-Sergio Riggio-
Le nuove macchine sociali del capitalismo estrattivo
Le nuove macchine estrattive
Affrontare
il tema del lavoro in un periodo come questo in cui a grandi trasformazioni
nella struttura produttiva non si accompagnano livelli di conflittualità
sociale e di comunicazione adeguati che le rendano trasparenti e loquaci, può
apparire presuntuoso o dilettantesco, in quanto sembra che gli unici detentori
del verbo, almeno nel mainstream, siano
professoroni spesso al soldo di quei club che hanno tutto l’interesse a
mantenere criptico il linguaggio del capitale.
Decodificare
questo linguaggio, riappropriarci della capacità di costruirne nuovi e critici a partire dall’approfondimento di alcuni temi
chiave dello scontro sociale oggi in atto,riavviare una comunicazione
antagonista volta al sabotaggio della Babele determinata dalla moltiplicazione
di messaggi svuotati dalla relazione tra significante e significati, è il
tentativo che ci proponiamo.
Analizzare
il lavoro oggi, comprenderne le trasformazioni, capire attraverso quali
meccanismi si genera l’estrazione del plusvalore e come le nuovissime tecnologie
intervengano modificando tempi e modi della produzione ma anche composizioni
sociali e comportamenti è uno dei compiti sui quali ci piacerebbe aprire un
confronto con tutti i soggetti che in questo territorio hanno cercato di
mantenere aperta una prospettiva anticapitalista.
Cercherò
di muovermi dentro uno spazio analitico determinato da due ,secondo me
importantissimi, elementi di riflessione presenti nell’opera del caro vecchio
Marx : la caduta tendenziale del saggio di profitto e la contraddizione tra sviluppo
delle forze produttive e rapporti di produzione. Questo non come atto
reverenziale nei confronti dell’ortodossia bensì per sottolinearne l’utilità
come borsa per gli attrezzi anche in questa fase in cui tempo di lavoro e tempo
libero si mescolano e vengono entrambi finalizzati all’estrazione selvaggia di
plusvalore.
L’uso
di tecnologie sempre più avanzate non è certo una novità ma sino al secolo
scorso esse si presentavano come elementi di progresso finalizzati ad un
aumento lineare della produzione e alla parziale diminuzione della fatica
fisica. Al pericolo di un crollo del numero degli occupati ed un aumento dei
livelli di sfruttamento veniva opposto il mito della modernità e della
professionalità, e quello di un mondo fantastico in cui tutti i disoccupati si
trasformavano in imprenditori di sé stessi. Iniziava, alla fine del novecento,
una vera e propria controrivoluzione nel linguaggio: i lavoratori diventavano
risorse umane, i licenziati esuberi, i disoccupati capitale umano. Si gettavano
i presupposti,questi si ideologici, per l’acquisizione dei nostri corpi e delle
nostre intelligenze come lavoro morto.
L’emergere,
negli anni novanta, di un capitalismo digitale, pur mantenendo le
caratteristiche sistemiche di estrattore di plusvalore e pluslavoro, presentava
anche alcune significative differenze rispetto le precedenti fasi: la
frammentazione del processo produttivo e la sua dispersione geografica ma con
un coordinamento molto più funzionale reso possibile dalle nuove tecnologie
della comunicazione. Negli atelier della produzione queste ultime diventavano
vere e proprie tecnologie
dell’organizzazione che segnavano una ricostruzione della prestazione
lavorativa nella quale il lavoro manuale non poteva essere separato da una
continua riflessione attorno all’organizzazione produttiva per innovarla
gestendone incongruenze e difformità. Da questo punto di vista la tradizionale
distinzione tipica della grande fabbrica fordista tra progettazione ed
esecuzione veniva ripensata attraverso una cessione ai lavoratori di momenti
progettuali dell’organizzazione del lavoro. Una relativa autonomia dunque nella
decisione dei ritmi e delle forme adatte alle sincronizzazioni tra nodi diversi
del processo produttivo. La rete diventa quindi un modello nel quale le
possibili disfunzioni di un nodo possono essere superati dalla capacità
progettuale della cooperazione produttiva.
Una
rilettura del Capitale e dei Grundrisse ci confermerà che il focus non viene posto sul sistema delle
macchine ma sugli elementi della natura umana coinvolti nella produzione: la
facoltà di linguaggio, la capacità di produrre innovazione, la conoscenza
trasformata in potenza produttiva, la socialità. Oggi sentimenti, capacità
relazionali, linguaggi sono tutti elementi indispensabili al buon funzionamento
degli ateliers della produzione.
Nel
celebre “Frammento sulle macchine” Marx vede le macchine come espropriazione da
parte del capitale della conoscenza tecnico scientifica e come reificazione,
sostituiscono lavoro vivo. Da qui la figura dell’operaio come appendice delle
macchine. Nel capitalismo contemporaneo le macchine continuano il vecchio
compito ma centrale diviene la capacità del lavoro vivo nel produrre soluzioni
a un processo sempre più complesso. Centrale diventa quindi la cooperazione
sociale che lo gestisce non solo perché i computer e i sistemi di innovazione
vanno controllati, ma perché è il processo stesso che abbisogna di continua innovazione
vista la dispersione geografica della produzione. Per questo il linguaggio, la conoscenza generica, la stessa
dimensione sociale sono elementi che diventano direttamente produttivi. Pensiamo
ad esempio alla stampante 3D, a come essa superi la tradizionale differenziazione
tra lavoro manuale parcellizzato di molti e lavoro progettuale di uno che reifica
la sua conoscenza tecnica. Qui , in realtà, si inverte e si supera questo
rapporto, in quanto operatore e progettista del prodotto sono la stessa persona
che si rapporta alla macchina attraverso un linguaggio, il software, che è un
portato di tanti; e la macchina , a sua volta, dialoga con lui rielaborando
quel linguaggio e altri milioni di dati che reperisce nella rete.
Lungi
dal superare alienazione, sfruttamento, fatica fisica e stress questa fase si
presenta, quindi, come una discontinuità nel processo di accumulazione. Pertanto,
il sistema delle imprese, le prestazioni lavorative, le forme di governo della
società devono essere adeguate. Il capitalismo postfordista o cognitivo, non è
la terra promessa dell’abbondanza e della libertà, ma un rapporto sociale dove
pluslavoro e plusvalore non riguardano solo la produzione in senso stretto, ma
l’intero ciclo produzione\circolazione\distribuzione che la critica dell’economia
politica aveva trattato come parti distinte della valorizzazione.
Capitalismo
delle piattaforme è una espressione sintetica usata per definire modelli
produttivi dentro la rete (Amazon, Netflix, Fb, Google, etc.) ma anche per
segnalare tutti quei servizi di intermediazione tra offerta e domanda di beni e
servizi come Uber, Airbnbe tanti altri.
L’economia
della condivisione (sharing economy) è
da considerare come la manifestazione
più potente della messa al lavoro della conoscenza, degli affetti e delle
relazioni sociali, il ruolo determinante delle macchine nell’automatizzare le
funzioni lavorative che possono essere serializzati in algoritmi informatici fa
sempre riferimento alla dimensione collettiva del sapere e delle relazioni
sociali. Si condivide cioè la capacità di sviluppare cooperazione sociale. La sharing economy cattura questa
attitudine a cooperare ,estraendone contenuti da trasformare in attività
economica. Da questo punto di vista l’innovazione non sta solo nello sviluppo
di applicazioni quanto nel definire progetti attinenti allo “stare in società”.
Le App infatti sono sviluppate da
piccoli gruppi di informatici alla ricerca del “colpaccio”che li farà
arricchire, ed è per questo motivo che nella sharing economy le imprese che fanno profitti devono operare, sostanzialmente,
in regime di monopolio, legittimato mediante l’istituto giuridico della “proprietà
intellettuale”, determinando la capacità politica ed economica di imporre
relazioni fortemente individualizzate nel rapporto di “lavoro”: questo è il
caso di uno dei miti del modernismo semantico e produttivo, le famose start up.
Le
start up sono progetti operativi di
gruppi di creativi ai quali si affiancano i cosiddetti “incubatori”, aziende
che si occupano di fornire consulenza, tecnologie, reti per sviluppare il
progetto il quale necessita comunque di supporto finanziario e di indagini e
sbocchi di mercato: quì intervengono gli “acceleratori”. Si tratta di istituti
finanziari o società di brokering che si occuperanno
inoltre della “condivisione”. Qui l’involuzione lessicale arriva alla discrasia
assoluta tra “significante” e “significato”. La condivisione è il
posizionamento della start up
all’interno di un sistema di altre imprese che ne completano il prodotto e lo
distribuiscono garantendo profitti per gli investitori, cioè gli acceleratori:
semplice appropriazione privata di intelligenza collettiva.
Dentro
e contro queste linee si è andata sviluppando negli ultimi anni una corrente di
pensiero critica e una azione militante
di micro-organizzazioni antagoniste -definite platform cooperativism- che
oppone pratiche sociali altre, rispetto alla sharing economy e al capitalismo dominante, costruendo spazi
materiali e virtuali di resistenza e favorendo la crescita di un mondo
parallelo che muove dagli interstizi del capitale nel tentativo di emergere dalla
dimensione marginale e diventare - per riproduzione e imitazione -
un’alternativa sociale generale. Nulla però viene detto dei possibili punti di
contatto tra questo mondo e la tendenza del capitalismo a ricondurre
l’autogestione e il mutualismo all’interno dei rapporti sociali dominanti. Il Platform cooperativism è una esperienza commisurata alla crescita
della precarietà e alla privatizzazione del welfare, ma non può essere
disgiunto dal conflitto del lavoro contro il modello di accumulazione capitalista.
“Il capitalismo contemporaneo ha dunque la
capacità di coniugare l’intelligenza artificiale con riedizioni inedite di
lavoro servile, una comunicazione senza vincoli con forme estremamente
sofisticate e violente di controllo sociale. Ma ha anche la propensione a fare del desiderio e del superamento dei
vincoli del bisogno un potente motore di estrazione del plusvalore che
coinvolge l’intera vita associata, dall’accesso alla conoscenza alla cura del
proprio corpo, dalle relazioni sociali di prossimità al desiderio di maternità
e paternità.”(B.
Vecchi, Il capitalismo delle piattaforme, Manifestolibri). Il capitalismo delle piattaforme, quindi,
riserverà sorprese, linee di sviluppo imprevedibili, quel che è certo è che
tutto ruoterà attorno alla cattura dell’innovazione e al controllo del lavoro
vivo, ma per quanto riguarda i diritti la tendenza continuerà ad essere la
deregolamentazione, la precarietà continuerà cioè ad essere la regola dominante
nei rapporti di lavoro. Certo è che nell’ordine del discorso mainstream si sono imposte espressioni
come crisi della società salariale volte ad indicare non certo il superamento
di una condizione di subalternità quanto la cancellazione o la pesante modifica delle norme che ,in
termini di compromessi variabili nel tempo, hanno regolato il conflitto tra
capitale e lavoro. La realtà ci riserva però un paradosso e cioè quanto più si
diffondevano in occidente queste forme atipiche, comprese forme di lavoro
autonomo o parasubordinato, tanto più il regime canonico del lavoro salariato
si diffondeva in ogni parte del pianeta. Questo non significa che la società
salariale non sia in crisi bensì che la gestione della
sua crisi è diventato il tratto distintivo del neoliberismo dopo la crisi fine 2007.
Senza
alcuna nostalgia per il passato novecentesco va quindi ricostruita una prassi
teorica che individui le fragilità e i punti di rottura di questo ordine
politico sociale ed economico a partire dalla conoscenza approfondita degli
atelier della produzione.
I bacini della forza
lavoro
In
questo movimento il concetto di bacino della forza lavoro svolge un ruolo
importante per capire cosa sia accaduto nella produzione di merci così come
importante è capire che il ruolo della finanza è profondamente cambiato: non
più parassitario ma leva per garantire una governance del processo di
valorizzazione che trova nel general
intellect i suoi momenti fondanti.
Vanno ripensate le distinzioni tra lavoro
manuale e lavoro intellettuale e tra lavoro cognitivo ed operaio. Perché se
nelle fabbriche la componente cognitiva assume una rilevanza ineditarispetto
all’organizzazione tayloristica della produzione, nella logistica ,vendita e
tra i white collars standardizzazione e ripetitività sono la norma, ma in tutti
i casi il lavoro nella sua dimensione sociale deve diventare fonte di
innovazione tanto del processo produttivo che dei prodotti. Alla Google l’80%
del tempo di lavoro è eterodiretto mentre il 20% viene pagato per lasciare che
i dipendenti si dedichino a progetti autonomi personali. Ciò attesta il fatto
che è la forza lavoro la fonte dell’innovazione. Certo è ancora essenziale che
le università svolgano ricerca pagata dallo stato, ma qualora questo non
bastasse possono sempre intervenire i venture
capitals che attraverso start up e cacciatori di tendenza possono attingere
al variegato mondo degli sviluppatori di “Apps” sempre sul crinale tra
precarietà e disoccupazione.
All’interno
dei bacini di forza lavoro la composizione tecnica (multietnica e globalizzata) è cangiante e
mutevole, dai superspecializzati ai facchini, dagli operai del data entry agli operai old style da destinare alle catene di
montaggio. Mutevoli sono anche quantitativamente, in quanto soggetti alla flessibilità della
domanda, una dinamica che riduce oltre il salario pure i diritti. In altri termini, sono "variabili dipendenti" delle worldfactory disseminate
là dove l’approvvigionamento delle materie prime, la logistica, e il costo del
lavoro sono più convenienti.
Amazon
è sicuramente il caso più eclatante di bacino di forza lavoro, vende di tutto e
produce anche software, dispositivi per libri elettronici; ha decine di
migliaia di operai nei suoi magazzini sparsi per il mondo e una fascia di
alcune migliaia addetti all’aggiornamento e all’elaborazione dei database per
personalizzare la segnalazione dei prodotti agli utenti. Inoltre offre
recensioni dei suoi prodotti scritte da altri utenti limitando i costi della
pubblicità. Chi lavora nei magazzini, in azione H24, resiste pochi anni a questi
ritmi e ad una configurazione della settimana e dell’orario basati
esclusivamente sulle necessità dell’impresa. Preavvisi di poche ore per la
variazione dei turni, monitoraggio continuo della prestazione tramite
registrazione digitale delle operazioni compiute, un servizio di vigilanza
oppressivo fanno di Amazon un caso di società del controllo in miniatura. Nei
magazzini non viene chiesta fedeltà ma solo una muta esecuzione degli ordini
che arrivano sotto forma di una serie di bit elaborati da un device che il
lavoratore deve avere sempre a portata di mano.
Lavoratori
della conoscenza qualificati, consumatori trasformati in produttori di dati e
pubblicità, operai controllati continuamente e facchini quasi privi di diritti,
questo il bacino della logistica che vede retribuzioni in costante diminuzione
e orari di lavoro allungati a dismisura in quanto calibrati sulla velocità di
consegna del maggior numero di pacchi.
Amazon
non è certo l’unico caso per ciò che riguarda i bacini di forza lavoro ma ci
serve per segnalare che quando si parla di lavoro occorre farlo in generale.
Non c’è, in questa fase, un settore o una componente centrale del lavoro vivo
attorno al quale costruire una critica pratica contro il regime del lavoro
salariato, emerge semmai la frammentarietà e la molteplicità anche se la
conoscenza, la capacità di sviluppare cooperazione sociale sono parte
integrante anzi fondamentale del processo lavorativo. Sia il progettista di
software che il magazziniere Amazon, l’analista di big data o l’operaio alla
catena di montaggio devono usare la loro intelligenza, il proprio vissuto come
mezzo del lavoro “Se non fosse irriverente, si potrebbe dire che il cervello,
la mente, sono da considerare come parte del capitale fisso invece di quello
variabile, sempre per usare un lessico marxiano”(B. Vecchi op.cit.).
A
sottolinearne la frammentarietà, il lavoro salariato viene riproposto in
presenza di miriadi di forme contrattuali e prestazioni lavorative confermando
che se non tutto il lavoro è diventato direttamente produttivo esso rimane
comunque il perno del processo di valorizzazione capitalistica.
Come era evidente (a chi non fosse abbagliato dall’ideologia neo-liberale) in Italia la possibilità di ricorrere a contratti di lavoro temporanei e di accedere alle risorse per la decontribuzione degli straordinari e dei premi di produttività ha consentito alle imprese di utilizzare la leva salariale e, quindi, il tempo di lavoro come base di accrescimento dei profitti. È venuto a mancare lo stimolo agli investimenti privati, alla crescita qualitativa del tessuto industriale del paese. In questa luce va analizzato il rapporto tra innovazione tecnologia e riduzione dell’orario di lavoro. Bisogna sgomberare il campo da letture semplicistiche che vedono nel progresso tecnologico la strada obbligata automaticamente per la riduzione dell’orario di lavoro. La tecnologia non è mai un campo neutro, ma un terreno di lotta politica e sociale. Viviamo nel tempo in cui le vette del progresso tecnico convivono con i punti più bassi delle condizioni di lavoro. Le grandi piattaforme digitali si nutrono di una forza lavoro priva di diritti sindacali e di livelli salariali minimi, utilizzando tutti gli strumenti a disposizione per intensificare i ritmi di lavoro.
La tecnologia diventa, in
questa fase storica, uno strumento in mano ai grandi monopoli del mercato
mondiale per ristrutturare costantemente la produttività del lavoro sociale e controllare
i tempi materiali di produzione. Un processo che si sviluppa in uno scenario dominato
dallo squilibrio dei rapporti di potere tra chi dipende dal salario e chi
dipende dal profitto. In un contesto in cui i salari sono stagnati e la
competizione sul costo del lavoro diventa via via decisiva per incrementare i
margini di produttività, le imprese utilizzano il progresso tecnico come leva
per estrarre valore dai salari verso i profitti. Per modificare questa tendenza
occorre ristabilire un nuovo ritmo al rapporto tra salari e produttività.
Diversamente dal mantra liberista che vede i salari come variabile dipendente
dai livelli di produttività, occorre ripartire da un rapporto inverso, in cui
solo alti salari sono capaci di stimolare alti livelli di produttività che
potranno essere redistribuiti sotto forma di riduzione dell’orario di lavoro.
La possibilità che l’impiego delle nuove tecnologie possa liberare tempo di
lavoro e tempo di vita passa inevitabilmente da una lotta dentro
l’organizzazione del lavoro e nel governo dell’economia. Si tratta, quindi, di
avviare una strategia di lotta nel basso e nell’alto, nel processo di lavoro e
nel controllo democratico delle politiche economiche. Da una parte, quindi, una
lotta per il salario come motore di una spinta agli investimenti in capitale
fisso e dall’altra una pianificazione democratica delle politiche economiche,
capace di coordinare lo sviluppo tecnico in direzione dei bisogni della
maggioranza della società.
Il
nodo da sciogliere resta quindi come avviare meccanismi di autorganizzazione
del lavoro che rompano l’egemonia culturale e politica che il capitale ha
conquistato su ampi settori del lavoro vivo.
Nella crisi, la materialità dei rapporti di forza fa saltare letteralmente le retoriche che ne hanno occultato la portata dirompente. Il lavoro si è articolato sino a oggi quindi in due grandi segmenti: il popolo dell’Abisso, l’Inferno del lavoro precario, povero, al nero e della gig economy; il lavoro “stabile e garantito”, inglobato e sussunto nel blocco regressivo azienda-territorio, quello della partecipazione in via gerarchica, dell’autoattivazione dei lavoratori, della fabbrica-comunità (dove è escluso il conflitto e la rappresentanza autonoma del lavoro), dove vige il principio di collaborazione, di fedeltà, di condivisione dei valori dell’impresa e del mercato. Come riunificare il popolo dell’Abisso con i lavoratori e le lavoratrici occupati dentro il primo cerchio delle aziende, quello del contratto a tempo indeterminato, dei benefits e del welfare aziendali? Come riunificare socialmente, sindacalmente e politicamente chi vive immerso nel neo taylorismo digitale e chi vive avvinto nel pervasivo toyotismo? È questa la maggiore sfida politica, antropologica e valoriale che una Sinistra di trasformazione radicale ha di fronte a sé. Una realtà già complessa e diversificata che dovrà misurarsi con gli ulteriori scenari aperti dall’impatto della pandemia. È opinione diffusa che la pandemia da coronavirus avrà ripercussioni significative sugli scenari economici mondiali. Accelererà tendenze già in atto come l’accorciamento delle filiere produttive mondiali, metterà in profonda discussione il settore del consumo cultural-turistico come volano dell’accumulazione capitalistica, rimetterà al centro il ruolo dello Stato come prestatore e datore di lavoro di ultima istanza. Interverrà sulle stesse modalità di organizzazione del lavoro. Fra le tante e a volte inedite questioni che l’emergenza Covid19 sta ponendo ai lavoratori vi è il problema del lavoro a distanza. Lo smartworking consentirebbe di conciliare più facilmente lavoro e vita privata, e di conseguenza anche un aumento della produttività. Se un orizzonte più o meno imminente di “governance” della forza-lavoro vertesse sulla valutazione dei risultati al di là e oltre il tempo di lavoro, si aprirebbero scenari assai inquietanti, che metterebbero in forte discussione tanto la “misura” del lavoro, quanto la tenuta della tradizionale divisione tra tempo di lavoro e tempo di vita (già compromessa o di fatto resa più fluida in molte professioni). Smart working, invece di lavoro agile e intelligente, potrebbe infatti tradursi, come accaduto per la DaD nella scuola del lockdown, come lavoro senza fine privato tralaltro dello spazio fisico della socialità . Siamo probabilmente vicini a un cambio di paradigma, a cui occorre attrezzarsi, dal punto di vista sindacale e politico, aggiornando parole d’ordine – come la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, i minimi salariali, il reddito – e strumenti. La discussione e confronto col Governo sulle misure di contenimento rispetto alla diffusione del coronavirus hanno disvelato la fondamentale importanza del lavoro manuale di fabbrica nella produzione della ricchezza. Il velo della propaganda sulla scomparsa della classe operaia derivante dalla robotizzazione e digitalizzazione dell’economia crolla a fronte delle stesse affermazioni di Confindustria. Tutto questo al netto del lavoro a distanza e del decentramento produttivo delle catene del valore e della stessa logistica intesa come segmento stesso del ciclo produttivo. In realtà già sapevamo che il lavoro operaio (e il lavoro manuale non operaio) non era affatto scomparso quantitativamente neppure nelle economie post-fordiste, ma adesso abbiamo la prova di quanto esso sia centrale e insostituibile nella creazione di valore. Al fondo del modello di produzione e riproduzione sociale capitalistico c’è sempre il lavoro vivo. Occorre ripartire da una nuova rappresentazione politica del Lavoro, dei suoi bisogni e interessi, dalla sua dimensione operaia di fabbrica e artigiana, passando dal lavoro manuale non operaio, da quello della conoscenza, allargando il perimetro alle forme di lavoro giuridicamente autonomo ma economicamente dipendente: un blocco sociale che stia in campo non solo sindacalmente ma anche politicamente, a garanzia del valore fondante che al lavoro deve riconoscere qualunque progetto o idea di società futura.