di Sandra Moatti -
Sullo sfondo dell’intervista a
Harribey e Vercellone1 (pubblicata da L’Economie politique*)
riaffiora il pensiero di Andrè Gorz che, con il suo “Addio al proletariato” –prima-
e “La strada del paradiso”- dopo-, è stato fra i primi ad aver posto il tema sul reddito
garantito universale come chiave di accesso alla distribuzione della ricchezza non
più mediata dalla forma salario, in uno con la riduzione generalizzata dell’orario
di lavoro della produzione necessaria che nella società-duale si dà nella “sfera
eteronoma”, liberando così il tempo dell’auto-produzione che la cooperazione
sociale -diremo noi- può espandere nella “sfera autonoma” .
La
creazione di un reddito di base è una
buona risposta di fronte alle mutazioni del capitalismo contemporaneo?
Carlo
Vercellone: La
crisi sistemica, ad un tempo economica, finanziaria, sociale e ecologica che
attraversa il capitalismo contemporaneo ci impone di pensare non soltanto delle
alternative sul piano delle politiche di breve periodo, ma anche delle riforme
strutturali suscettibili di porre le basi per un modello alternativo di
società. Per rispondere all’esaurimento della società salariale, fondata su
quello che Gorz chiamava il lavoro-impiego (per distinguerlo chiaramente dal
lavoro nel senso antropologico del termine), la proposta di un reddito o di un
salario sociale garantito, incondizionato e indipendente dall’impiego, potrebbe
avere un ruolo importante – a condizione di precisare con cura i suoi
fondamenti e il progetto di società nel quale si inscrive.
Il
“reddito minimo”, che il reddito sociale garantito (RSG) potrebbe
rappresentare, favorirebbe il passaggio da un modello di precarietà subito ad
un modello di mobilità scelta, oltre che la liberazione delle forze vive di
un’economia fondata sulla conoscenza.
Il
RSG corrisponderebbe ad una forma di riduzione flessibile del tempo di lavoro
estesa su tutta la vita. Presenta, rispetto alla riduzione del tempo di lavoro
classica, un vantaggio supplementare: quello di rinforzare i poteri di
negoziazione della forza lavoro. In effetti, il RSG modificherebbe il rapporto
di forze all’interno delle imprese. I datori di lavoro ridurrebbero il ricorso
al lavoro precario per trattenere dei salariati che dispongono in ogni caso di
un’alternativa. In particolare, si produrrebbe una penuria di mano d’opera
nell’economia dei servizi industrializzati (alla Mc Donald’s) che consumano
oggi una grande quantità di lavoro precario. Ne risulterebbe, anche in questi
settori, una dinamica che favorisce l’uscita dal taylorismo.
Il
RSG favorirebbe ugualmente il potere di negoziazione per altre categorie
d’impiego non salariate che si vanno sempre più sviluppando. Così, ad esempio,
gli autoentrepreneurs, o quelli che in Italia vengono chiamati
“lavoratori autonomi di seconda generazione”2,
per i quali l’uscita dalla forma-salario sovente non è che formale, potrebbero
beneficiare di margini di manovra più ampi nel rapporto di subappalto e nelle
relazioni contrattuali. In effetti un RSG permetterebbe loro di ridurre il
tempo di lavoro senza subire un taglio del reddito.
Inoltre,
l’associazione tra la garanzia permanente del reddito e la riduzione del tempo
di lavoro, permessa dal RSG, favorirebbe un trasferimento di mano d’opera dai
settori orientati alla logica di redditività mercantile, verso i settori non
mercantili dell’economia sociale e solidale, e dei commons nella
conoscenza.
Il
RSG avrebbe infine due effetti estremamente favorevoli per lo sviluppo di
un’economia fondata sul sapere. Da una parte permetterebbe d’attenuare una
delle debolezze principali che ha impedito lo sviluppo e l’autonomia del
movimento del software libero: e cioè la mancanza di risorse, finanziarie e di
tempo, sufficienti per permettere un coinvolgimento più completo dei commoners nel
loro sviluppo.
D’altra
parte, probabilmente, il RSG favorirebbe un incremento importante del numero di
studenti e della formazione continua della forza lavoro. Consentirebbe inoltre
ai singoli di scegliere più liberamente il loro corso di studi, evitando
l’ingiunzione a scegliere dei percorsi di formazione spesso iper-specializzati
in funzione dei bisogni a breve termine del mercato del lavoro. Ciò che, in
ultima istanza, indebolisce la possibilità d’impiego degli individui: nella
misura in cui dei saperi troppo specializzati rischiano di diventare
rapidamente obsoleti e bloccano la possibilità di passare da un campo di sapere
ad un altro. Insomma il RSG, per riprendere un’espressione di Gorz, favorirebbe
lo sviluppo di una società dell’intelligenza.
Ovviamente
il RSG non è il solo strumento che permette una tale transizione: deve essere
articolato a un insieme di riforme strutturali che vanno dallo sviluppo dei
servizi collettivi del welfare a una riforma radicale del
sistema dei diritti della proprietà intellettuale.
Infine,
assicurando una più ampia messa in sicurezza del passaggio tra diverse forme di
lavoro e di attività, che caratterizzano sempre di più le traiettorie
individuali, il RSG permetterebbe di sostituire senza nostalgia il modello
fordista del lavoro stabile, a tempo pieno per tutta la vita, con un modello
che si potrebbe definire di piena attività e di emancipazione dal lavoro
salariato.
Jean-Marie
Harribey: bisogna
sottolineare che esistono diversi modi di proporre un reddito di base
incondizionato, che si riflettono nell’estrema varietà delle definizioni:
reddito sociale garantito, reddito di esistenza, allocazione universale,
salario a vita, o, dall’altro lato della scacchiera politica, l’imposta
negativa proposta da Milton Friedman. Una volta accettato il punto di vista
normativo, che non permette alcuna discussione, secondo il quale nessuno deve
essere escluso dalla società e tutti devono avere mezzi decenti per vivere,
restano due grandi questioni poste, a mio avviso, dall’insieme delle ipotesi
sul reddito garantito. La prima riguarda lo statuto del lavoro nella società.
La seconda concerne la convalida sociale delle attività.
La
prima questione, quella dello statuto del lavoro, può essere considerata da due
punti di vista. Dal punto di vista filosofico, è una vecchia questione che
divide i filosofi tra di loro: dobbiamo pensare che il lavoro sia l’essenza
dell’uomo, un fattore di integrazione, di riconoscimento sociale e di
realizzazione dell’essere umano, oppure che sia semplicemente alienante? Tra
Hegel e Hannah Arendt, il dilemma sembra insormontabile. Numerosi teorici del
reddito d’esistenza propendono per la seconda ipotesi e negano al lavoro il suo
valore di integrazione sociale. Da qui deriva l’adesione alle tesi della fine
del lavoro e il loro rifiuto di considerare il pieno-impiego come un obiettivo.
Da qui, anche, durante un lungo periodo, è provenuta la loro opposizione alla riduzione
del tempo di lavoro.
D’altro
canto, il ruolo del lavoro è stato sconvolto dalle trasformazioni del
capitalismo. Presso alcuni, tali trasformazioni hanno generato l’illusione
secondo la quale esisterebbe una fonte miracolosa della ricchezza, al di fuori
del lavoro. Molti sono stati vittima di ciò che chiamerei il miraggio della
finanziarizzazione. L’intensificazione della circolazione dei capitali ha
potuto far credere che i mercati finanziari erano diventati il luogo in cui si
crea la ricchezza. O ancora, alcuni hanno ipotizzato che il reddito d’esistenza
possa essere come una rendita prelevata sulla massa di ricchezza accumulata
dall’umanità. Nel disprezzo del principio economico di base che vuole che ogni
reddito perenne non possa provenire da un prelievo su uno stock, ma debba
essere prodotto dall’attività corrente.
Secondo
altri, teorici del capitalismo cognitivo, il lavoro ha smesso di essere
produttivo, il valore si creerebbe al di fuori della sfera del lavoro. Ma
questi ultimi confondono la categoria di lavoro e il quadro sociale,
istituzionale e tecnico nel quale il lavoro si esercita. Credo che in questa
tesi ci siano due incoerenze. La prima concerne l’aumento della produttività
del lavoro grazie alle conoscenze e alle tecniche, che conferma e non
smentisce, la legge del valore che deriva dalla critica dell’economia politica:
più aumenta la produttività del lavoro, più il valore individuale delle merci
tende a diminuire. L’introduzione generalizzata del sapere nel processo di
produzione, predetta da Marx nei Grundrisse, non smentisce lalegge
del valore, ma sancisce la diminuzione del valore, in modo
conforme a tale legge. La seconda incoerenza concerne la sussunzione
dell’insieme della vita sotto il capitale, che non restringe affatto la sfera
del lavoro e della produttività, ma l’allarga. Detto ciò, Carlo Vercellone è il
solo teorico del capitalismo cognitivo che condivide una parte del mio stesso
cammino.
Prima
di lasciare Jean-Marie Harribey sviluppare la sua seconda obiezione, potreste precisare la vostra
ipotesi sulla questione del lavoro, e più in generale, la specificità del
vostro approccio rispetto ad altre correnti favorevoli a un reddito di base
incondizionato?
CV: innanzitutto vorrei precisare un
punto importante. A mio avviso, noi oggi non siamo di fronte a una società
della fine del lavoro, anche se non si deve sottovalutare l’importanza del
processo di distruzione dell’occupazione, indotto dalla robotizzazione e da
altre forme di automatizzazione algoritmica che sostituiscono sempre di più
anche mansioni considerate come intellettuali.
Il
capitalismo cognitivo non è semplicemente un’economia intensiva di sapere, ma
anche un’economia intensiva di lavoro, anche se quest’ultimo si dispiega sempre
più frequentemente attraverso delle forme che sfuggono alla norma classica del
lavoro-impiego o lavoro salariato. Le attività non mercantili possiedono enormi
giacimenti di lavoro, in particolare dal lato della produzione dell’uomo per
l’uomo (sanità, educazione…); o ancora nello sviluppo del comune, come nei
movimenti per il software libero o dei makers3.
Ciò nonostante il pieno sviluppo di queste attività intensive in conoscenza
presuppone una politica che favorisca lo sviluppo di una società fondata sulla
preminenza del non mercantile.
È
la ragione per la quale la giustificazione principale del RSG non può fondarsi
sulla semplice necessità di limitare gli effetti perversi della disoccupazione
di massa e della precarietà, ma deve basarsi sul riesame e sull’estensione
della nozione di lavoro produttivo all’epoca del capitalismo cognitivo.
Allo
stesso modo, la giustificazione del reddito garantito non può fondarsi sul
semplice principio etico. Noi4 ci smarchiamo
anche dagli approcci, come quello di Philippe Van Parijs, che mettono l’accento
sull’individuo isolato senza articolare la riflessione con un’analisi delle
trasformazioni dei rapporti sociali e dei rapporti di lavoro. Questi approcci
hanno peraltro per effetto di considerare il reddito di base come un reddito
secondario (di redistribuzione) e non come un reddito primario.
Sono
d’accordo nel dire che il lavoro è davvero l’essenza dell’uomo. E non
sottoscrivo un ideale rappresentato dalla società greca antica dove gli schiavi
sarebbero sostituiti da macchine. Penso che questa doppia dimensione del lavoro
che voi avete indicato, quella della creatività e quella dell’alienazione,
implica due elementi che si possono separare. Per far ciò, bisogna distinguere
– e Marx infatti distingueva – da una parte il processo di lavoro e
dall’altra il processo di valorizzazione (del capitale). Il processo
di lavoro designa una condizione eterna dell’attività umana,
attraverso la quale gli uomini cooperano come soggetti per produrre dei valori
d’uso, e così facendo, poiché trasformano la natura, è la natura stessa
dell’uomo che ne risulta modificata. Da questo punto di vista, il lavoro non
permette semplicemente di soddisfare dei bisogni. Si tratta anche di
un’attività che permette agli uomini di esprimere la propria creatività e di
esteriorizzare la propria soggettività in oggetti, in relazioni sociali,
insomma di realizzare la propria umanità. Il processo di valorizzazione invece
sottomette alla propria logica il processo di lavoro e dà luogo al lavoro
alienato. Il lavoro salariato subordinato ormai è un semplice modo per ottenere
un reddito.
Il
lavoro non è un’invenzione del capitalismo industriale. L’uomo artigianale,
emancipato dalle servitù feudali ai tempi della rivoluzione comunale e del
Rinascimento, è una figura del lavoro emancipata, che ricolloca il lavoro al
centro della società e della cittadinanza. In seguito si è sviluppato il capitalismo,
prima nella sfera mercantile e finanziaria – l’epoca del capitalismo
mercantilista – poi, poco a poco, ha spossessato gli artigiani del loro sapere,
ha preso il controllo del lavoro, sottomettendolo alla norma del lavoro
astratto.
Perché
parlare di crisi della legge del valore? Bisogna precisare due cose: la crisi
della legge del valore-tempo di lavoro è l’espressione endogena della dinamica
attraverso la quale il capitalismo diminuisce al minimo il tempo di lavoro, in
modo tale che il valore delle merci cade e con esso cadono i profitti che vi
sono associati; da qui viene il rafforzarsi della logica della rendita nel
capitalismo cognitivo che, attraverso i diritti di proprietà intellettuale,
tenta di far sopravvivere il primato del valore di scambio in modo artificiale.
Questa tendenza non toglie nulla al fatto che il lavoro, in particolare nella
sua dimensione cognitiva, resti la fonte del valore e del plusvalore, anche se
non può più essere misurato in unità di lavoro semplice, di lavoro astratto non
qualificato.
È
in questa prospettiva – quella di un capitalismo fondato sulla conoscenza e il
lavoro cognitivo – che concepiamo il RSG come reddito primario. Basandoci su
due constatazioni principali.
La
prima rinvia al fatto stilizzato, spesso evocato anche dagli economisti mainstream,
secondo il quale la parte di capitale intangibile (educazione, formazione,
sanità, RD) sarebbe ormai il principale fattore di crescita e avrebbe superato
la parte del capitale materiale.
Ciò
ha almeno due implicazioni. Una è che le condizioni di riproduzione della
forza-lavoro sono ormai divenute produttive. La fonte della ricchezza delle
nazioni si sviluppa sempre più a monte dei sistemi di produzione delle imprese.
L’altra implicazione, è che il vero settore trainante dell’economia della
conoscenza non si trova più unicamente nei laboratori di Ricerca & Sviluppo
delle fabbriche ma nelle istituzioni di welfare state che
garantiscono la riproduzione dell’intellettualità diffusa.
La
seconda constatazione riguarda il lavoro stesso e la sua organizzazione. Il
lavoro cognitivo è un’attività di riflessione e di scambio di saperi, che si
sviluppa tanto al di fuori quanto durante l’orario ufficiale di lavoro. Ne
risulta, sotto la pressione della precarietà e di un management che usa lo
stress come strumento di gestione, un forte aumento delle ore di lavoro non
pagate, che danno luogo a una forte crescita del plusvalore assoluto. Questa
tendenza è rafforzata dal ruolo crescente del “lavoro del consumatore” favorito
dallo sviluppo delle tecnologie dell’informazione, della comunicazione e di
internet. Così il modello di profitto dei grandi oligopoli di Internet si basa
in gran parte sull’appropriazione privata del lavoro gratuito, effettuato da
una moltitudine di individui sul web.
Altra
caratteristica del lavoro cognitivo: è capace di auto-organizzare la
produzione, sia all’interno dell’impresa che attraverso forme multiple di
cooperazione autonoma, al di là dei modelli del mercato e della gerarchia, di
cui il software libero è un caso emblematico. Delle due
funzioni che Marx distingueva per il capitalista, quella del direttore
d’orchestra e quella dispotica di estrazione del plusvalore, spesso non resta
che la seconda. Le forme di organizzazione autonome si rivelano in molti casi
superiori, in termini di efficacia, alle imprese capitalistiche.
È
su questa constatazione che si basa il principio di un RSG come reddito
primario. Questo principio si fonda su un’estensione della nozione di lavoro produttivo,
giustificata da un doppio punto di vista.
Il
primo ha a che vedere con il concetto di lavoro produttivo, pensato secondo la
tradizione dominante nella teoria economica, come lavoro che produce merci e
genera profitti. Si tratta in questo caso di constatare che assistiamo ad una
importante estensione dei tempi effettivi di lavoro i quali, senza essere presi
in conto dalla loro misura ufficiale, partecipano alla creazione di valore
aggiunto captato dalle imprese. A tal proposito potremmo dire che il RSG sia
una sorta di salario socializzato, basato sulla rivendicazione della
remunerazione collettiva di questa dimensione del lavoro creatore di valore.
Ma
c’è anche una seconda giustificazione, che rinvia stavolta al lavoro che
produce valori d’uso: delle ricchezze che sfuggono alla logica mercantile e a
quella del lavoro salariato subordinato. Nell’insieme si tratta di rompere, sul
piano del pensiero e dell’immaginario collettivo, con l’identificazione storica
abusiva che il capitalismo ha stabilito tra lavoro e lavoro salariato e, con
essa, tra lavoro salariato e reddito. Si tratta di affermare che il lavoro può
essere improduttivo di merci e di capitale, ma produttivo di ricchezze non
mercantili e dunque dar luogo a una contropartita in termini di reddito.
JMH: sono d’accordo con molti punti di ciò
che è stato detto. Sostengo da molto tempo che il lavoro effettuato nella sfera
non mercantile, come l’istruzione pubblica ad esempio, sia produttivo di valore
per la società, nel senso economico del termine, ovvero di valore (come
frazione del lavoro collettivo NDT), e non soltanto di valore d’uso. Tuttavia
quando Carlo afferma che il RSG è un reddito primario, pone a mio parere una
questione delicata: possiamo considerare che se io scelgo liberamente la mia
attività essa rimandi alla stessa logica?
Tutto
questo mi porta all’altra mia obiezione principale, che concerne la convalida
sociale delle attività.
L’ipotesi
d’incondizionalità presuppone che un individuo possa autoconvalidare le
attività alle quali sceglie liberamente di dedicarsi. Alexandre le bienlheureux5 può
auto-validare il fatto che guarda passare gli uccelli in cielo…? A mio avviso,
la risposta è no. Per delle ragioni che non sono semplicemente morali, ma che
rinviano fondamentalmente all’istituzione sociale che costituisce la moneta.
Un
reddito distribuito in moneta esige una convalida collettiva, sia essa fatta
dal mercato – è il salto pericoloso della merce del quale
parlava Marx – o sia essa fatta dalla collettività, attraverso una decisione
politica (finanziare attraverso le tasse l’istruzione pubblica, ad esempio).
Non c’è altra maniera di convalidare il versamento di un reddito monetario. E
questo versamento non può intervenire prima che la convalida abbia avuto luogo.
L’autoconvalida è un ossimoro. La convalida della mia attività libera non può essere
fatta da me stesso. Non può che provenire dal resto della società, che sia al
livello dello Stato, di una collettività locale o di un tessuto associativo.
Dimenticare
questa esigenza, mi sembra il punto debole di tutte le proposte di reddito
garantito.
CV: L’elemento chiave della nostra
proposta è che capovolge la critica morale secondo la quale si può versare un
reddito solo come contropartita di un lavoro: la contropartita in lavoro esiste
già, è la contropartita in reddito che manca. Il RSG viene a colmare questa
sfasatura.
Rispetto
alla moneta, il RSG ci riporta all’essenza di un’economia monetaria di
produzione. Faccio riferimento al fatto che esiste un’asimmetria fondamentale
nelle condizioni di accesso alla moneta, tra la classe dei capitalisti e la
classe di coloro che non possono accedere alla moneta, se non attraverso un
impiego salariato e perciò dipendono dalle anticipazioni dei capitalisti
rispetto al volume della produzione considerato da questi come redditizio. Il
RSG permetterebbe di attenuare questa asimmetria monetaria fondamentale.
Attenuerebbe la costrizione monetaria che sta alla base del rapporto salariale.
L’istituzione
di un RSG instaurerebbe quella che chiamo una moneta del comune, permettendo di
rendere sostenibile un insieme di attività che potrebbero così essere
remunerate socialmente. Tutto ciò presuppone una fondamentale riforma
monetaria, ma anche una profonda riforma fiscale. In effetti non v’è
contraddizione, ai nostri occhi, tra il finanziamento monetario e il
finanziamento fiscale del RSG. Bisognerebbe attivare entrambi. In un primo
tempo, un finanziamento attraverso la creazione di moneta potrebbe facilitare
enormemente la transizione. Ma in seguito la fase di consolidamento
necessiterebbe di profonde riforme fiscali per assicurarne la perennità. Nel
2002, insieme a Jean-Marie Monnier, abbiamo eseguito uno studio per mostrare la
sostenibilità di un RSG corrispondente alla metà del salario mediano, e cioè
800 euro circa al giorno d’oggi, senza toccare il sistema di protezione
sociale. Tutto ciò implica una vera rivoluzione fiscale i cui grandi assi
sarebbero i seguenti: rafforzamento della progressività dei prelievi, tassa
sulle transazioni finanziarie, una fiscalità dei brevetti e in particolare dei
brevetti dormenti, e la tassazione dei grandi oligopoli di Internet che
sfruttano il lavoro gratuito dei consumatori, sulla scia di quanto proposto dal
rapporto Collin e Colin. Ma questo lavoro dovrà essere approfondito e
attualizzato.
JMH: Visto che il pagamento passa per le
tasse, non si tratta di un reddito primario se non è stato preceduto dalla
convalida sociale di tale o talaltra attività. Altrimenti ricaschiamo nella
contraddizione prima evocata: l’impossibile auto-validazione.
CV: Hai portato un contributo essenziale
mostrando che il lavoro dei servizi pubblici dovrebbe essere considerato come
creatore di valore monetario. Il reddito di un insegnante è d’ordine primario.
Non si può dire che non sia produttivo perché è pagato dalla fiscalità. Non
riesco a comprendere la tua difficoltà nell’estendere questo riconoscimento
alle attività che sfuggono alla norma del pubblico e del privato. La logica del comune può
essere un terzo elemento che si inscrive tra la logica del privato e la logica
amministrativa del pubblico, che può ricevere una convalida politica in quanto
reddito primario.
JMH: Le molteplici attività che i
cittadini esercitano al di fuori della sfera del lavoro, come ad esempio
animare una squadra di calcio, cantare in un coro, non possono essere
considerate allo stesso modo che le attività che si esercitano nella sfera di
mercato, nelle amministrazioni o anche presso le associazioni che forniscono un
servizio monetarizzato. Si tratta di due registri totalmente differenti.
Certo,
queste sfere non sono del tutto separate: la riproduzione della forza lavoro
deve molto al lavoro gratuito effettuato dalle donne nella sfera domestica. Ma
possiamo trarne la conseguenza che è necessario monetizzare questo tempo? Molte
femministe, al giorno d’oggi, insorgono contro la reintroduzione dell’idea di
un “salario per la maternità”, da ottenere sotto forma di reddito di base,
perché una misura di questo tipo comporterebbe il fatto di tornare su ciò che
si può considerare una sorta di diritto acquisito: ovvero la libertà, per le
donne, di esercitare un lavoro, sia esso salariato o alienato…
Più
in generale, c’è un limite all’estensione della definizione di lavoro
produttivo, ed esistono delle attività che non hanno vocazione ad essere
monetizzate. L’estensione del lavoro produttivo di valore non può essere
ricalcata sulla nozione di valore d’uso. Ci si darebbe la zappa sui piedi se
oltrepassassimo questa frontiera, che mi pare sia tracciata da questa nozione
di convalida collettiva. Una tale convalida determina ciò che riguarda la
moneta e ciò che non la riguarda.
Andrei
più lontano: la rivendicazione di un reddito incondizionato è portatrice di una
dinamica secondo la quale non ci sono più arbitrati privati, non c’è più
società. Margaret Thatcher diceva: la società non esiste, non ci sono che
individui. Ho paura che la proposta di un reddito garantito ci faccia correre
il rischio di dar credito a una logica individualistica. D’altronde i liberali
intelligenti l’hanno capito bene, e hanno preso la palla al balzo.
Si
tratta di un impensato maggiore che è anche un problema etico. Ho bisogno dello
sguardo degli altri, del riconoscimento degli altri per convalidare la mia
attività. Perché esistano rapporti sociali è necessario un riconoscimento
reciproco.
CV: Incondizionalità non significa
rifiuto della convalida sociale, né che tutto possa essere ridotto ad un affare
di arbitrato privato. L’incondizionalità ha tre giustificazioni principali.
Innanzitutto
solo l’incondizionalità può permettere il libero sviluppo di attività e di
forme di cooperazione eminentemente produttive, come nel caso del software
libero, dei makers o di tutte le reti associative che
producono ricchezza e non valori mercantili. La questione della convalida
politica di queste attività è essenziale per impedire che esse ritornino a
dipendere dalla logica mercantile. È quello che è successo a Linux: i commoners non
avevano tempo libero né risorse finanziarie, IBM e altri hanno catturato Linux
all’interno del loro modello d’affari e oggi l’80% del programma di Linux è
scritto da salariati che lavorano per Google, IBM e altri. Cosa che
inevitabilmente ha degli effetti sugli obiettivi stessi della programmazione.
Poi
l’incondizionalità è una forma di egualitarismo che rifiuta la pretesa sempre
più arbitraria di stabilire un rapporto tra diritto al reddito e sforzo
individuale in una società nella quale i guadagni di produttività, la creazione
di saperi e di ricchezze sono opera collettiva.
Infine,
l’incondizionalità impedisce l’ineluttabile stigmatizzazione associata alla
condizionalità e alla richiesta di contropartite e di prove di buona volontà
dei beneficiari, come mostra tutta la storia dei tentativi di distinguere tra
poveri buoni e poveri cattivi, della quale conosciamo bene le conseguenze.
Soltanto l’incondizionalità permette di rompere con la logica che rende il
lavoro salariato la norma alla quale tutti si devono conformare.
JMH: Questo problema della
stigmatizzazione merita attenzione. Quale sarebbe la differenza in termini di
dignità umana tra un individuo che percepisce una prestazione sociale
tradizionale, visto che è senza un impiego, e un individuo che percepisce una
allocazione universale, ma che percepisce solo quella, perché non ha accesso a
tutte le sfere della società? Su questo punto io sono d’accordo con Gorz quando
considerava necessario che gli individui potessero inserirsi in tutte le sfere
della vita sociale – tra le quali quella del lavoro, che è un fattore
essenziale di integrazione sociale.
Il
pericolo di una priorità assoluta data al reddito sociale garantito sarebbe di
rinunciare all’obiettivo del pieno impiego e all’inserimento di tutti gli
individui in tutti i settori della vita sociale. Piuttosto che condannare gli
uni a restare in panchina mentre gli altri lavorano sempre più a lungo, bisogna
ridurre il tempo di lavoro per riassorbire la disoccupazione. Io penso alla
riduzione del tempo di lavoro come ad un progetto collettivo, ovvero come un
progetto di perequazione degli incrementi di produttività sull’insieme della
collettività. Infatti – su questo siamo d’accordo – non si possono attribuire
con precisione gli incrementi di produttività a tale o talaltro individuo visto
che tali incrementi sono il risultato dell’insieme delle infrastrutture della
società.
Il
reddito di base, pretendendo di superare il lavoro salariato, rischia di
indebolirlo e di indebolire anche tutte le protezioni e i diritti sociali che
accompagnano il salariato. Robert Castel definiva il salariato non solo in
termini di rapporto di subordinazione del lavoratore al suo datore di lavoro,
ma anche come insieme delle protezioni sociali che tendono a diventare
universali. Bisogna tendere all’universalizzazione della condizione salariale,
piuttosto che al taglio del salariato.
Anche
se i partigiani al RSG accettano l’idea di una riduzione del tempo di lavoro,
mi sembrano vittime dell’illusione secondo la quale la si può precisamente
rendere compatibile con il RSG. Io, al contrario, penso che bisogna
innanzitutto fare in modo che la disoccupazione diminuisca, attraverso una
forte riduzione del tempo di lavoro. La RTL è un progetto collettivo, il RSG invece
rinvia ciascuno alla sfera individuale.
Una
volta che il reddito di base incondizionato fosse versato a tutti, ciascuno
farebbe “la sua libera scelta” di offrire o meno la sua forza-lavoro. Visto che
la società avrebbe già fatto il suo dovere, i problemi sociali non sarebbero
più sociali perché sarebbero rinviati alla sfera privata. Inoltre, non si può
non vedere che un tale reddito universale rappresenterebbe per i datori di
lavoro una benedizione, perché li dispenserebbe dal remunerare decentemente la
forza-lavoro. Dietro l’idea di reddito di base c’è il pericolo di una
flessibilità accentuata del lavoro, e non di un rafforzamento del potere di
negoziazione dei salariati.
Infine,
la proposta a volte fatta di finanziare questo reddito primario attraverso la
soppressione di tutte le indennità sociali attuali (RSA6,
pensione, sussidio di disoccupazione, allocazione alle famiglie e perché no?
indennità di malattia…) distruggerebbe tutta la redistribuzione garantita da
queste prestazioni, che sono esattamente quelle più redistributive. Il reddito
di esistenza sarebbe quindi finanziato dai più poveri?
CV: Bisogna sottolineare l’opposizione
tra la nostra proposta e quelle d’ispirazione liberale, alla Friedman, nelle
quali l’organizzazione di un RSG avrebbe come contropartita la demolizione del
sistema di protezione sociale. La nostra proposta preserva i diritti acquisiti
di Welfare state e mira a perseguire la logica della
socializzazione dell’economia, cominciata con lo sviluppo del sistema di
protezione sociale.
Il
versamento di un RSG indipendente dall’attività salariata non potrà che
rafforzare il rapporto di forza dei lavoratori rispetto al capitale. Pensiamo
ad esempio all’effetto che avrebbe il RSG sui servizi industrializzati tipo
Mac-Do che si basano sulla possibilità di beneficiare di una massa enorme di
lavoratori precari privi della possibilità di negoziare le proprie condizioni
di lavoro. Con un RSG io posso oppormi a delle condizioni di lavoro
inaccettabili.
D’altra
parte le rivendicazioni del RSG e della RTL non sono per nulla antagoniste, ma
complementari. Si rafforzano l’un l’altra. Proprio perché il RSG permette di
sviluppare delle attività autonome, al di fuori della sfera del lavoro
salariato, ma allo stesso tempo garantisce un rafforzamento dei rapporti di
forza nel settore mercantile…
Più
fondamentalmente ancora, si tratta di sapere verso quale modello di società si
vuole andare. L’approccio di JMH resta legato a un’idea di pieno impiego
salariato, vicina all’età dell’oro del modello fordista keynesiano. Una tale
idea è sottesa al vecchio principio socialista “a ciascuno secondo il suo
lavoro”. Io preferisco il principio comunista del Marx della Critica
del programma di Gotha7: “da ciascuno secondo le sue
possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, restando inteso che il lavoro
è esso stesso un bisogno essenziale per la realizzazione della creatività e
dell’essere sociale dell’uomo.
JMH: “da ciascuno secondo le proprie
possibilità, a ciascuno secondo i propri bisogni” è un principio al quale
aderisco anch’io, ma deve essere applicato nella sfera del lavoro socialmente
convalidato e non può essere altrimenti. Salvo fare a meno delle norme di
impiego decenti e dell’integrazione di tutti in una vita sociale soddisfacente.
Il dibattito sul reddito d’esistenza ha il merito di porre alcune questioni
fondamentali: che cos’è il valore fondato sul lavoro? Che senso ha il valore
del lavoro stesso, ovvero qual è il suo posto nella società? A cosa serve e da
dove viene la moneta? E infine, cosa fa sì che ci sia una società? Ma in
effetti la risposta a queste questioni può essere trovata solo se tutti gli
individui vengono messi nella condizione di inserirsi in tutte le sfere della
società.
Bibliografia
Baronian
L. et Vercellone C., 2015, “Monnaie du commun et revenu social garanti”,
Terrains/Théories n° 1, disponible sur http://teth.revues.org/377
Harribey
J.-M., 2014, Les feuilles mortes du capitalisme. Chroniques de fin de cycle, Le
Bord de l’eau.
Harribey
J.-M., 2013, La richesse, la valeur et l’inestimable. Fondements d’une
critique socio- écologique de l’économie capitaliste, Les Liens qui
libèrent.
Monnier
J.-M. et Vercellone C., 2014, “The Foundations and Funding of Basic Social
Income as Primary Income. A Methodological Approach”, Basic Income
Studies, vol. 9, n° 2, décembre.
Vercellone
C., 2013, “Capitalisme cognitif et revenu social garanti comme revenu
primaire”, in Caillé A. et Fourel C. (dir.), Penser la sortie du
capitalisme. Le scénario Gorz, Le Bord de l’eau, pp. 137-148.
Sul
reddito di base, si vedano anche: http://harribey.u-bordeaux4.fr/travaux/travail/index-travail.html
et http://harribey.u-bordeaux4.fr/travaux/valeur/index-valeur.html
- Jean-Marie
Harribey è professore di Scienze Economiche e Sociali e animatore del
consiglio scientifico di Attac. Carlo Vercellone è Maître de Conferences
in Scienze Economiche all’Università Parigi 1 Pantheon-Sorbonne ↩
- Si
tratta di collaboratori esterni legati in modo permanente o temporanea
all’impresa ↩
- Termine
inglese che designa una persona che fabbrica qualcosa, spesso con l’aiuto
delle tecnologie digitali, come le stampanti 3D. Grazie all’estensione
della logica dell’open source e del copy left, alla produzione materiale,
la loro attività crea delle enormi possibilità di autoproduzione e di
scambio ↩
- Carlo
Vercellone e Jean-Marie Monnier ↩
- Si
tratta di un film di Yves Robert del 1968, nel quale il personaggio
principale interpretato da Philippe Noiret, scopre il diritto e il piacere
dell’ozio. ↩
- Revenue
de solidarité active,
è un sussidio francese destinato a garantire ai suoi beneficiari un
reddito minimo vincolato all’obbligo di ricerca di impiego e di
definizione di un progetto professionale. In 1/3 dei casi l’RSA è un
reddito complementare suscettibile di cumulo con salari inferiori al
salario minimo, riconosciuto in Francia ↩
- Testo
di Marx scritto per criticare il programma del congresso di unificazione
del movimento socialista tedesco che si è tenuto a Gotha nel 1875: in
particolare Marx vi precisa la funzione del lavoro, che, anche se unico
creatore di valore, non è la fonte di tutte le ricchezze, visto che anche
la natura ne è fonte. ↩
Traduzione di Marco Assennato (euronomade)
* L’Economie politique, n°067, luglio 2015, pp. 62-75: