il concetto di stagnazione secolare, come dite voi, è stato
accantonato, perché al momento sono concentrati su quello che appare come una
ripresa. Anche se io sostengo che si tratti comunque di una ripresa fragile,
basata sull’indebitamento privato, nonostante il fatto che non siamo ancora ai
livelli pre-crisi. Il che mi fa pensare che questo capitalismo è
strutturalmente fondato sulla logica dell’indebitamento.
Oltre
a quelle che ci hai appena descritto, quali sono le altre fragilità che si
celano dietro questa debole ripresa economica?
Da
circa due mesi ci si aspettava una rivalutazione del dollaro. La riforma
fiscale di Trump, basata sull’idea di rimpatriare i profitti, avrebbe dovuto
comportare una rivalutazione della moneta americana. Il punto è che questo
effetto non c’è stato.
Tenete
conto che una rivalutazione del dollaro sarebbe un serio problema
principalmente per i Paesi emergenti, per i quali più dell’80% del debito delle
imprese e degli Stati è espresso in dollari.
Le
ragioni di questa mancata rivalutazione sono ancora poco chiare. Intanto, mi è
parso di cogliere che i profitti delle imprese americane sono già in dollari e
dunque, un afflusso di capitali dall’estero comporta una ridotta pressione sul
cambio del dollaro. C’è poi una seconda spiegazione, che attiene alla
diminuzione del peso del dollaro nel paniere delle valute di riserva. Fino ad
un paio di anni fa il peso del dollaro sul totale del paniere, si aggirava
intorno al 62%. Si tratta di un calo considerevole se si considera che venti
anni fa, questo stesso dato si aggirava intorno all’85%. Adesso, non sarei
sorpreso se questo indice fosse sceso anche al di sotto del 60%. Il che ci
aiuterebbe a spiegare questa più bassa correlazione tra tassi di interesse
americani e valore del dollaro.
Dopo
un primo ciclo di lotte anti-austerity, stiamo assistendo all’affermazione di
quello che su Dinamo press abbiamo definito un ciclo reazionario globale e che nella politica
economica degli Stati sta assumendo da un lato una retorica protezionista e
nazionalista, e dall’altro si manifesta con il sostegno a politiche fiscali
inique o persino regressive e con l’applicazione di un welfare sempre più
autoritario. Prima di tutto volevamo chiedere: è veramente così, cioè, questa
svolta protezionista esiste veramente o al momento è principalmente una
retorica? E quindi, come si delinea da un punto di vista delle politiche
economiche la svolta autoritaria della governance neoliberale?
La
svolta protezionista degli Usa, con la recente firma di Trump a favore di dazi
tariffari per acciaio e alluminio, prima ancora di avere una rilevanza sul
piano reale, rappresenta evidentemente una svolta sul piano retorico. Si va
affermando un nuovo orizzonte linguistico che è parte integrante del cambiamento
a cui assistiamo.
Sul
piano reale, al momento, questi dazi all’importazione di tipo selettivo
introdotti da Trump, stanno spaventando soprattutto le istituzioni
sovranazionali. Retoricamente nascono come politiche volte a proteggere le
produzioni nazionali contro l’importazione cinese, ma paradossalmente a
guadagnarci saranno propri i cinesi, che rafforzeranno i loro legami
commerciali con l’Europa. In realtà è dal 2003 in poi, dalla guerra in Iraq,
per non parlare del 2008, che gli Usa hanno messo in campo politiche che hanno
finito per avvantaggiare la Cina. In tutto questo vedo un serio pericolo di
balcanizzazione dell’economia mondiale. È vero che noi siamo sempre stati
critici della globalizzazione, ma questa è un de-globalizzazione da destra,
anche perché francamente non so bene come ci possa essere una
de-globalizzazione da sinistra. Di sicuro questa di Trump è un’operazione che
va totalmente nella direzione sovranista.
Come
si coniuga la de-globalizzazione di questi settori con l’economia finanziaria?
Quello
che si è visto dopo la firma a queste misure, a parte qualche piccolo crollo,
nei mercati finanziari rientra tutto in modo estremamente rapido. Ad esempio,
mi ha molto colpito la posizione espressa da un analista del Financial Times,
secondo il quale l’unico modo per mitigare questa de-globalizzazione trumpiana,
sarebbe quello di auspicare una più pronunciata crisi finanziaria. È come se
l’economia finanziaria fosse così globalizzata da poter sopportare una
de-globalizzazione della cosiddetta economia reale.
L’ipotesi
del ciclo reazionario globale, sembra essere confermata anche dai risultati
delle elezioni italiane, cosa ne pensi al riguardo?
Guardiamo
al risultato del M5S e alla loro proposta di “reddito di cittadinanza”. Mentre,
da un lato, affermano la necessità di una maggiore spesa pubblica e di
politiche redistributive, dall’altro, ipotizzano la formazione di uno stato
maggiormente autoritario. Leggevo che il M5S ha raccolto diversi voti proprio
tra i funzionari dell’amministrazione pubblica. Non è un dato da sottovalutare,
perché se così è, ci sarebbe un consenso dall’interno dello Stato a questo
rafforzamento in senso autoritario delle istituzioni del welfare. Noi in questi
anni abbiamo discusso del reddito di base non come un veicolo di disciplina
della forza lavoro, ma al contrario come strumento per la liberazione da uno
sfruttamento che oggi è insopportabile. Quando all’inizio dell’intervista
abbiamo affrontato i problemi legati al concetto di inflazione o costo del
lavoro, questi stessi problemi vanno riletti alla luce di un altro elemento,
che è la centralità della gratuità. C’è una quantità sterminata di attività
svolte nella sfera della riproduzione che sono produttive di valore ma che non
vengono riconosciute.
Christian
Marazzi, economista, docente presso la Scuola universitaria professionale della
Svizzera italiana