-GUGLIELMO FORGES DAVANZATI-
dopo l’ubriacante successo iniziale del
Jobs Act , “successo” del tutto apparente - come da più parti venne anticipato
-, è tornato a crescere il tasso di disoccupazione:
12%, ben due punti sopra la media europea
/il fenomeno della riduzione degli “inattivi” viene valutato positivamente quasi che alla maggior disponibilità di forza-lavoro dovesse corrispondere una dubbia automatica crescita occupazionale
/parimenti ci viene propinata la novella riformatrice, secondo la quale i voucher sarebbero un’indispensabile strumento di contrasto per arginare il lavoro nero
/invero secondo dati-ISTAT: “l’incidenza del sommerso sul Pil è costantemente aumentata negli ultimi anni, pur essendo stato fornito alle imprese lo strumento dei buoni lavoro”
/il fenomeno della riduzione degli “inattivi” viene valutato positivamente quasi che alla maggior disponibilità di forza-lavoro dovesse corrispondere una dubbia automatica crescita occupazionale
/parimenti ci viene propinata la novella riformatrice, secondo la quale i voucher sarebbero un’indispensabile strumento di contrasto per arginare il lavoro nero
/invero secondo dati-ISTAT: “l’incidenza del sommerso sul Pil è costantemente aumentata negli ultimi anni, pur essendo stato fornito alle imprese lo strumento dei buoni lavoro”
È ormai chiaro che, rispetto all’obiettivo dichiarato (accrescere
l’occupazione), il Jobs Act si è rivelato fallimentare. Il provvedimento, che
ha introdotto contratti a tutele crescenti (frequentemente ed erroneamente
definiti a tempo indeterminato) è stato accompagnato da ingenti sgravi
contributivi a favore delle imprese per la ‘stabilizzazione’ dei contratti di lavoro. Secondo la
propaganda governativa, si sarebbe fatta marcia indietro rispetto alle misure
di precarizzazione del lavoro messe in atto con intensità crescente negli
ultimi decenni. Nei fatti, si è trattato di un provvedimento che ha semmai reso
le condizioni di lavoro ancora più precarie, sia per l’introduzione di una
nuova tipologia contrattuale (il contratto a tutele crescenti) che non stabilizza il rapporto di lavoro (ma rende più
difficile e costoso il licenziamento al crescere dell’anzianità di servizio),
sia per l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. In più,
contrariamente agli obiettivi dichiarati, si è accentuato il dualismo del
mercato del lavoro italiano, inserendo una inedita cesura – datata 7 marzo 2015
– fra lavoratori assunti con veri contratti a tempo indeterminato e lavoratori
assunti con contratti a tutele crescenti.
Come da più parti previsto, si è
trattato di un provvedimento del tutto inefficace, e per alcuni aspetti
controproducente, per la crescita dell’occupazione. Dopo un aumento
dell’occupazione ‘a tempo indeterminato’, evidentemente determinato dalla
convenienza da parte delle imprese a riconvertire i contratti per avvalersi
della detassazione, riducendosi i fondi pubblici per gli sgravi fiscali alle
imprese, si è registrata una rapidissima inversione di tendenza: è aumentato il
tasso di disoccupazione e i contratti sono diventati sempre più precari. In
sostanza, si è trattato di un’operazione che ha temporaneamente “drogato” il
mercato del lavoro italiano. Nulla più di questo, se non si fosse trattato di
un vero e proprio spreco di risorse pubbliche per un obiettivo non raggiunto e
verosimilmente non raggiungibile con gli strumenti utilizzati. Terminata questa
fase, ci si ritrova in una condizione sotto molti aspetti peggiore della
precedente, una triste eredità del Governo Renzi, per due ordini di ragioni.
1.Secondo le ultime rilevazioni ISTAT,
il tasso di disoccupazione, in Italia, torna nel 2016 a quasi il 12%, dopo una
leggera flessione nel 2015, attestandosi a oltre due punti percentuali in più
rispetto alla media europea (11.9% a fronte del 9.8%). Si registra anche una
significativa riduzione del numero di inattivi, fenomeno che, di norma, viene
valutato positivamente come segnale di dinamismo del mercato del lavoro. Si
tende, cioè, a ritenere che una maggiore partecipazione nel mercato del lavoro
sia, di per sé, desiderabile.
È bene chiarire che è, questa, una
valutazione che riflette una visione del funzionamento del mercato del lavoro
interamente declinata ‘dal lato dell’offerta’: in altri termini, più
forza-lavoro disponibile dovrebbe implicare maggiore occupazione. Il che non è
nei fatti, né oggi in Italia né è quasi mai accaduto da quando il fenomeno è
oggetto di rilevazione statistica.
La riduzione del numero di inattivi, se
letta in chiave macroeconomica, può non essere affatto un segnale di vitalità
del mercato del lavoro e, in più, può essere il segnale di un meccanismo niente
affatto virtuoso. Ciò a ragione del fatto che la riduzione del numero di
inattivi è associato a un fenomeno noto come ‘effetto del lavoratore aggiunto’:
in fasi recessive e di caduta della domanda di lavoro, con conseguente
riduzione dei salari reali, entrano nel mercato del lavoro altri componenti
dell’unità familiare per provare a garantire all’unità familiare il livello di
consumi considerato ‘normale’. Il che significa che la riduzione del numero di
inattivi è innanzitutto un segnale di impoverimento dei lavoratori occupati e,
al tempo stesso, di erosione dei risparmi delle famiglie (dal momento che una
condizione di inattività è consentita solo attingendo a redditi non da lavoro).
Vi è poi da considerare che l’aumento del numero di individui alla ricerca
di lavoro, accrescendo la concorrenza fra lavoratori, contribuisce a ridurre i
salari, in una spirale perversa per la quale la domanda interna continua a
contrarsi, così come la domanda di lavoro e dunque i salari e i consumi. In
altri termini, l’aumento dei tassi di partecipazione al
mercato del lavoro è l’effetto della caduta dei salari e, al tempo stesso,
contribuisce a generarla.
2. Il Jobs Act ha contribuito alla
precarizzazione del lavoro anche per mezzo dell’estensione della platea di
lavoratori pagati con buoni lavoro (voucher), per ogni
settore produttivo e committente. I buoni lavoro, già presenti nella c.d. Legge
Biagi, erano stati pensati per remunerare mansioni accessorie e occasionali,
spesso prestate in condizioni di illegalità. Tipicamente: lavori domestici
saltuari, badanti. Occorre ricordare che il lavoro con voucher non configura un
contratto di lavoro e, per questa ragione, non dà al lavoratore diritto a
ferie, maternità, né, in caso di non rinnovo del rapporto, si configura un
licenziamento1.
Il risultato dell’estensione della platea di potenziali beneficiari è
impressionante: nel corso del 2016, sono stati staccati 115 milioni di
tagliandi, coinvolgendo circa 700 mila lavoratori (a fronte di 25mila nel 2008)
per un importo complessivo stimato intorno agli 800 milioni di euro.
La recente decisione della Consulta di consentire il referendum abrogativo
dei voucher(uno dei tre proposti dalla CGIL) va accolta con
favore, sebbene si tratti di una decisione opinabile e oggetto di critiche (http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=27177), avendo impedito ai cittadini italiani
di esprimersi contro l’abolizione dell’art.18. I buoni lavoro costituiscono la
nuova frontiera del precariato, e ogni azione di contrasto al precariato è da
valutare positivamente sia per garantire dignità al lavoro, sia perché è
ampiamente mostrato – sul piano teorico ed empirico – che la precarizzazione
del lavoro non accresce l’occupazione, riduce la quota dei salari sul Pil, ed è
un freno alla crescita2.
È lo stesso Governo ad ammettere che l’uso dei voucher va maggiormente regolamentato
a ragione del fatto che di questo strumento le imprese avrebbero “abusato”. Ma
è lo stesso Governo a continuare a reiterare l’argomento (falso) per il quale i
buoni lavoro sono uno strumento efficace per contrastare il lavoro nero. Per
decretare la falsità di questo argomento, può essere sufficiente considerare
che, su fonte ISTAT, l’incidenza del sommerso sul Pil è costantemente aumentata
negli ultimi anni, pur essendo stato fornito alle imprese lo strumento dei
buoni lavoro. Ed è proprio l’ISTAT a imputare l’aumento del sommerso
all’aumento del tasso di disoccupazione – non all’eccessiva rigidità del
mercato del lavoro, come nell’interpretazione governativa e dominante – in
linea con la posizione dell’INPS3.
È poi interessante osservare che, su fonte INPS, l’uso dei voucher è maggiormente diffuso al Nord (fatta
eccezione per il boom di voucher venduti in Sicilia), dove, per le informazioni
di cui si dispone, è normalmente minore l’incidenza del lavoro sommerso o
irregolare. Il che potrebbe dipendere dalla maggiore numerosità di imprese lì
localizzate e dalla loro crescente propensione a competere comprimendo i salari
e accelerando (grazie alla massima flessibilità sui tempi garantita dai
voucher) i tempi di produzione e vendita. E, per quanto attiene l’offerta di
lavoro, è ragionevole ipotizzare che in quell’area sia presente, e in crescita,
una platea di lavoratori disposti a lavorare a qualsiasi condizione. Il che, a
sua volta, può innescare un fenomeno irreversibile. Lavoratori che hanno
accettato di essere pagati con voucher saranno evidentemente considerati dalle
imprese lavoratori disponibili a erogare le loro prestazioni con i minimi
diritti in un ‘gioco al ribasso’ che i meccanismi spontanei di mercato non
frenano, anzi promuovono.
1 La letteratura accademica sul
fenomeno, per quanto attiene all’Italia, è ancora molto scarna. Per un
inquadramento generale del fenomeno si rinvia a D. Serafin, V come voucher. La nuova frontiera del precariato, Report
“Possibile”, novembre 2016.
2 Per una ricostruzione del
dibattito, si rinvia, fra gli altri, a G.Forges Davanzati e G.Paulì,Precarietà del lavoro, occupazione e crescita economica,
“Costituzionalismo”, 2015 n.1.
3 V. C. De
Gregorio e A. Giordano, The heterogeneity of irregular
employment in Italy, ISTAT working paper n.1 2015
fonte: www.sbilanciamoci.it