di Guglielmo Forges Davanzati
La
crisi greca è la più eclatante manifestazione del fatto che l’Unione monetaria
europea non può che generare impoverimento crescente delle aree deboli. La
spirale perversa nella quale è precipitata l’economia ellenica è molto simile a
quella che caratterizza la nostra economia. In questo scenario, e
contrariamente alla posizione assunta dal governo Renzi, dovrebbe essere
interesse anche nostro sostenere il programma di revisione dell’architettura
istituzionale europea che Syriza propone
"Il libero scambio porta
inevitabilmente alla concentrazione
Spaziale della produzione industriale
– un processo di polarizzazione
che inibisce la crescita di queste
attività in alcune aree e le concentra in altre”
(N.Kaldor, The foundation of free
trade theory, 1980)
I
numerosissimi commenti sulla situazione greca si sono, nella gran parte dei
casi, concentrati sul problema della ristrutturazione del debito e sulla tenuta
dell’Unione Monetaria Europea. Non vi è dubbio che si tratta di problemi di
massima rilevanza, così come non vi è dubbio che la soluzione della crisi greca
ha natura innanzitutto politica. Non dovrebbe però passare in secondo piano un
altro dato che attiene al fatto che ciò che è accaduto all’economia greca – per
quanto attiene alla sua struttura produttiva – è molto simile a ciò che è
accaduto (e sta accadendo) agli altri Paesi periferici del continente, Italia
inclusa.
Le
affinità fra i due Paesi non sono marginali, sebbene lo siano, ovviamente, con
ordini di grandezza assai diversi. Fra queste, l’elevato debito pubblico,
l’elevata evasione fiscale1, l’elevata
disoccupazione (prevalentemente giovanile) e soprattutto una
specializzazione produttiva in settori a bassa intensità tecnologica accomunano
le due economie2. In particolare, l’Italia, a differenza della
Grecia, non ha mai sperimentato tassi di crescita negativi nell’ordine dell’8%
(come accaduto in Grecia nel 2011), né ha mai fatto registrare un rapporto
debito pubblico/Pil del 175% (come nella Grecia del 2014), attestandosi questo
rapporto, ad oggi, al 135%. Ma soprattutto, mentre la Grecia ha sempre avuto
una specializzazione produttiva in settori a bassa intensità tecnologica
(agricoltura e turismo, in primis), l’economia italiana è stata
un’economia industriale, per poi sperimentare, almeno a partire dall’inizio
degli anni novanta, un intenso processo di deindustrializzazione che la rende
ora sempre più simile a quella greca.
Il
programma economico di Syriza ha come punto essenziale la rinegoziazione del
debito e il rifiuto di mettere in campo ulteriori misure di austerità. Dovrebbe
essere ormai del tutto chiaro che le politiche di austerità, oltre a essere
socialmente insostenibili (non solo per la Grecia), sono anche controproducenti
per l’obiettivo di ridurre il rapporto debito pubblico/Pil, come peraltro
certificato dallo stesso Fondo Monetario Internazionale. Su questo aspetto, la
posizione di Syriza è assolutamente convincente ed è auspicabile che, su questo punto, vi sia un “effetto contagio” in
altri Paesi europei. Ma qui – oltre alle questioni di ordine finanziario –
si pone un problema essenziale che attiene all’eventuale attuazione di
politiche fiscali espansive in un’economia sostanzialmente priva di un settore
industriale.
Si
consideri, a riguardo, che, in Grecia, il settore agricolo ha un’incidenza per
numero di addetti pari al 13%, con un contributo al Pil di circa il 3%, e che
le tecniche utilizzate sono ampiamente obsolete; che il settore turistico
incide sul Pil nell’ordine dell’11% e che il settore industriale è pressoché
inesistente. Se non si incide radicalmente su questa configurazione della
struttura produttiva, anche nel caso in cui si conceda alla Grecia un
allentamento delle politiche di rigore, l’effetto di un aumento della spesa
pubblica corrente rischierebbe di risolversi unicamente in un aumento delle
esportazioni. Su fonte Banca di Grecia, si stima che il bilancio delle partite
correnti è stato sistematicamente in disavanzo almeno a partire dal 2010,
nonostante le accentuate politiche di “moderazione salariale” messe in atto,
che avrebbero dovuto accrescere la competitività delle imprese di quel Paese.
Il
punto in discussione va oltre la questione greca e attiene al fatto che un’economia di mercato deregolamentata
tende spontaneamente a produrre crescenti divergenze regionali.
Ciò a ragione del fatto che – una volta determinatasi un’agglomerazione di
imprese in una data area – per l’operare di economie di scala e di effetti di network,
per l’esistenza di centri di ricerca e di facile accesso al credito bancario e
ai mercati finanziari, quell’area attrae investimenti e forza-lavoro altamente
qualificata, generando crescenti diseguaglianze regionali, che non possono che
essere frenate se non da interventi esterni3.
Letta
in questa chiave, la crisi greca è la più eclatante manifestazione del fatto
che, per come è costruita (ovvero in assenza di meccanismi di correzione degli
squilibri regionali)4, l’Unione Monetaria Europea non può che generare impoverimento
crescente delle aree deboli, attraverso processi di deindustrializzazione
che, pur accentuati dalle politiche di austerità, si attivano anche in loro
assenza.
In
più, letta in questa chiave, la crisi greca (e la lunga recessione italiana)
non è affatto una crisi derivante da eccessivo indebitamento pubblico, essendo
quest’ultimo piuttosto l’effetto della riduzione del tasso di
crescita, a sua volta imputabile ai processi di concentrazione del capitale
nelle aree centrali del continente e, dunque, alla deindustrializzazione delle
aree periferiche. Alle quali viene assegnato un modello di sviluppo basato su
produzioni a bassa intensità tecnologica e su piccole dimensioni aziendali, che
asseconda le c.d. vocazioni naturali dei territori (agricoltura e turismo, in
primis), e nel quale, pressoché inevitabilmente, la competizione su scala internazionale si basa sulla gara al ribasso
dei salari piuttosto che su aumenti di produttività e intensificazione dei
processi di innovazione, dunque su cali della domanda interna e del tasso di
crescita.
In
più, una specializzazione produttiva basata su produzioni di beni di base
(tipicamente prodotti agricoli) tende ad associarsi a bassi redditi in termini
reali nel Paese che li esporta, dal momento che i prodotti esportati hanno
costi di produzione (e dunque prezzi) di norma inferiori a quelli importati: i
primi sono infatti prodotti occupando lavoratori poco specializzati, con bassi
salari e in mercati prossimi a una configurazione concorrenziale, a fronte del
fatto che i beni importati sono prodotti da lavoratori con maggiore
specializzazione, più alti salari e in mercati oligopolistici5.
Il
problema è ulteriormente accentuato dal fatto che, per tenere insieme Paesi che viaggiano con diversa velocità, ma volendo
rinunciare a una politica fiscale comune (e volendo rinunciare all’attuazione
di politiche industriali), i Paesi ricchi tendono a diventare creditori dei
Paesi periferici – anche mediante l’acquisto di titoli del debito pubblico6 –
e i Paesi periferici, dato il loro sistematico più basso tasso di crescita
(accentuato dalle misure di austerità), diventano progressivamente sempre più
insolventi7.
In
questo scenario, dovrebbe essere interesse anche nostro sostenere il programma
di revisione dell’architettura istituzionale europea che Syriza propone, a
partire dall’attuazione di politiche industriali che rafforzino la nostra base
produttiva. Dovrebbe esserlo perché la spirale perversa nella quale è
precipitata l’economia greca è molto simile, seppure con ordini di grandezza
molto diversi, a quella che caratterizza il declino economico italiano.
NOTE
1 Occorre a riguardo chiarire che la maggiore
diffusione dell’evasione fiscale e dell’economia sommersa nelle aree
periferiche riflette precisamente il fatto che si tratta di economie con bassi
tassi di crescita: in altri termini, e contrariamente all’opinione dominante,
il deterioramento del ‘capitale sociale’ (ovvero della propensione al rispetto
delle norme) è semmai l’effetto, non la causa, del crescente impoverimento di
quelle aree.
2 Su fonte ISTAT, si stima che, in Italia, nel 2014
la produzione industriale si è ridotta 0,8% rispetto all'anno precedente, e che
l’incidenza della produzione industriale sul Pil è in riduzione da almeno un
triennio (-3.2% nel 2013; -6.4% nel 2012).
3 Si tratta dei processi di causazione circolare
cumulativa, teorizzati, in particolare, da Gunnar Myrdal e Nicholas Kaldor. Sul
tema si rinvia a G. Myrdal (1957). Economic Theory and Underdeveloped
Regions. London: General Duckworth & Co.; N. Kaldor (1981). The
role of increasing returns, technical progress and cumulative causation in the
theory of international trade and economic growth, “Economie Appliqueé”,
n.4.
4 Meccanismi teoricamente affidati alla Banca
Europea per gli investimenti (BEI), che, per proprio Statuto (art.198E), ha
come obiettivo anche quello di finanziare “progetti contemplanti la
valorizzazione delle regioni meno sviluppate” .
5 Sul tema la letteratura è molto ampia. È qui
sufficiente rinviare a P.Sylos Labini (1975 [1958]). Oligopolio e
progresso tecnico. Torino: Einaudi.
6 Si consideri, a riguardo, che il debito pubblico
greco ammonta a ben 322 miliardi di euro e che, stando a quanto comunicato dal
Ministero delle Finanze ellenico alla fine del terzo trimestre 2014, i titoli
di Stato sono solo per il 17% in possesso di soggetti privati. Il 62% è
detenuto dai governi dell'Eurozona, il 10% dal Fondo Monetario Internazionale e
l’8% alla BCE, mentre il restante 3% è custodito nella Banca centrale greca. I
governi dell'Eurozona, tra prestiti bilaterali concessi in occasione del primo
salvataggio nel 2010 e fondi elargiti attraverso il “Fondo Salva Stati” sono
esposti complessivamente per 195 miliardi di euro. Il primo creditore della
Grecia è la Germania con 60 miliardi, cui segue la Francia con 46.
L'esposizione dell’Italia ammonta a circa 40 miliardi, cui seguono la Spagna
con circa 26 miliardi e l’Olanda con circa 12 miliardi.
7 In tal senso, è pienamente convincente la diagnosi
del Ministro Varoufakis, che attribuisce l’intensificarsi della crisi greca
agli aiuti chiesti e ottenuti dalla c.d. Troika (aiuti che, peraltro, hanno
generato l’aspettativa di ulteriori aiuti) dal momento che, da un lato, questi
sono stati condizionati all’intensificazione delle misure di austerità e,
dall’altro, costituiscono oggi un onere del debito assolutamente insostenibile.
Ed è pienamente convincente la sua proposta di attuare un piano di investimenti
pubblici finalizzato a far crescere la domanda interna e ad accrescere la
produttività dei fattori, per il tramite dell’aumento della dotazione di
capitale e di maggiori risorse destinate alla ricerca scientifica.
Fonte:
micromega-online