mercoledì 29 gennaio 2025

DEL FEMMINILE E DELLE RIVOLUZIONI

-Francesco Mariia Pezzulli-

 Intervista ad Antonio Minaldi



Da leggere è l’intervista condotta con Antonio Minaldi sul suo ultimo libro: Del femminile e delle rivoluzioni. Per un costituzionalismo etico e rivoluzionario pubblicato da Multimage di Firenze, con prefazione di Paola Nugnes e Simona Suriano e saggio di Giuliana Mieli. I motivi sono numerosi, a partire dalla rilettura che l’autore fa di alcune questioni e approcci che anche nel pensiero critico e rivoluzionario si sono date spesso per scontate. Oggi, ci dice Minaldi, i percorsi e gli ambiti di lotta sono pluralistici ed «allora forse la prima cosa da fare è ripensare il rapporto tra etica e politica, che è esattamente quello che ho cercato di fare col mio libro». Un libro, dunque, come (ri)elaborazione nel quale l’autore scopre il valore del femminile, che interpreta come una postura etica necessaria al nostro presente e al nostro futuro, come una guida per ogni scelta di vita, comprese le scelte politiche. Buona lettura (F.M.P.)

«Attualità del comunismo». Non potevamo cominciare l'intervista se non con questa parola, spinosissima, con la quale introduci il tuo nuovo libro. Com’è noto si tratta di un argomento che, negli anni ’60 e ’70, è stato dibattuto, con altro significato e da diverse angolazioni, nell’ambito del marxismo e operaismo, e che oggi ci restituisci come «consapevolezza esistenziale e militante» che ha messo in discussione il principio della centralità della politica e rilanciato il ruolo dell’etica come motore del cambiamento sociale. In sintesi, ci dici cosa è per te l’attualità del comunismo e come è venuta a formarsi questa «consapevolezza»?

 

 

 

Come giustamente dici l’espressione «attualità del comunismo» risale agli anni ‘60 e ‘70 nell’ambito dei dibattiti e della militanza politica legati alla storia dell’operaismo. Prima di entrare nel significato teorico e politico della questione vorrei sottolineare come in quel modo di dire vi fosse, da parte di molti militanti, una sorta di presa di distanza dal marxismo ufficiale e dalla storia del socialismo reale come a presentirne la fine ingloriosa che avrebbe fatto da lì a poco a seguito degli avvenimenti dell’89. 

In realtà la cosa era molto più radicale: dire «attualità del comunismo» era come dire al tempo stesso «obsolescenza ed inattualità del socialismo» come ipotesi politico-strategica. Non si trattava dunque di prendere semplicemente atto degli errori commessi, o magari anche dei misfatti criminali compiuti dallo stalinismo; oppure semplicemente di aggiustare il tiro in considerazione degli inevitabili mutamenti che il tempo aveva portato con sé nelle stesse logiche strutturali e di dominio del capitalismo. Bisognava piuttosto cambiare prospettiva. Che ne fossimo pienamente consapevoli o meno, bisognava superare l’idea che la presa del potere e il conseguente uso della macchina dello Stato, fosse l’aspetto centrale di ogni possibile cambiamento rivoluzionario, a prescindere dal fatto che ciò avvenisse attraverso la lotta armata o con le «riforme di struttura». La stessa «dogmatica leninista» fondata sulla centralità del partito come reparto separato dalla classe e sull’idea della coscienza portata dall’esterno diveniva del tutto obsoleta.

Di fronte a tali difficoltà l’ipotesi di una «attualità del comunismo» si poneva come una capacità di previsione di fronte a quel passaggio che si annunciava e che portava dal modello fordista al dominio del «finanzcapitalismo».

É nella attuale fase storica, che non a caso viene definita anche del capitalismo biocognitivo, che si materializza in tutta la sua forza dirompente l’idea marxiana della forza lavoro come sintesi potenziale di tutte le capacità umane. Per il rivoluzionario di Treviri essa è «l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d’un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d’uso di qualsiasi genere». Come dice Virno in un suo vecchio saggio: «Nel concetto di forza lavoro è inscritto, […] quello della vita messa al lavoro; la vita intera, nelle sue caratteristiche cognitive oltre che senso-motorie, viene messa per intero al lavoro, anche già solo come nuda, generica possibilità o potenzialità».

      

Nel momento stesso in cui il capitale si configura nella sua dimensione finanziaria, caratterizzandosi nella centralità dei suoi aspetti estrattivi, logistici e biopolitici, la vecchia legge del valore fondata sulla misura del tempo di lavoro come nettamente distinto dal tempo di non lavoro, perde la sua capacità euristica, arrendendosi all’evidenza dell’intero tempo-vita che diviene il motore principale della ricchezza socialmente prodotta. Il capitale fisso, in quanto sapere oggettivato che ingabbia e disciplina le capacità produttive del lavoro vivo, si sposta dalla vecchia fabbrica fordista e si incarna nella realtà immateriale dell’informatica e della intelligenza artificiale. In questa sua nuova dimensione esso non si interfaccia più con la meccanica impoverita dei vecchi modi del lavoro fordista, ma con le capacità materiali ed intellettive, e soprattutto con la forza creativa, del nuovo soggetto sociale, che è esso stesso portatore attivo di conoscenze e saperi.

In altre parole, l’attuale fase del dominio di classe potrebbe essere letto come un punto d’arrivo di quella attitudine del capitalismo di presentarsi, nella sua famelica corsa alla crescita indefinita e all’appropriazione di tutto, come un Giano Bifronte: una grande capacità di liberare e valorizzare le potenzialità umane, accompagnata con una proporzionale forza coattiva e di sussunzione per potere riprodurre le proprie gerarchie sociali.

Attualità del comunismo non è niente altro che la presa d’atto di questa situazione e delle grandi possibilità di liberazione che si pongono di fronte ad un soggetto sociale fortemente valorizzato e potenzialmente capace di un indefinito processo di autovalorizzazione.

Detto in questo modo può sembrare che siamo di fronte ad una situazione molto favorevole al cambiamento rivoluzionario. In realtà le cose sono molto più complesse. Nell’attuale situazione di fronte a noi si pone un enorme problema politico e teorico. L’attualità del comunismo non solo manda in crisi le vecchie ipotesi socialiste, ma, almeno a rigor di logica, anche ogni possibile e futura teoria della transizione. Un vero rompicapo visto che comunque, in qualche modo, dal capitalismo al comunismo bisognerà pur «transitare». Dobbiamo allora cercare di costruire nuovi modelli previsionali per cui batterci, oppure questa ansia di mettere sotto tutela i percorsi futuri è figlia di quel rapporto avanguardie masse, tipico di quella che ho definito come dogmatica leninista? Personalmente sarei per una visione più aperta al possibile che il tempo produce. Ma la questione resta aperta.

 

 

 

«Del femminile e delle rivoluzioni». Il titolo del libro potremmo descriverlo con un passaggio da te utilizzato: «dall’homo oeconomicus alla donna generosa». Vuoi dirci come siamo giunti a questo passaggio? quali sono stati i momenti salienti, le caratteristiche principali, eccetera? 

 

 

 

Riparto da quanto ho appena detto sulla attualità del comunismo. Se noi viviamo questa enorme contraddizione per cui il mondo, per ragioni storiche e strutturali, sembra pronto per un grande cambiamento in senso libertario ed egualitario, senza che però nella dimensione concreta di ciò che appare se ne possano rintracciare evidenti segnali premonitori, e se, come abbiamo visto, in quelle che tradizionalmente si chiamano avanguardie militanti il pluralismo dei percorsi e degli ambiti di lotta appare ormai come un dato di fatto, allora forse la prima cosa da fare è ripensare il rapporto tra etica e politica, che è esattamente quello che ho cercato di fare col mio libro.

La politica, se vista come percorso di un cambiamento rivoluzionario, è fatta dell’adesso della tattica e della prospettiva futura costituita dalla strategia; di quello che va fatto oggi nell’ottica di ciò che dovrà essere ottenuto domani. Possiamo dire, dunque, che questa visione classica della politica che è stata parte della storia delle avanguardie socialiste e comuniste del secolo passato, è tutta giocata su una attenta scansione dei tempi, che presuppone quella  compattezza dei militanti e quella unità d’intenti che non a caso sono stati i fondamenti del modello del partito leninista. Oggi, però, ciò che caratterizza, come dato comune, le istanze di cambiamento che variamente si producono nei vari ambiti di un mondo complesso, è l’estrema ricchezza dei propositi e delle prospettive da parte di soggetti plurali, la cui ricomposizione non può darsi entro modelli precostituiti, ma che può essere ipotizzata solo come prodotto di percorsi molteplici, in parte fluidi e sempre aperti alla possibilità del ripensamento e della autocorrezione.

In queste condizioni diventa fondamentale ripensare il rapporto tra i due ambiti tipici della praxis aristotelica. Diventa chiaro quello che in realtà sempre dovrebbe essere, e cioè che l’etica viene prima della politica perché ne costituisce una necessaria precondizione. Se la politica è scelta dei tempi, l’etica è la dimensione indifferente al tempo, che la precede perché rappresenta una postura comportamentale che si da come necessaria per indirizzare qualsiasi tipo di scelta, presente o futura.

È in questa ricerca dell’èthos, che in latino non a caso diventa habitus, l’essere costante di una «abitudine», che ho scoperto il valore del «femminile» che ho voluto proporre come una postura etica necessaria al nostro presente e al nostro futuro; come guida di ogni scelta di vita, comprese quelle politiche, ma che in realtà trova fondamento nella nostra stessa natura di esseri umani votati alla socialità come necessario bisogno dell’altro. Il femminile come attitudine umana allo «scambio generoso», al dare senza la pretesa della immediata restituzione: l’attitudine nei confronti della «cura dell’altro», intesa come autorealizzazione di sé e non come sacrificio. Quell’aspetto della nostra natura umana che la storia del dominio patriarcale e maschilista ha relegato nella dimensione del privato e della famiglia, sottomettendo le donne ed escludendole dal contesto sociale.

È importante capire a tal proposito un passaggio essenziale. Il femminile, almeno nel modo in cui l’ho inteso nel mio lavoro, non è una esclusiva prerogativa delle donne, sebbene, per ragioni storiche, ad esse sono attribuite queste qualità, ma va considerato un tratto caratteristico dell’intero genere umano. La stessa cosa può essere detta per il «maschile», da qualcuno definito come «principio di realtà», e che va esso stesso liberato dalle pratiche storiche del patriarcato maschilista.

In sintesi: la necessità di una nuova postura etica apre all’impellenza di una rivoluzione del femminile, alla cui conclusione «ideale» sta il prodursi di una nuova dialettica, non di antagonismo ma di positivo incontro-scontro, tra lo «scambio generoso» e lo «scambio uguale» che nel gioco tra femminile e maschile, sono parte della natura umana.        

 

 

 

Ad un certo punto scrivi che: «La nostra ipotesi è invece che il patriarcato sia alle origini di tutte le forme di sfruttamento e di dominio, che si sono potute determinare solo grazie a quel punto d’inizio. Il patriarcato è il peccato originario della storia umana». Un’asserzione «pesante», per cosi dire, secondo la quale tutte le dinamiche storiche di sfruttamento, di cui rintracciavamo l’origine nel sorgere di un nuovo rapporto sociale (servile, capitalistico, eccetera), in realtà derivano da un rapporto di genere. Vuoi argomentare l’ipotesi in questione?

 

 

 

 

Ancora una volta, prima di entrare nel merito della domanda che mi poni, faccio una premessa ricollegandomi a quanto ho già detto in precedenza in merito alla crisi della sinistra e all’esigenza per il militante di assumere una nuova postura etica che permetta di rimanere fermi nei propositi ma aperti ad attenzionare ogni possibile, od anche problematico, segnale di cambiamento. Questa maniera di concepire la militanza non deve essere vista solo come un modo di stare dentro il concreto delle cose ed entro le problematiche poste dai movimenti ma anche come un atteggiamento di massima apertura che vale, direi a maggior ragione, per il lavoro di ricerca. Quando cerchiamo risposte alle difficoltà del presente dobbiamo certamente non scordare la tradizione e i classici del pensiero rivoluzionario a cominciare da Marx, ma dobbiamo anche avere il coraggio di cercare in ogni luogo che può essere utile; il coraggio di «osare pensare» senza avere paura di sbagliare, nella consapevolezza che il lavoro di analisi e di ricerca, se inteso come impegno militante, non deve avere la pretesa della difesa ad oltranza delle proprie ipotesi, ma deve essere concepito come un contributo aperto e non conclusivo che si affida alla critica e al giudizio di un dibattito collettivo. Si tratta per l’appunto di osare muoversi nel campo delle «ipotesi», in quanto supposizioni da considerare come punti di partenza da cui desumere e valutare tutte le conseguenze e tutti gli esiti possibili. 

Il patriarcato come origine di tutte le forme di dominio e di sfruttamento da considerare come una sorta di peccato originale del prodursi di tutte le ingiustizie della storia è per l’appunto una ipotesi suffragata da alcuni dati di fatto.

Il patriarcato ha origini antichissime che possono essere fatte risalire agli inizi della civiltà umana. Le prime forme di discriminazione della donna, con ogni probabilità, furono poste in essere nell’Olocene, circa 12000 anni fa, quando a partire dalla Mezzaluna fertile le comunità umane, grazie alla scoperta dell’agricoltura e dell’allevamento, ebbero la possibilità di divenire stanziali e di produrre le prime strutture sociali complesse probabilmente con ruoli differenziati nella divisione del lavoro e nelle gerarchie sociali. Il patriarcato iniziò a prodursi sin da quella lontana origine grazie alla divisione tra una sfera pubblica in cui si pongono i fondamenti e le regole del vivere in comune e che viene riservata esclusivamente agli uomini, e una sfera privata sottratta alla socialità e nel cui anonimato vengono relegate le donne. Questa distinzione tra pubblico e privato credo sia il dato originario ed essenziale di ogni forma di discriminazione della donna. Uno schema che si ripete da allora fino ai giorni nostri, avendo attraversato ogni epoca storica, e riproducendosi parallelamente ad ogni altro tipo di sfruttamento e di dominio di classe determinatosi nel corso dei tempi. Un fatto che non può essere casuale e che apre alla riflessione verso la possibilità di altre ipotesi «pesanti».

Possiamo considerare la segregazione di una parte dell’umanità nella sfera privata come il presupposto che ha reso possibile l’esistenza di ogni diverso modo di produzione (marxianamente inteso) che si è succeduto nel corso della storia. Lo diciamo in ragione del fatto che quella distinzione che discrimina le donne è la forma originaria, sia in senso storico che in senso «strutturale», della divisione del lavoro che sta alla base di ogni formazione sociale.

A questo punto però si pone un paradosso che apre ad una nuova ipotesi «pesantissima». Come ci dicono tanti studi il capitalismo è giunto oggi ad una nuova fase definita biocognitiva, in cui ogni momento ed ogni espressione dell’esistenza umana viene sussunta per appropriarsi di valori d’uso da trasformare in valori di scambio. Possiamo allora chiederci, data questa nuova dimensione in cui il tempo perde la sua «qualità» per divenire continuo riprodursi del dominio e dello sfruttamento, se è ancora funzionale al sistema una distinzione tra pubblico e privato intesa come momento originario della divisione del lavoro. La risposta è ovvia ma apre altri interrogativi. Innanzitutto, (e lo diciamo qui di passaggio), l’esigenza della difesa della privacy, del privato non come luogo della segregazione ma come spazio necessario all’autodeterminazione del soggetto. Poi, (e questo è veramente essenziale ai fini del nostro discorso), la necessaria presa d’atto che nelle condizioni attuali l’emancipazione della donna, limitatamente al perimetro della cittadella imperialista occidentale, non è in contrasto con gli interessi dominanti. Ma attenzione! È fondamentale per gli attuali assetti di potere che l’emancipazione non divenga liberazione di quelle forze del «femminile» a cui ho dedicato una parte importante del mio libro. Liberazione, cioè, di quel modello antropologico votato all’attenzione e alla cura entro la logica di una relazionalità affettiva ed altruistica che è l’esatto opposto dell’attuale prevalere del modello egoistico e competitivo come necessario supporto al riprodursi del dominio di capitale. Emancipazione della donna, dunque, ma che nella logica della riproduzione dell’esistente deve essere «mascolinizzata» nei suoi valori e nei suoi esiti.

 

 

 

Un argomento chiave del libro che merita davvero di essere discusso (non solo qui ovviamente) è quello relativo alla reciprocità. In merito affermi che: «ciò che distingue il femminile dal maschile non è l’assenza di una forma di reciprocità, quanto piuttosto il fatto che il ritorno rispetto a quello che si è dato, o che si è anticipato, non viene concepito come il prodursi di un legame d’obbligazione, più o meno formalizzato nel senso di un legame debitorio, quanto piuttosto come un atto di fiducia sulla possibilità che le relazioni si possano sempre ricomporre e riequilibrare sia nel rapporto personale che in un più ampio contesto di circolarità sociale». Mi sembra una affermazione significativa e suggestiva. Vuoi farci degli esempi e/o dirci come sei giunto a questa conclusione?

 

 

 

Anche stavolta mi permetto di partire da lontano. Negli anni della mia formazione politica sono stato fortemente influenzato, come credo molti militanti della mia generazione, da una interpretazione meccanicistica e fuorviante del marxismo che tendeva a vedere ogni cosa come un prodotto semplicemente storico. Oggi, dopo tante albe e tante traversie, ho acquisito la consapevolezza che non c’è evento storico o condizione umana specifica che non trovi il suo fondamento nella nostra natura. Una natura che vive di molteplici aspetti e che ha una tale ricchezza da potere produrre esiti totalmente diversi, sia sul piano dell’immediatezza sia su quello della storia, ma di cui un aspetto centrale resta quello di «animale sociale» già a suo tempo ipotizzato e descritto da Aristotele. La socialità come bisogno dell’altro e della vita in comunità, a prescindere da come si presenti nello specifico, è un dato che ci caratterizza in quanto iscritto nel nostro DNA.  È questa la necessaria premessa da tenere in conto per comprendere qualsiasi discorso intorno alla reciprocità. A livello animale io credo (ma non ci giuro per mancanza di competenze specifiche) che essa si produca anche in alcune gerarchie di ruoli come, per esempio, quella tra il capo branco e gli altri appartenenti al gruppo, i quali comunque hanno sempre qualcosa da guadagnare nel loro essere subordinati. L’essere umano, tuttavia, è un animale molto speciale la cui organizzazione sociale non si presenta come statica nel tempo, ma è al contrario soggetta a continui mutamenti che producono il superamento dei vecchi assetti. È proprio in ragione di queste dinamiche che oppongono costantemente il nuovo al vecchio che, accanto al prodursi del «puro uso della forza» da parte di chi deve difendere le proprie posizioni di potere, si è determinata una evoluzione dell’istinto di reciprocità verso un vero e proprio «principio di giustizia» che interpreta la relazionalità umana come fondata su condizioni di equità, parità ed eguaglianza. Un principio di giustizia, dunque, come un prodotto storico e culturale, figlio di un lungo travaglio, che trova tuttavia i suoi fondamenti nella compiuta realizzazione di un istinto naturale. 

Possiamo dire a questo punto che quella duplicità tra «il maschile» e «il femminile», che assume un valore centrale nelle argomentazioni del mio libro, è tutta giocata entro l’interpretazione di questo progressivo darsi storico del «principio di giustizia». Precisiamo intanto che ciò che io definisco «il maschile» non va confuso con il maschilismo patriarcale che ne rappresenta la degenerazione in termini di affermazione del «diritto del più forte» spesso come imposizione del tutto arbitraria. Col termine «maschile» invece intendo una interpretazione del principio di giustizia come fondato sullo «scambio uguale»; sulla perfetta equivalenza di ciò che si dà e ciò che si riceve; su una reciprocità simmetrica fondata su una razionalità di scopo. La sua esemplificazione storica più chiara è data dal funzionamento del mercato originario, prima che di esso si impossessasse il denaro-capitale. Sul femminile ho invece già detto in una precedente risposta di questa intervista. Ricordo solo che esso è fondato sullo «scambio generoso»; sulla cura dell’altro non solo come altruismo ma come intimo bisogno di auto soddisfazione ed auto realizzazione; Il bene proprio inteso in sintonia e come parte del bene comune. La sua più chiara esemplificazione può essere data dallo scambio intergenerazionale, in cui si restituisce ai figli ciò che si è avuto dai propri genitori.

Nella mia ipotesi. Il maschile ed il femminile rappresentano due modi di interpretare il principio di giustizia che sono, o meglio, dovranno divenire nelle nostre auspicabili aspettative, tra loro del tutto complementari.  La loro sintesi storica non si è resa ancora possibile in ragione del fatto che il maschile è stato fino ad oggi imprigionato entro il volto del maschilismo figlio del dominante patriarcato e il femminile segregato escluso dalla visibilità.

       

 

 

Un’altra ipotesi chiave del libro è quella di una Costituzione sovranazionale, in base alla quale richiami anche la recente proposta di una «Costituzione della terra» fatta da Luigi Ferraioli. Parli di costituzionalismo meticcio. Vuoi introdurci alle tematiche in questione?

 

 

 

Credo che uno dei maggiori problemi che noi di scuola e di militanza marxista ci troviamo ad affrontare è la questione della forma Stato e della prospettiva del suo possibile superamento. Marx su questo è stato chiarissimo. Noi oggi possiamo appellarci ai grandi cambiamenti che la storia ha prodotto nei modi del comando e nelle forme delle lotte e delle opposizioni anche per riconsiderare alcuni aspetti della teoria marxiana, ma se vogliamo continuare ad essere marxisti non possiamo mettere in discussione l’esigenza di riuscire ad andare oltre le istituzioni dello stato moderno e le sue forme gerarchiche e di dominio. Si tratta tuttavia di una questione veramente difficile, non solo rispetto al possibile darsi della prospettiva finale che per molti versi non può che apparire ancora molto lontana, ma anche nella definizione delle ipotesi di studio e nella pratica possibilità di cominciare a mettere in atto percorsi anche molto parziali che vadano in questa direzione. La ragione di tante difficoltà sta nel fatto che lo Stato moderno non solo ha affinato i suoi strumenti di potere, rafforzandoli e al tempo stesso rendendoli più duttili, ma tende ormai a legittimarsi sempre più, anche oltre le scelte politiche contingenti, come una grande macchina capace di dare ordine e di ridurre una complessità sociale che si dà in costante crescita.

Di fronte a tale problematicità sarebbe necessario un grande impegno nella ricerca e uno sforzo di fantasia nella determinazione delle vie da percorrere. Lo stato dell’arte è invece veramente deprimente. Le ipotesi di un mondo futuribile discusse in ambito marxista, libertario o anarchico, si muovono molto spesso dentro una pretesa di ingegneria sociale caratterizzata da una avvilente semplificazione delle questioni che non riesce ad andare oltre la trita banalità di una democrazia diretta agita esclusivamente sulla base del piccolo territorio d’appartenenza. Spesso i riferimenti positivi sono a comunità definite pomposamente «senza Stato», e che sono nella realtà piccoli agglomerati isolati dal resto del mondo. Si ha in sostanza l’impressione di una propensione al «primitivismo» in cui il futuro viene pensato come un ritorno al passato, e dove la riduzione dell’identità del soggetto sociale al solo ambito del piccolo territorio di appartenenza può nascondere le insidie di un nuovo «totalitarismo», tutt’altro che democratico o libertario.

È a fronte di tali considerazioni che ho trovato apprezzabile lo sforzo di Ferrajoli di immaginare una «Costituzione della terra» in cui si ponesse innanzitutto l’esigenza di un primo ridimensionamento dei poteri selvaggi e senza controllo dello Stato moderno e della grande finanza, anche attraverso la definizione di «organismi di garanzia» con competenze globali per assicurare il rispetto dei diritti, (per esempio sulla salute, l’alimentazione ecc.). Questa ipotesi, tra l’altro, apre la strada alla possibilità di pensare ad una nuova strutturazione e differenziazione delle istituzioni che si somma e al tempo stesso va oltre la vecchia separazione dei poteri. La costituzione di «organismi di garanzia», che potrebbero essere pensati anche a livello nazionale, insieme agli «organismi di controllo» già esistenti (in Italia: la Corte costituzionale, innanzitutto, ma anche la Cassazione, il Consiglio di Stato, la Corte dei conti ecc.), pone una netta differenziazione tra i poteri di governo di chi decide e i poteri di chi controlla, ed eventualmente censura o reindirizza, l’operato degli organi decisionali. Si tratta di una distinzione già nota, ma le cui potenzialità andrebbero ulteriormente approfondite al fine di valorizzarne tutti i possibili esiti positivi, come dimostrato proprio dalle ipotesi fatte da Ferrajoli.

      Sul meticciato culturale, infine, ci sarebbe molto da dire e non posso che rimandare alla lettura del saggio del mio libro dedicato a questo argomento. Qui mi limiterò ad alcune considerazioni sintetiche e generali. Innanzitutto bisogna sfatare la falsa idea che gli esseri umani si differenzino per appartenenze razziali o anche solo per tratti somatici. Le razze non esistono e le differenze genetiche sono del tutto insignificanti. L’unica cosa che ci distingue sono le appartenenze culturali. Queste, tuttavia costituiscono un problema reale ampiamente sottovalutato anche dalle forze progressiste che si contentano di propugnare la semplice tolleranza o la sola interculturalità. Sono invece convinto che la strada giusta e strategica è quella dell’ «imbastardimento». Bisogna incontrarsi, confrontarsi e se necessario scontrarsi, ovviamente nei limiti del reciproco rispetto e sempre disponibili a mettersi in discussione, ma senza essere mai accondiscendenti su questioni ritenute di principio. Questo è il solo modo per trovare una nuova sintesi che valorizzi il meglio di ogni singola cultura, migliorando noi stessi e gli altri. Il «meticciato culturale» ovviamente porta ad una fusione che per quanto importante e significativa, non può essere pensata come totale e definitiva.  Questo miracolo, tuttavia, è già avvenuto una volta nella storia, quando i barbari invasori e le popolazioni del vecchio Impero Romano, dopo alcuni secoli di convivenza, divennero una sola cosa dando origine alla storia dell’Occidente, e con essa a tutta la storia globale della modernità, con tutte le sue terribili tragedie ma anche con tutte sue straordinarie magnificenze.      


immagine di Rebecca Horn, Mechanical Body Fan, 1972-74 

pubblicato anche su machina-deriveapprodi