di
Nicolas Martino e Ilaria Bussoni -
«Bohème»,
prima di definire i tratti di una vita da artisti a cui è da tempo associata,
indica popolazioni erranti e zigane provenienti genericamente dall’Oriente che
in Francia si credono originarie della Boemia. Più che indicare una vera
provenienza etnica o geografica, per estensione viene utilizzato per designare
in modo dispregiativo popolazioni i cui comportamenti e le cui abitudini sono
la sregolatezza, l’espediente, la migrazione. Dunque quelle «classi pericolose»
reticenti al lavoro industriale e alla disciplina, in opposizione alle «classi
laboriose», composte da vagabondi, avventurieri, furfanti, forestieri,
prostitute, la cui esistenza precede l’emergere della figura di un artista alle
prese con la metropoli, con il mercato e in cerca di nuovi mecenati.
Quello
che vorrei mettere in luce in questa parte del nostro intervento è la
centralità della figura di Luciano Bianciardi come intellettuale, centralità
rispetto alla questione strategica dell’«aura» nel lavoro contemporaneo, e
sulla quale il nostro deraciné grossetano finì per inciampare,
non riuscendo a trovare una via di fuga percorribile rispetto al «ruolo» che
gli era stato cucito addosso dall’industria culturale e nel quale a tratti lui
stesso finì per trovarsi anche a proprio agio.
Un’ambivalenza
di Bianciardi quindi delle sue intuizioni rispetto al ruolo dell’intellettuale
e alle trasformazioni del lavoro culturale nella metropoli contemporanea, ma
anche dei suoi limiti che gli impedirono di capire fino in fondo tutte le
conseguenze di quella grande trasformazione che lui stesso si trovava a vivere
nell’Italia a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta. Bianciardi è autore, come
è noto, di una cosiddetta trilogia della rabbia che comprende Il Lavoro
culturale (1957), L’integrazione (1960) e La
vita agra (1962), il suo libro di maggior successo. Di questi il primo
è dedicato al lavoro culturale in provincia nell’Italia del secondo dopoguerra,
gli altri due al lavoro nell’industria culturale in un’Italia metropolitana
attraversata dal boom economico e sociale. Molti tratti dell’ambivalenza di
Bianciardi emergono da queste due opere di ambientazione milanese, ma anche
dalla corrispondenza privata e da scritti e interventi di varia natura che
Bianciardi disseminò nella sua frenetica attività di collaboratore su testate
diverse; una piccola parte di questo materiale proveremo qui a prenderlo
brevemente in esame. Dicevamo di un ruolo che a Bianciardi era stato cucito
addosso e dal quale non era riuscito a liberarsi, ma qual era questo ruolo
esattamente? Quello del bohémien metropolitano in effetti, e
più esattamente una sua declinazione aggiornata a quegli anni, quella del beatnik.
Ma
cerchiamo di andare con ordine. Il primo elemento è quello della metropoli, la
Milano degli anni Cinquanta-Sessanta che Bianciardi dipinge con tratti che
ricordano la grande ricerca micrologica di Kracauer sulla Berlino degli anni
Venti e Trenta. A rileggere oggi le pagine de Gli impiegati sembra
davvero di incrociare quello stesso sguardo spietato del nostro. Quelle
classi medie, gli impiegati appunto che Kracauer descriveva come
«spiritualmente senza tetto» nella Berlino fra le due guerre – quella della
vacillante repubblica di Weimar – potrebbero essere gli stessi ragionieri e le
segretarie di Bianciardi in una Milano che «di notte sembra un Luna Park» ma
dove, qui è di nuovo Kracauer che parla, «la luce acceca, piuttosto di
illuminare, e forse tutta la luce che negli ultimi tempi inonda le nostre
grandi città serve non da ultimo ad accrescere il buio». L’impiegato di
Kracauer che «si salva dalla sua povertà con la distrazione» e la folla di
Bianciardi che «compra, compra compra», sono temporalmente distanti ma
ugualmente votati al culto del divertimento e alla sconfitta esistenziale.
È
in questa dimensione metropolitana che si aggira un bohémien attualizzato
a quegli anni, un beatnik come Bianciardi appunto che nella
sua opera principale, La vita agra, «storia di una solenne
incazzatura, scritta in prima persona singolare» ma anche «storia della
diseducazione sentimentale in Italia, al tempo del Miracolo» come scrive al suo
amico Mario Terrosi, intuisce in maniera straordinaria l’emergere di una nuova
natura del lavoro, un nuovo settore che non è più quello terziario, ma quartaro come
lo chiama Bianciardi – lavoro caratterizzato dall’assenza di un’opera e
dall’immaterialità. Le professioni legate alla comunicazione non danno luogo a
un prodotto tangibile e quindi, proprio perché «non si fabbricano nuovi
oggetti, ma situazioni comunicative», queste esigono attitudini di tipo
politico. Il lavoro inizia ad assomigliare sempre di più all’azione e prassi
pubblica. È l’analisi sviluppata da Paolo Virno in una nota al suo saggio Virtuosismo
e rivoluzione, dove riporta questo famoso brano de La vita
agra:
«E
mi licenziarono, soltanto per via di questo fatto che strascico i piedi, mi
muovo piano, mi guardo attorno anche quando non è indispensabile. Nel nostro
mestiere invece occorre staccarli bene da terra, i piedi, e ribatterli
sull’impiantito sonoramente, bisogna muoversi, scarpinare, scattare e fare
polvere, una nube di polvere possibilmente, e poi nascondercisi dentro. Non è
come fare il contadino o l’operaio. Il contadino si muove lento, perché tanto
il suo lavoro va con le stagioni, lui non può seminare a luglio e vendemmiare a
febbraio. L’operaio si muove svelto, ma se è alla catena, perché lì gli hanno
contato i tempi di produzione, e se non cammina a quel ritmo sono guai. Ma
altrimenti l’operaio va piano, in miniera per esempio non si mette mai a
battere i piedi e il falegname se la fa con calma, la sua seggiola o il suo
tavolino, con calma e precisione, e l’imbianchino ti resta in casa una
settimana solo per scialbare una stanza. Ma il fatto è che il contadino
appartiene alle attività primarie, e l’operaio alle secondarie. L’uno produce dal
nulla, l’altro trasforma una cosa in un’altra. Il metro di valutazione, per
l’operaio e per il contadino, è facile, quantitativo: se la fabbrica sforna
tanti pezzi all’ora, se il podere rende. Nei nostri mestieri, è diverso, non ci
sono metri di valutazione quantitativa. Come si misura la bravura di un prete,
di un pubblicitario, di un PRM? Costoro né producono dal nulla, né
trasformano. Non sono né primari né secondari. Terziari sono e anzi oserei
dire […] addirittura quartari. Non sono strumenti di produzione, e nemmeno
cinghie di trasmissione. Sono lubrificante, al massimo, sono vaselina pura.
Come si può valutare un prete, un pubblicitario, un PRM? Come si fa a calcolare
la quantità di fede, di desiderio, di acquisto, di simpatia che costoro saranno
riusciti a far sorgere? No, non abbiamo altro metro se non la capacità di
ciascuno di restare a galla, e di salire più su, insomma di diventare vescovo.
In altre parole, a chi scelga una professione terziaria o quartaria occorrono
doti e attitudini di tipo politico. La politica, come tutti sanno, ha cessato
da molto tempo di essere scienza del buon governo, ed è diventata invece arte
della conquista e della conservazione del potere. Così la bontà di un uomo
politico non si misura sul bene che egli riesce a fare agli altri, ma sulla
rapidità con cui arriva al vertice e sul tempo che vi si mantiene. […] Allo
stesso modo, nelle professioni terziarie e quartarie, non esistendo alcuna
visibile produzione di beni che funga da metro, il criterio sarà quello».
Insomma,
ci dice Virno, in questo romanzo che racconta lo sviluppo dell’industria
culturale nell’Italia degli anni Sessanta, Bianciardi intuisce quello che di lì
a pochi anni sarebbe diventato un tratto costitutivo dell’intero processo
produttivo post-fordista, ovvero «la simbiosi – pervasiva – tra lavoro e
comunicazione». Una nota, quella di Virno, poi sviluppata ulteriormente in un
paragrafo di Grammatica della moltitudine, che costituisce
probabilmente una delle più illuminanti letture critiche del lavoro di Bianciardi,
restituendone la straordinaria attualità, e anche i limiti. Limiti, perché è
anche vero che Bianciardi considerava questi tratti del lavoro dell’industria
culturale come delle stramberie rispetto al lavoro autentico che
rimaneva per lui quello della grande fabbrica del Novecento. Su questi limiti è
il caso di insistere ora, perché furono questi che impedirono a Bianciardi di
riuscire a giocare fino in fondo la carta del cambiamento che pure aveva
intuito.
Proprio
negli anni in cui si preparava la stagione operaista e le città del nord erano
attraversate dalle nuove lotte operaie, Bianciardi denunciava l’assenza degli
operai. «Gli operai non ci sono – scriveva Bianciardi in una famosa Lettera
da Milano pubblicata sul Il Contemporaneo nel 1955 –
almeno in quella Milano che è compresa nel raggio del movimento mio e dei miei
colleghi, non entrano mai nel nostro rapporto di lavoro» e gli intellettuali
invece ci sono ma solo «come singoli, mai come gruppo. Non riescono a formarlo
– insiste Bianciardi – e ad influire come tale sulla vita cittadina. L’unico
gruppo in qualche modo compatto è quello che forma la desolata “scapigliatura”
di via Brera» . Ha giustamente notato Giuseppe Nava che in Bianciardi: «Il
rapporto con il movimento operaio e le sue organizzazioni è andato anch’esso
perduto: l’universo unidimensionale del terziario urbano, che isola i soggetti
nel circuito chiuso casa-ufficio e ufficio-casa, e fa sparire, anche
visivamente, le altre classi sociali, rendendo irreperibili gli operai, che il
protagonista dellaVita agra cerca invano nei quartieri residenziali
non meno che nelle sezioni territoriali di partito, produce l’atomismo
sociale». «Insomma – si chiede ancora Bianciardi nel 1965 – cosa è oggi la
classe operaia, e il partito. Dov’è lo sbaglio?» e chi sono gli intellettuali,
questi intellettuali la cui preoccupazione maggiore «è quella di ben
comparire»?
Bianciardi
non vede gli operai perché non riesce a vederli e non riesce a
inquadrare gli intellettuali se non come funzionari dell’industria culturale
che riescono, nel migliore dei casi, a essere gli scapigliati del Bar Giamaica,
ovvero i beatnik come lui. E questo, come dicevamo prima,
proprio negli anni in cui si sviluppavano esperienze come quella dei Quaderni
Rossi e poi di Classe Operaia, la metodologia della conricerca e
l’importante esperienza della comune fenomenologica di via Sirtori a Milano,
esperienze che puntava a liquidare il ruolo tradizionale dell’intellettuale
impegnato o scapigliato che fosse, per sviluppare un modo nuovo e diverso di
fare lavoro politico-culturale che portava con sé anche una diversa soggettivazione.
Bianciardi insomma nonostante la straordinaria intuizione di cui dicevamo
prima, non riusciva a vedere fino in fondo quello che stava
accadendo perché era rimasto prigioniero del ruolo assegnatoli dalla società in
quanto autore, scrittore, intellettuale, così come notava Sergio Bologna in una
significativa testimonianza alcuni anni fa dove, ripercorrendo l’esperienza
milanese delle nuove lotte operaie e dei Quaderni Rossi, ricordava:
«che a sentir raccontare la nostra quotidianità, di gente che si dava da fare
sul fronte, diciamo, “antagonista”, a sentir dire cosa accadeva a due passi da
casa sua, il Nostro rimase senza parole, guardandoci con diffidenza come se
pensasse “questi mi stanno pigliando per il culo” oppure, chissà, che si
trattasse semplicemente di un’altra forma di bohème “politicizzata”, diversa da
quella cui era abituato lui, la bohème “artistica”. Era uscita da un anno “La
vita agra” e per noi era stata come il pane. Bianciardi era stato capace di
rappresentarvi perfettamente la figura dell’Intellettuale di sinistra, proprio
quello che volevamo cercare di non essere. L’aveva dipinta così bene che quella
maschera è entrata definitivamente nel repertorio della commedia italiana. Ma
anche lui, in fondo, non era riuscito ad uscire da quel mondo».
Un
ruolo dal quale, al di là delle prese di posizione, occorre invece liberarsi,
se si vuole davvero rovesciare lo stato di cose presente e cambiare la vita. E
invece Bianciardi in quel ruolo tradizionale dell’intellettuale separato e
chiuso nel recinto della sua individualità rimase completamente catturato, e
costretto, dallo stesso successo del suo romanzo, a recitare la parte dell’arrabbiato di
professione, «murato» nella sua condizione e «reso incapace di progetti per il
futuro». È ancora Giuseppe Nava a notare come «il personaggio bianciardiano […]
appare votato a ripercorrere indefinitamente parabole di scacco e frustrazione,
che lo avvicinano alle posizioni degli scrittori americani della “beat
generation” e dei “giovani arrabbiati” inglesi […] Non gli resta, per sentirsi
vivo, che la rabbia, come reazione istintuale ed estrema difesa: una rabbia che
è impotenza pratica e sogno consolatorio di un futuro utopico di vita rurale e
di liberazione sessuale quale appunto nella letteratura “beat”». E in quel
ruolo finì a tratti anche per trovarcisi bene e per compiacersi: «Finirà che mi
daranno uno stipendio mensile solo per fare la parte dell’arrabbiato italiano»
scriveva all’amico grossetano nel 1962 e nello stesso anno cominciava anche a
«pensare che sia meglio stare in groppa ai cavalli grossi», così si esprime,
commentando con lo stesso amico il successo del suo libro pubblicato da Rizzoli
e gli investimenti economici che di conseguenza iniziavano ad arrivare.
Per
concludere, eccolo quindi il grande, autentico, limite di Bianciardi:
l’incapacità di presagire, nell’ambivalenza della realtà che gli si dispiegava
davanti, la via di fuga che, trasformando in un progetto politico e culturale
collettivo la sua rabbia, lo avrebbe salvato da quella vera e propria «crisi
della presenza» che invece lo travolse consegnandolo allo smarrimento del
soggetto, a quella «disgiunzione tra individuo e mondo» che ne avrebbe
decretato la morte a soli 49 anni. Rimase prigioniero insomma, pur intuendo il
passaggio produttivo dal fordismo al postfordismo, di quella individualità
iperegotica tipicamente postmoderna sulla quale la controrivoluzione
neoliberista di fine anni Settanta avrebbe costruito la sua fortuna. Sempre in
bilico tra questa individuazione e l’intuizione che la trasformazione a venire
avrebbe aperto praterie sconfinate al dispiegarsi della marea-bohème,
rimase catturato nell’aura del bohémien, come spiegherà
a brevissimo Ilaria. Un’aura messa a valore dall’industria culturale
soprattutto a partire dagli anni Settanta quando, con la fine della
convertibilità del dollaro in oro decisa da Nixon, il denaro diventa
inutilizzabile come mezzo per conservare valore nel tempo e si inizia a
investire di più nel mercato dell’arte, spingendo verso la commercializzazione
della produzione culturale, puntando sull’autenticità ovvero sull’autorialità e
quindi sulla valorizzazione della firma dell’artista convertita in brand, mentre
l’intellettuale diventava imprenditore di se stesso una volta consumata
definitivamente la figura dell’intellettuale tradizionalmente separato e
chiamato a distinguere il vero dal falso e il bene dal male. Su questa
contraddizione vissuta in prima persona da Bianciardi, sul rifiuto dell’aura e
sulle sconfinate praterie che la trasformazione post-fordista apriva alla marea-bohème,
da un lato, e sulla cattura e valorizzazione iperindividualizzata e narcinista (narcisismo
+ cinismo) dell’aura da parte della controrivoluzione neoliberista, dall’altra,
si consumerà anche il movimento degli anni Settanta in Italia.
Occorre
allora tornare al termine «bohème» nel tentativo di descrivere l’ethos del
lavoro creativo contemporaneo. Parola dall’aria ottocentesca, colma di
romanticismo e melodramma, che poco sembra adattarsi alle condizioni della
messa al lavoro contemporanee di un’industria culturale evoluta, differenziata
e globalizzata, che alterna dispositivi di valorizzazione altamente
individualizzanti, proprio mentre ne reintroduce altri disciplinanti e seriali.
Eppure bohème è parola longeva nell’attraversare paradigmi
produttivi assai diversi quali sviluppo della produzione industriale, fordismo
e postfordismo, e a ritagliarsi precisamente su figure la cui messa al lavoro è
legata a virtù linguistiche e creative. Il termine «bohème», fin nella sua
filologia, traduce una delle espressioni storiche di un’esistenza sociale dei
molti in quanto molti, di una pluralità che persiste come tale senza convergere
in un Uno. Ha dunque tratti multitudinari. Senz’altro non la prima
rappresentazione della moltitudine (da Platone a Burke abbondano le descrizioni
degli orridi polloi), ma forse una delle poche così persistenti.
«Bohème»,
prima di definire i tratti di una vita da artisti a cui è da tempo associata,
indica popolazioni erranti e zigane provenienti genericamente dall’Oriente che
in Francia si credono originarie della Boemia. Più che indicare una vera
provenienza etnica o geografica, per estensione viene utilizzato per designare
in modo dispregiativo popolazioni i cui comportamenti e le cui abitudini sono
la sregolatezza, l’espediente, la migrazione. Dunque quelle «classi pericolose»
reticenti al lavoro industriale e alla disciplina, in opposizione alle «classi
laboriose», composte da vagabondi, avventurieri, furfanti, forestieri,
prostitute, la cui esistenza precede l’emergere della figura di un artista alle
prese con la metropoli, con il mercato e in cerca di nuovi mecenati. «Bohème» è
dunque il nome del Lumpen-proletariato, definizione che ritroviamo in Marx. Ma
l’interesse è appunto che quando il lavoro artistico diventa lavoro,
ovvero quando si incrina il paradigma moderno della committenza ed emerge una
borghesia di compratori d’arte in cerca di opere, è a questa classe
moltitudinaria, a questa non classe, che vengono apparentati gli artisti. Nella
«bohème», essi vi figurano a pari titolo di altri, accomunati da una forma di
vita basata sull’occasione (la razionalità kairologica tanto odiata da
Platone), l’irregolarità delle abitudini, la licenza dei costumi, l’attività di
servizio e una lingua comune, l’argot, «lingua dei malfattori» o dei
«fuorilegge», alla cui formazione in quanto lingua dell’artificio e del
travisamento ha non poco contribuito il Romanì. È solo in un momento successivo
che la parte prende il sopravvento sul tutto e gli ultimi arrivati della
«bohème» finiscono con il sostituire il resto dei frequentatori (almeno agli
occhi del pubblico). Ciò accade in un arco temporale piuttosto breve e, mentre Marx
nel 1852 ancora utilizzava «bohème» a indicare l’odierna racaille, il
termine aveva già cominciato a variare, anche grazie alla pubblicazione di Scènes
de la vie de Bohème di Henri Murger, feuilleton uscito a puntate su
«Le Corsaire-Satan» tra il 1847 e il 1848 e poi sistemato in romanzo nel 1851.
Perché ciò accada è forse spiegabile da un’analisi del romanzo, e delle sue
differenze con il melodramma pucciniano che finirà per restringere
ulteriormente una scena in origine abitata dai molti e per
reintegrare un’aura del tutto assente.
Il
romanzo-feuilleton si presenta come una sorta di «inchiesta», o meglio
«auto-inchiesta» visto che l’autore fa il redattore, ha ambizioni di scrittore
ma campa come segretario privato. È organizzato in «scene», ovvero a partire da
fondali variabili di una metropoli che alterna residui di grande aristocrazia e
nuovi borghesi, negozi, magazzini, caffè, ristoranti, esposizioni e un elenco
sterminato di nuovi alimenti, bevande, stoffe, oggetti, tutti in vendita. Da
queste scene i personaggi entrano ed escono, in balìa del caso e
dell’occasione. I quattro protagonisti vivono di lavoro saltuario, impiegando
le rispettive facoltà di scrittura (Rodolfo è redattore di una rivista di
moda), di pittura (Marcello, la cui grande tela dal richiamo classico e
mitologico Passaggio del Mar Rosso finisce come insegna di un
negozio di alimentari), di musicista (Schaunard, che si fa assumere per
ripetere ossessivamente la stessa scala su un piano per spingere una donna a
traslocare insieme al suo pappagallo) e di oratore (Colline, che vive
rivendendo libri d’occasione e lezioni private). Decisamente l’aura è caduta
dalle teste di questi artisti alle prese, più che col mercato e le sue
condizioni, con la merce e il relativo godimento da un lato e i quattrini per
procurarsela dall’altro. Della mancanza di aura e quattrini non paiono granché
preoccupati: il lavoro artistico e creativo non si svilisce se è anche a comando,
non si estingue se è anche seriale; e il denaro è solo uno dei modi (nemmeno il
più vivace) per accedere a beni, luoghi e relazioni di cui godere. Le facoltà
creative sembrano inesauribili e conservano intatte il carattere della potenza a
prescindere da qualunque attualizzazione, fosse anche quella di un lavoro
salariato o di un servizio. Il lavoro creativo non finisce con l’«opera» e la
misura del valore del lavoro artistico è ancorata al peso del colore messo
dentro un quadro o al numero di righe di una terzina.
Il
linguaggio argotico è il sintomo di tale potenza: inesauribile facoltà del
gioco linguistico, della battuta e della capacità di inganno e travisamento, la
lingua della «bohème» è ciò che regge l’architettura di un mondo sì attratto
dalla merce ma dove il denaro non ha funzione valorizzazione. Una poesia vale
una gonna a pieghe. Non sono la professione, l’attività e la natura delle opere
prodotte, né la forma della loro fruizione o destinazione, tanto meno il
salario del lavoro creativo, a definire l’identità del soggetto titolato a
dirsi artista o membro di questa parte della bohème. La virtù
linguistica fa da discrimine e da riparo a questo mondo: la capacità di
maneggiare il motto di spirito, di piegare il linguaggio verso l’estro della
performance, di cogliere l’occasione linguistica è il limite di questo mondo.
Ne ritroviamo traccia a qualche secolo di distanza nel film di Monicelli, Amici
miei, dove il vernacolo e la relativa «supercazzola» del Conte Mascetti
fanno da trama alle «zingarate» di altri avventurieri che in comune hanno
appunto non la classe né la professione bensì il linguaggio. La virtù è di
tutti, a condizione di saper parlare.
Nelle
scene di vita di bohème non vi è dunque nei fatti molto rimpianto per l’artista
autentico, talento d’eccezione spesso incompreso, la cui opera ha il
valore di attestarne la singolare esistenza. La storia di questo «artista»,
comunque «fra i veri membri della vera bohème», il quale anche nelle più
piccole cose mette «una parte di sé», è raccontata in una delle scene: è la
storia dello scultore Jacques e dell’amata Francine, sartina, che finisce con
la morte di entrambi e l’artista sepolto in una fossa comune. Sarà questa
scena, in prevalenza, a diventare La Bohème musicata da
Puccini. Nel feuilleton è una scena tra altre, ma essa è centrale e serve da
monito: contro la miseria, contro il tempo della vita, contro l’anonimato. A
fronte di questo monito, la bohème può coincidere solo con la giovinezza,
un’età in cui è possibile lo sperpero avendo «coscienza del proprio valore»;
essa diventa un recinto nel quale addestrarsi «all’entrata ufficiale nel mondo»
e stilare «con fierezza il programma della propria ambizione». La bohème perde
allora i tratti dei molti e finisce per assomigliare a
un’esotica tribù di «individualità ben marcate». Essa si smarca dal resto degli
erranti, accomunati «dall’odio per il sudore della fronte», e della propria
libertà fa un privilegio dell’arte e dello specifico valore della vita
artistica. Il nuovo ethos della bohème declina allora la fuga dal lavoro e
dalla disciplina delle classi pericolose dalla quale proviene nel cinismo,
nell’opportunismo e nel disincanto di coloro che hanno smesso di credere «di
avere un’eternità da scialacquare». Il monito temporale e il rischio di una vita
anonima («infame» direbbe Foucault) trasforma dunque l’inesauribile potenza
della facoltà di creazione in un capitale a rischio estinzione. La libertà dal
lavoro diventa «la libertà di non dipendere dagli altri» e rompe il sodalizio
con il resto dei vagabondi. Il nascente capitale umano dovrà riallearsi con
l’eccezione, reintrodurre il talento, rianimare l’artista autentico, sotterrato
in una fossa comune, e trovare un modo per ripristinare un’aura che era stato
tra i primi ad affossare. Qui finisce la bohème ridotta a quadretto
generazionale, a «brutta copia di un capolavoro», e come recitano le ultime
battute tra Marcello e Rodolfo:
–
Siamo finiti, mio caro, siamo morti e sepolti.
–
Che vuoi, sono corrotto, ormai…
Un
segnale era tuttavia già presente proprio nella performance linguistica di cui
danno prova gli ultimi arrivati dalla bohème. La lingua estrosa che tesse
continuamente la loro licenza, che è l’espressione continua della loro libertà,
che organizza le loro relazioni e che consente di approfittare del caso, non è
infatti quella delle discipline umanistiche che li hanno formati alle arti
liberali: è la lingua comune ai molti, quella lingua
dell’intelligenza sociale, dell’astuzia e della sottrazione alla cui formazione
hanno contribuito gli erranti che li hanno preceduti e che restano. Senza
questa lingua argotica, comune alla bohème prima dell’arrivo dei bohémien, ben
poca cosa sarebbe stata la loro performance. Grazie a questa lingua si può
mettere in «scene» la vita di bohème a vantaggio di un pubblico. Un atto di
appropriazione ed esclusione, una vera predazione, che trasforma lo specifico
virtuosismo di una lingua parlata dagli «uomini infami» nella performance
individuata del bohémien. È questo strappo dal tessuto comune a chiudere
l’epoca della bohème e a inaugurare quella dei bohémien, molti dei quali a
distanza di quasi due secoli continuano ad affollare le palestre dell’industria
culturale. La virtù è di tutti, basta saper parlare.
I
moniti sulla caducità esistenziale hanno sempre un certo successo, anche
melodrammatico. Uno di questi, all’altezza dei tempi, lo troviamo nel film di
Duncan Jones,The Moon. Qui, l’unico e imprescindibile addetto di una
stazione lunare garantisce la sopravvivenza energetica della terra. Dal suo lavoro
dipende l’umanità. Certo il sapere è sociale e incorporato in una macchina che
fa il grosso del lavoro, ma il suo contributo non è affatto
irrilevante. Di fronte all’imprevisto, al caso, dà il meglio di sé. Per questo lui sta
sulla luna, per il suo apporto singolare, assolutamente individuato, risultato
di un’attività non seriale che non può stare in una macchina. La sua capacità
non è certo altra cosa dalla sua vita, che infatti ha sulla terra
con moglie e figli e che si prepara a reintegrare. Si immagini lasua sorpresa
quando scopre di essere programmato non solo alla sostituzione – il suo
lavoro può farlo anche qualcun altro – bensì alla scadenza biologica. La sua vita
non era la sua. Questa tendenza del Capitale nel produrre illusioni del sé e
forse persino il sé medesimo l’aveva già intuita Bianciardi, quando diceva:
«Sono lubrificante, al massimo, sono vaselina pura». Nel film di Jones è
l’addetto lunare a non averlo capito. Peccato che poi lo stesso Bianciardi
abbia optato per l’aura come salvezza dalla serialità. Il monito in questione
ci serve a ridefinire una cornice: la singolarità, l’inesauribile facoltà
individuale di ciascuno è facoltà in comune. Paolo Virno «Unicità senz’aura».
Intervento
presentato a Historical Materialism, Rome 17-18 settembre 2015
effimera.org