-VALENTINA
MORO-
«lo sciopero del e dal genere ci consente di
praticare una politics of refusal»/
la mobilitazione non può prescindere dallo sviluppo di una piattaforma di discussione e di confronto costante/
problematizzare criticamente concetti-chiave: dal «lavoro» alla «cittadinanza», dalla «famiglia» alla «sessualità»
la mobilitazione non può prescindere dallo sviluppo di una piattaforma di discussione e di confronto costante/
problematizzare criticamente concetti-chiave: dal «lavoro» alla «cittadinanza», dalla «famiglia» alla «sessualità»
Uno dei vantaggi che comporta affrontare la questione del
patriarcato attraverso
il racconto del contratto sessuale è che esso rivela che la
società civile,
compresa l’economia capitalistica, ha una struttura patriarcale.
Le capacità che permettono agli uomini ma non alle donne di essere
«lavoratori»
sono le stesse capacità maschili richieste per essere un
«individuo»,
un marito e un capofamiglia.
Il racconto del contratto sessuale inizia pertanto con la
costruzione dell’individuo.
Per raccontare la storia in un modo che metta in luce le relazioni
capitalistiche
del patriarcato moderno, deve essere preso in considerazione anche
il percorso teorico attraverso il quale la schiavitù (civile)
giunge
a rappresentare un esempio di libertà.
[Carole
Pateman, Il
contratto sessuale, 1988]
La Women’s March del 21 gennaio – ora possiamo dirlo a
voce alta – è stata la più grande mobilitazione di massa che abbia mai avuto
luogo negli Stati Uniti in occasione del primo giorno in carica di un presidente, e in
generale una fra le maggiori della storia americana recente. Si preannunciava
tale, ma la partecipazione massiccia ha di sicuro superato le aspettative.
L’annuncio e l’organizzazione della mobilitazione sono stati rapidamente
diffusi in maniera capillare tramite i social media prima in
tutto il territorio degli Stati Uniti e poi in moltissimi altri paesi nel
mondo, disegnando sulla mappa una costellazione di fuochi pronti a divampare e
andando a sommarsi al già massiccio numero di iniziative in programma in
occasione dell’Inauguration, il giorno dell’insediamento. Amber Jamieson
ha riportato, in un articolo pubblicato on-line sul Guardian il 14 gennaio una sorta di guida
agli eventi in programma per il weekend appena trascorso nelle maggiori città
statunitensi: la varietà delle manifestazioni è impressionante e anche
piuttosto creativa. Si va dal party a tema LGBTQ organizzato proprio
davanti alla casa di Mike Pence, a iniziative di protesta contro la guerra, la
discriminazione razziale, la retorica anti-migranti e a favore dei diritti
delle lavoratrici e dei lavoratori, delle minorities, delle donne,
che chiamano in causa la democrazia e una necessaria rivoluzione nella politica
americana. E proprio le donne trovano un posto privilegiato in questa
costellazione, come organizzatrici dell’iniziativa principale.
Ho partecipato all’evento organizzato a Providence, la capitale del piccolo
stato del Rhode Island e la sede della Brown University, dove mi trovo
come visiting student. La comunità cittadina è imprescindibilmente
legata alle migliaia di studenti che frequentano l’università e la rinomata
Rhode Island School of Design, ed è difficile non notare, nel passaggio tra
la College Hill, sede dell’istituzione dell’Ivy League, e la downtown una
forte differenza tra gli abitanti medi di ciascuno dei due ambienti. È la città
vera e propria, infatti, a offrire un campione più rappresentativo di
quella diversity che caratterizza le grandi città del nord
America e che è alla base di una forbice sociale sempre più radicata a causa
dell’acuirsi di problematiche relative al lavoro, al welfare e alla discriminazione.
Ma Providence è anche una città vivace, artisticamente espressiva
e underground. Ci si poteva aspettare pertanto che la
partecipazione al RI Women’s Solidarity Rally fosse ampia, ma
la cifra effettiva di cinquemila persone ha sorpreso le organizzatrici.
Le partecipanti e i partecipanti riempivano l’imponente scalinata della
locale State House e si riversavano come un fiume in piena sulla collina
sottostante. Il colpo d’occhio era dominato dalle sfumature rosa dei copricapi
cuciti a maglia a forma di orecchie di gatto, diventati il simbolo della
protesta e la folla era vivace, colorata, ed era evidente come l’ondata di
entusiasmo partita da Washington abbia pervaso anche il New England. C’erano
diverse famiglie con bambini, studenti, anziani, gruppi organizzati con costumi
di vario tipo, esponenti di Black Lives Matter con cartelli fortemente
riconoscibili, sostenitori delle proteste contro la costruzione della pipeline in
North Dakota («Standing with Standing Rock!», «We, the Resilient», recitavano
alcuni fra i cartelli). Ma c’erano anche molti uomini. Diversi studenti e
ricercatori della Brown si sono mobilitati per l’entusiasmante giornata. Uno
fra loro, ricercatore in archeologia originario di Chicago, mi ha fatto notare
come diversi suoi amici d’infanzia lo abbiano deriso per il fatto di essersi
schierato con quelle «femministe incazzate». Lui, offeso, mi ha spiegato che a
suo parere non è solo l’ignoranza a portarti a fare un discorso del genere,
bensì il fatto che non si capisca come siano cambiate le cose nel mondo negli
ultimi anni. «Se non comprendi che la causa della Women’s March è
anche la nostra causa, sei tu a venire lasciato indietro», mi dice.
Il tema principale dell’iniziativa di Providence è quello della medicina,
considerata l’emergenza del processo, già avviato da Trump ancora prima di
insediarsi a Washington, di smantellamento dell’Obamacare. La questione
‒ strenuamente denunciata, fra gli altri, da Elizabeth Warren, senatrice
democratica, di area socialista, del Massachussets ‒ è il cuore pulsante dei
discorsi pronunciati da alcuni fra gli esponenti politici locali sul palco
della State House. La prima a intervenire è stata Gina Raimondo,
italo-americana, prima donna a ricoprire la carica di governatore del Rhode
Island, la quale ha sottolineato l’importanza della social security e
della possibilità per tutte e tutti di andare al college; riguardo all’elezione
di Trump dice: «I’m fired up, not discouraged!». Le organizzatrici hanno preso
la parola alternandosi agli interventi programmati: hanno fatto da subito
riferimento all’esempio di Martin Luther King, sottolineano come questa
non sia una protesta ma un movimento, e come vada ben oltre l’idea
di una contrapposizione a una sola persona. È stata più volte chiamata in
causa l’emergenza del climate change, come si legge anche su molti
cartelli, e riguardo alle migrazioni si è ripetuto di frequente lo slogan
«Everyone’s welcome!». È intervenuta anche Nellie Gorbea, segretario di stato
del Rhode Island, invitando all’impegno nelle comunità e garantendo da parte
delle istituzioni locali la volontà di opporsi a ogni forma di discriminazione.
In un paese come gli Stati Uniti, che fa della freedom of speech la
propria bandiera, ma il cui primo emendamento nella costituzione fornisce troppe
volte una garanzia, dal punto di vista legale, per svariate pratiche di
discriminazione, l’esclusione sociale di afro-americani,
latino-americani e asiatici è una realtà che si riproduce costantemente, come
una ferita profonda che continua a sanguinare. Questo sangue è anche e
soprattutto quello delle tante vittime, in prevalenza afro-americane, delle
violenze subite ogni anno dalla brutalità di alcuni esponenti delle forze di
polizia statunitense – violenze delle quali le prolungate mobilitazioni che
hanno avuto luogo a Ferguson, in Missouri, dopo l’uccisione di Michael Brown
nel 2014, sono divenute il simbolo. Ma è il sangue di tutti coloro che vengono
discriminati e che subiscono violenza a causa di discriminazioni razziali, come
ha ricordato Gary Dantzler, attivista del New England chapter di
Black Lives Matter. Il movimento di BLM è stata ancora una volta una
delle piattaforme più attive per la mobilitazione, spingendo il più alto
numero possibile di black women (e non solo) a far sentire la
propria voce in occasione di questo 21 gennaio.
Alla manifestazione di Providence si è parlato anche della sempre più
pericolosa piaga delle sparatorie dovute alla troppo facile accessibilità alle
armi negli USA. Sono inoltre intervenute giovani intersectional feminists,
nonché sindacalisti nel settore della medicina e dell’educazione, che hanno
sottolineato quanto è importante per una donna tutelare i propri diritti sul
lavoro aderendo ai sindacati. La sicurezza sul lavoro e il problema dell’housing (la
mancanza di abitazioni), l’emergenza delle violenze domestiche e l’ancora
marcata differenza nelle retribuzioni tra donne e uomini sono altri fra i temi
trattati. Così come lo è la questione dell’aborto come «fundamental human
right» secondo una delle esponenti locali della Planned Parenthood,
organizzazione nazionale che si batte contro i limiti imposti dall’obiezione di
coscienza al diritto di scelta dei genitori e che promuove l’educazione
sessuale nelle scuole. Si è parlato anche molto di lavoro, e ho letto cartelli
che fanno esplicito riferimento alla mobilitazione del ’68. Lo slogan Rise
up! ha riecheggiato più volte tra la folla, ripreso dagli speakers,
proprio nel momento in cui ho ricevuto da un amico che si trovava a Washington
come esponente dei Democratic Socialists of America la notizia
che un milione di persone si sono riversate nelle strade della capitale,
rendendo persino impossibile muovere dei passi per mettere in atto una marcia
effettiva. Le strade imponenti delle grandi città statunitensi non sembravano
in grado di contenere i corpi e la loro energia. Da Austin a Los Angeles,
da Boston a New York hanno rimbalzato sui media foto che impressionano e
inorgogliscono, e ricorre l’esclamazione We are the Storm!, «siamo
la tempesta».
Ciò che colpisce da subito riguardo alla Women’s March non
è solo la rapidità con cui si è diffusa l’iniziativa, ma soprattutto la
capacità organizzativa. Le organizzatrici, le associazioni e i diversi gruppi
partner che l’hanno promossa hanno compreso la necessità di darsi da subito uno
statuto, una dichiarazione d’intenti che, come ha scritto Alanna Vaglanos sull’Huffington Post il 13 gennaio, è «beautifully
intersectional». Si legge infatti, come incipit degli unity principles del progetto della
Women’s March: «dobbiamo creare una società nella quale le donne ‒ incluse
quelle nere, native, povere, migranti, disabili, musulmane, lesbiche, queer e
trans ‒ siano libere e capaci di sostenere e curarsi delle loro famiglie,
comunque siano formate, in ambienti sicuri, salubri e liberi da impedimenti
strutturali». E a seguire, i principi chiamati in causa sono: fine della
violenza, diritti riproduttivi, diritti per i soggetti LCBTQIA, per i
lavoratori, diritti civili, diritti per i disabili e i migranti, giustizia
ambientale.
Nel concepire una piattaforma di tale portata si è dunque compreso il
potenziale dell’iniziativa e del momento storico in cui si realizza, ed è risultato imprescindibile
rimarcarne, come argomento principale della dichiarazione d’intenti, il carattere
intersezionale. Come ha infatti ricordato Angela Davis a
Washington, un femminismo che
mira a essere intersezionale non può che opporsi apertamente a razzismo,
islamofobia, antisemitismo, schierarsi a favore della piena accessibilità
all’acqua e ai beni di prima necessità sulla striscia di Gaza o nelle terre
delle tribù Sioux di Standing Rock. Questo perché le donne oggi non
hanno marciato da sole, e la loro marcia – la nostra marcia –
può essere tanto più significativa nell’interconnessione con la miriade di
altri movimenti e sommovimenti, boicottaggi e scioperi, con ogni tipo di
lotta e di espressione di conflitto che rifiuta la frammentazione sociale. La
parcellizzazione caratterizzante la società neoliberale contemporanea sta alla
base di quella frammentazione che costruisce contrapposizioni inibendo, nello
stesso tempo, il conflitto, sussumendo nel proprio linguaggio la resistenza: si
produce così un management del conflitto.
Proprio per questo c’è bisogno di un nuovo linguaggio e di nuove pratiche
di resistenza. Tale linguaggio deve tenere presente lo spazio politico della
comunicazione all’interno del quale si inserisce: nel passaggio tra la
produzione del messaggio e la sua ricezione qualcosa rischia sempre di essere
corrotto. Perché il proprio di quel messaggio non vada perduto dobbiamo
partire da ciò che abbiamo in comune – e questo comune è il
corpo. Solo a partire da un linguaggio che pensa il corpo come
primariamente politico diventa possibile pensare la differenza e trovare una
linea condivisa di resistenza. E il corpo della donna è di per sé intersezionale
(una donna può essere di bassa o alta estrazione sociale, può essere queer, può
avere livelli di educazione diversi, può non avere un lavoro o essere precaria,
appartenere a una minoranza etnica, culturale o religiosa, può essere una
migrante – così come può essere tutte queste cose insieme), e subisce molteplici
livelli di discriminazione, marginalizzazione, violenza. Tenere insieme
nel linguaggio della protesta tutte queste forme di diversity non
è stato facile: fra le attiviste sono sorti problemi, e alcuni gruppi sono
stati accusati di voler prendere il controllo sull’iniziativa (che rischiava di
diventare troppo black, secondo alcune). Ma la complessità interna
a ogni tassello di questo mosaico, e relativa alla necessità di tenerli
insieme, deve essere la scommessa di un nuovo modello di organizzazione della
protesta, che non si accontenta più di mobilitazioni parziali incentrate su una
singola problematica per volta – e quindi spesso destinate a rimanere entro una
prospettiva di minorità.
I corpi delle donne che marciano rifiutano la parcellizzazione, e per
questo motivo sono corpi di cui le donne si sono riappropriate. «Conquistare pienamente noi stesse
abbracciandoci pienamente l’una con l’altra» è infatti uno degli slogan più
significativi della mobilitazione di oggi. La Women’s March del
21 gennaio non può essere compresa in tutto il suo potenziale se non in
relazione alla mobilitazione delle donne che, nell’anno appena conclusosi, ha
visto il susseguirsi incalzante delle iniziative di Ni una menos –
che, a partire dallo sciopero delle donne argentine che hanno alzato la voce
contro il femminicidio, ha trovato un ampio riscontro prima negli Stati
dell’America Latina e poi in tutto il mondo – nonché l’ormai celebre «Black
Monday» in cui le donne polacche sono scese in piazza per manifestare
nell’ottobre scorso contro la nuova legge anti-abortista.
È proprio un linguaggio che parte dal corpo della donna, dalla sua
imprescindibile ontologica differenza, ciò che ci permette di non
essenzializzare il femminile. La posta in gioco sta nel comprendere la resistenza di questi corpi come
imprescindibilmente interconnessa con quella di altri corpi – ed è possibile
comprendere tale interconnessione solo appropriandoci di un linguaggio
intersezionale. La logica neoliberale è stata infatti in grado di conservare e
veicolare la parcellizzazione sociale, re-includendo in un ordine del discorso
biopolitico soggettività che questo stesso discorso ha prodotto nella
loro singolarità. Sono gli «anormali», il cui potenziale di resistenza risulta
perfettamente neutralizzato dalla logica governamentale. E questa
neutralizzazione consiste proprio nel costruire, definire, tassonomizzare e in
questo modo rendere prevedibilmente produttivi i soggetti.
Affinché la resistenza non sia una pratica informe, ma assuma la forma
inclusiva dell’intersezionalità, è necessario fare in modo che questo
movimento globale, che parte dalle donne ma include le soggettività più
diverse, guardi oltre la presidenza Trump (di cui Bonnie Honig ha
significativamente messo in evidenza l’emptiness e le già rilevanti
dimostrazioni di disprezzo della cosa pubblica). Non basta infatti la
contingenza di questo momento emergenziale: le potenzialità politiche delle
pratiche femministe vanno infatti ben oltre quello che la campagna elettorale
di Hillary Clinton ha inteso rappresentare. Non è (solo) sull’anti-trumpismo
che si può costruire una piattaforma politica nuova, così come non è solo
denunciando le violenze di cui è quotidianamente vittima il corpo della donna
nella sua imprescindibile differenza, che si può rendere questa
stessa differenza performativa.
Un progetto politico ampio, che si auspica possa essere l’alta posta in
gioco che aspetta le donne dopo questa inarrestabile mobilitazione, non può
infatti prescindere dalla creazione di una piattaforma di discussione e di
confronto costante. In questo modo sarà possibile problematizzare in maniera
critica, per esempio, il concetto di «lavoro» (in relazione al quale la
riflessione femminista si è produttivamente spesa sull’idea di «lavoro di
cura», sul sex work e su altre pratiche considerate «non
tradizionali») nella consapevolezza del potenziale politico della pratica dello
sciopero; ma anche concetti come «famiglia», «cittadinanza», «sessualità». In
questo modo, lo sciopero del e dal genere ci
consente di praticare una politics of refusal. La marcia
delle donne è prima di tutto sciopero delle donne, interruzione della performance del
genere, e nello stesso tempo espressione, manifestazione, del carattere
performativo del femminile. La comprensione teorica di questo permette di
rendere la mobilitazione inclusiva, a partire da una concezione dello sciopero
come pratica di interruzione della riproduzione performativa di
un’identità: la ri-soggettivazione muove dalle donne ma diviene pratica
collettiva.
Una pratica politica intersezionale e femminista ha inizio nel linguaggio,
e non può che essere, prima di tutto, critica.