di Christian Marazzi -
Il ciclo economico si basa sul
duplice processo di destrutturazione senza ristrutturazione… distrugge
l’economia locale, il “beneficiario” dei crediti e si impedisce alle economie
locali o naturali di trovare una propria autonomia… si è destrutturato attraverso
le politiche dell’austerità che impediscono ai paesi coinvolti di trovare
ambiti di autodeterminazione. Come le lotte di liberazione nazionale hanno
fatto saltare l’imperialismo, per uscire dalla tenaglia del plusvalore e della
sua realizzazione oggi dobbiamo immaginarci una lotta di liberazione europea
dentro e contro l’Europa.
Ho come l’impressione che siamo entrati in una seconda crisi della regione Europa e sento la necessità di adottare un approccio indiziario per osservare la direzione che possiamo o dobbiamo intraprendere, allo stesso modo di come il cacciatore osserva la piuma d’uccello sul cespuglio per capire da che parte andare. Ad agosto mi sembra sia successo qualcosa che abbia a che fare con la fine di un ciclo: mi sembra che la crisi cinese dichiari la fine di quella forma che il capitalismo ha assunto negli ultimi trent’anni e che è stata definita impero, dove la colonizzazione della concorrenza, del mercato e della finanziarizzazione ha dispiegato dei confini senza un oltre, senza un fuori. Il lavoro di Michael Hardt e Toni Negri ha sottolineato la materializzazione di questa ragione imperiale che la crisi cinese sembra segni la fine dei suoi equilibri geopolitici, economici e finanziari.
Ho come l’impressione che siamo entrati in una seconda crisi della regione Europa e sento la necessità di adottare un approccio indiziario per osservare la direzione che possiamo o dobbiamo intraprendere, allo stesso modo di come il cacciatore osserva la piuma d’uccello sul cespuglio per capire da che parte andare. Ad agosto mi sembra sia successo qualcosa che abbia a che fare con la fine di un ciclo: mi sembra che la crisi cinese dichiari la fine di quella forma che il capitalismo ha assunto negli ultimi trent’anni e che è stata definita impero, dove la colonizzazione della concorrenza, del mercato e della finanziarizzazione ha dispiegato dei confini senza un oltre, senza un fuori. Il lavoro di Michael Hardt e Toni Negri ha sottolineato la materializzazione di questa ragione imperiale che la crisi cinese sembra segni la fine dei suoi equilibri geopolitici, economici e finanziari.
La
Cina, dopo forti investimenti nel settore immobiliare e dell’export – che hanno
giovato non poco all’occidente in questi anni – e politiche espansive che hanno
spinto verso la finanziarizzazione, da quanto si riesce a intuire vive una
forte riduzione della crescita e delle esportazioni. Proprio per far fronte a
questa situazione, il 12 agosto 2015 il renminbi è stato
svalutato (un gesto salutato positivamente dal Fmi, considerato il primo passo
per far entrare questa valuta nel novero dei diritti speciali di prelievo) e,
per contenere questa svalutazione, gli stessi cinesi hanno venduto qualcosa
come cento miliardi di buoni del tesoro americani. Ecco la piuma dell’uccello,
ecco l’indizio.
Il
flusso di risparmio dal Giappone e dalla Germania verso gli US negli anni
Settanta, a cui è subentrata la Cina, ha permesso agli Stati Uniti di
sviluppare forme di post-industrializzazione attraverso la finanziarizzazione
e, allo stesso tempo, ha reso possibile a questi paesi di concentrarsi sulla
crescita economica e una produzione orientata all’esportazione.
L’inversione
di questi flussi di risparmio di capitale indica la fine dell’impero fondato
sul rapporto fra i paesi occidentali, gli Stati Uniti ma non solo, e la Cina,
le cui enormi riserve stanno oggi calando a vista d’occhio per difendere lo
propria valuta attraverso la vendita di buoni del tesoro Usa. Mi sembra un
segnale importante. Probabilmente prima o poi questo costringerà gli americani
ad alzare i tassi di interesse per frenare l’eventuale disinvestimento
progressivo dal debito pubblico americano.
Un
altro indizio che mi sembra importante rilevare sono i tassi di interesse. Da
oltre un anno la Fed annuncia l’imminente uscita da tassi prossimi allo zero,
avviando di fatto un ciclo di tassi in crescita a livello mondiale dopo quasi
sei anni. In questa situazione caratterizzata da forte incertezza i paesi
emergenti, che inevitabilmente subiranno contraccolpi fortissimi dovuti dalla
fuga di capitale, hanno chiesto chiarezza e maggior decisione per uscire da una
situazione che li sta dilaniando. Dal 2003, la politica monetaria americana ha
subito una svolta linguistica teorizzata, per la prima volta, dall’attuale
presidentessa Janet Yellen, secondo cui le parole andrebbero messe
nell’armamentario della politica monetaria della Fed. Troviamo qua il
performativo e gli atti linguistici dove dire una cosa significa creare qualcosa.
La parola in sé, la dimensione linguistica del denaro non si fonda più sul
linguaggio come trasmissione di dati su cui prendere decisioni per aumentare o
diminuire i tassi di interesse. La Fed sta usando le parole per modificare il
quadro dentro il quale far muovere i mercati e l’economia. Quindi l’incertezza,
questo dire continuamente che si aumenteranno i tassi di interesse quando
alcuni parametri raggiungeranno una certa soglia (il tasso di disoccupazione –
che è fortemente diminuito anche per l’espulsione di un gran numero di
lavoratori dal mercato del lavoro, e i dati sull’inflazione – che non è
aumentata) descrive una sorta di trappola linguistica. Un aumento, quello del
tasso di interesse, che ha come solo e unico scopo quello di poter creare un
margine di manovra in vista della prossima recessione abbassandolo nuovamente.
Questo
indizio conferma la tesi della stagnazione secolare e la longevità di questa
crisi. È in questo quadro che dobbiamo ragionare compiutamente, dove le
politiche monetarie come il Quantitative easing americano
prima, quello giapponese poi – che ha iniettato una liquidità pari a due volte
quello americano – , e infine quello europeo hanno dimostrato la loro
inefficacia. Il Financial Times ha affermato che queste
politiche non hanno rilanciato una crescita ma solo alimentato i mercati
finanziari e le borse, come abbiamo visto nel corso del 2014.
In
questa stagnazione sistemica vi è un attacco al salario come istituto dei
rapporti sociali: la desalarizzazione è la distruzione del concetto stesso di
capitale come rapporto sociale. Vi è, in un certo senso, una sorta di vendetta
della classe operaia fordista che sembra affermare: “Voi ci avete distrutto e
noi vi abbiamo messo in questa situazione”, una situazione difficilissima da
governare per il capitale che è, marxianamente, un rapporto sociale.
Polverizzare, distruggere, umiliare questo rapporto comporta un prezzo
altissimo: questa crisi.
Senza
entrare troppo in quella trappola fuorviante che è il dibattito euro si/euro
no, quello che mi sembra importante sottolineare è come in questi anni di
costruzione, espansione affermazione dell’impero siano cresciute, al suo
interno, forme inevitabili di neocolonialismo. Guardiamo come, in forma
assolutamente tragicomica, la Germania si è accaparrata con la sua politica ben
14 aeroporti ellenici. Più neocolonialismo di così!
In
questo contesto dove si crea miseria per poi privatizzare, è forse il caso di
rivisitare le teorie di Rosa Luxemburg sulla natura colonialistica del capitale
secondo cui il circuito economico si basa sulla contraddizione tra produzione
di plusvalore e sua realizzazione. Storicamente tale contraddizione ha
conosciuto tre forme di regolazione: l’imperialismo, ovvero uno sbocco esterno,
lo stato sociale o una domanda effettiva interna come negli anni Trenta
attraverso il welfare, e la finanziarizzazione attraverso il deficit
spending privato con l’indebitamento delle famiglie e delle imprese.
Sono le tre modalità con le quali il capitale, su scala mondiale, ha gestito la
creazione di domanda aggiuntiva per realizzare il plusvalore. In questa natura
intrinsecamente squilibrata e opposta alle teorie dell’equilibrio generale, il
plusvalore non si può realizzare sulla base dei soli salari distribuiti. Marx
scriveva nei Grundrisse come la creazione di domanda
aggiuntiva, questo denaro creato in più dovesse funzionare da capitale, da
“polizza sul lavoro futuro”, questa la sua espressione. Il denaro creato ex
nihilo attraverso l’indebitamento pubblico e iniettato sotto forma di
grandi opere, di welfare, di prestazioni sociali o del credito ai paesi poveri
deve in un qualche modo agire da capitale nella trasformazione dell’umano in
domanda per merci capitalistiche.
Il
ciclo economico così interpretato si basa sul duplice processo di destrutturazione
senza ristrutturazione. In altre parole si distrugge l’economia locale, il
“beneficiario” dei crediti e si impedisce alle economie locali o naturali, come
si diceva un tempo, di trovare una propria autonomia. Oggi si è destrutturato
attraverso le politiche dell’austerità che impediscono ai paesi coinvolti di
trovare ambiti di autodeterminazione. Come le lotte di liberazione nazionale
hanno fatto saltare l’imperialismo, per uscire dalla tenaglia del plusvalore e
della sua realizzazione oggi dobbiamo immaginarci una lotta di
liberazione europea dentro e contro l’Europa. Di cosa stiamo parlando
infatti quando parliamo di uscita dall’euro? Se questa ipotesi si giustifica
dal punto di vista economico con un rilancio delle esportazioni tramite svalutazione,
allora mi sembra un po’ poco. D’altra parte anche Varufakis – che secondo me
parla un po’ troppo – , ha sostenuto un’uscita della Grecia non tanto perché
scelta dal popolo greco, ma perché lo stesso Wolfgang Schaeuble vi aveva
puntato. Sebbene non abbia problemi a ribadire che è dentro il contesto europeo
che si deve giocare, quello che mi inquieta è il tasso di odio di coloro che
vogliono uscire in qualche modo da questa gabbia che è l’euro e che, magari
ignari, stanno facendo proprio il gioco di Schaeuble puntando sull’euro del
Nord, il N/euro. Dobbiamo, in qualche modo volenti o nolenti, interloquire con
queste posizioni. Lo stesso dibattito sulle monete locali, su cui non
necessariamente bisogna essere d’accordo, va rispettato perché esprime una
volontà di liberazione. Dobbiamo interpretare l’odio perché senza questo non vi
è nemmeno passione e amore.
Di
cosa parliamo quando parliamo di politica monetaria del comune, o alternativa?
Oltre la necessità di una ristrutturazione del debito voluta anche dal Fmi (se
riusciranno a mettersi d’accordo su questo le istituzioni della Troika è
un’altra storia) che rilancerebbe un terreno che possiamo chiamare
riformistico, dobbiamo esplorare l’idea di un Quantitative easing for
the people, per la moltitudine. Questa creazione di liquidità da parte
delle banche centrali, in particolare di quella europea, passa attraverso la
mediazione bancaria. Dobbiamo fare in modo che questa politica non
convenzionale riesca a incidere sul reale come creazione, emissione e integrazione
diretta della liquidità nelle tasche dei cittadini europei e come investimenti
decisi in ambito locale. Il populismo non è da sottovalutare: si impianta su
disagi reali e ve lo dice uno che abita in una paese che sembra l’eldorado
della borghesia ma che è attraversato da problemi di libera circolazione, di
libero scambio ecc. che hanno spostato a destra l’asse politico. Lavoriamo a
livello europeo sull’idea della disintermediazione del quantitative
easing per interpretare, in positivo, il tasso di odio cavalcato dalle
destre e dalla lega. Mettiamo al centro la moltitudine europea a maggior
ragione, oggi, dove gli effetti dell’accoglienza saranno un ulteriore taglio
delle prestazioni sociali per mettere i residenti contro i nuovi ospiti.
Proviamoci!
Trascrizione
a cura di Paolo Do dell’intervento di Christian Marazzi, tenuto l’11 settembre presso
le Officine Zero di Roma