sabato 21 febbraio 2015

Lavoro, ecco la “zona grigia” di chi ha perso ogni speranza

di Antonio Casano

Dal quadro dei dati sul mercato del lavoro emerge la dura realtà della crisi che mette in evidenza la fine di un meccanismo estrattivo di plusvalore basato sul lavoro salariato. Parimenti si estende il “processo di meridionalizzazione” non solo all’interno dei confini nazionali, ma coinvolge -com'è evidente- l’intera area euromediterranea: una nuova “questione meridionale” di dimensione continentale si fa largo. Un  nuovo Sud è necessario per ristrutturare il sottosviluppo organico all’accumulazione del capitale: le politiche economiche gestite dalla Troika sono funzionali a tale processo. Esse azionano strumenti di rifinanziarizzazione come chiavi sottrattive di ricchezza che impoveriscono i livelli sociali della qualità della vita: Grecia docet!  

Dall’analisi dell’ultimo “Rapporto Svimez 2014” sull’economia del Mezzogiorno, emerge che nel periodo compreso tra 2008 ed il 2013 si è registrata una caduta occupazionale del 9%, circa 7 punti percentuali in più rispetto al pari segno negativo (-2,4%) del Centro-Nord. Nelle aree meridionali, in valori assoluti, coloro che hanno perso il posto di lavoro sono stati ben 583mila, a fronte del calo complessivo di 985mila. Il dato è estremamente significato perché configura l’esatta misura degli effetti drammatici della crisi. Se consideriamo che nel totale degli occupati rilevato nel 2013 – 22 milioni 420mila – l’incidenza del Mezzogiorno è pari al 26%, osserviamo che la perdita dei posti di lavoro si concentra prevalentemente nel Sud, attestandosi ad una drammatico 60%. In sostanza, nel solo 2013 la perdita di posti di lavoro al Sud è stata di 282mila su 478mila complessivamente persi su scala nazionale. Oltremodo preoccupante risulta essere il calo dell’occupazione giovanile: il segno negativo ha penalizzato i giovani d’età sotto i 34 del 12% (quasi del 7% i pari fascia del Centro-Nord).
“La nuova flessione – ricordano i ricercatori dello Svimez – riporta il numero degli occupati del Sud per la prima volta nella storia a 5,8 milioni, sotto la soglia simbolica dei 6 milioni; il livello più basso almeno dal 1977, anno da cui sono disponibili le serie storiche base di dati”. In altri termini, non solo nei decenni successivi i limiti del dualismo dell’economia italiana non sono stati rimossi, ma il tasso occupazionale nel Sud è sceso al 42% rispetto al 49% degli anni ’70, mentre è cresciuto di 7 punti al Centro-Nord a fronte del 56% di quegli anni. Tuttavia, si osserva nel Rapporto, sia “il 42% del Mezzogiorno che il 63% del Centro-Nord sono però tassi di occupazione decisamente lontani dal target del 75% di Europa 2020”.

Analizzando più da vicino l’altro aspetto fondamentale del mercato del lavoro, quello della disoccupazione, e mettendo a fuoco i dati relativi all’indagine condotta sulle ripartizioni geografiche, va sottolineato che il Rapporto Svimez non si limita soltanto alla rilevazione formale esplicitata dalle fonti ufficiali. Rilevazione che non contempla quella “zona grigia” costituita dai “disoccupati impliciti”, ovvero da coloro che nei sei mesi precedenti all’indagine istituzionale non hanno più effettuato azioni di ricerca di lavoro. Cosicché tra il tasso di disoccupazione ufficiale e il dato effettivo, comprensivo della “zona grigia”, si registra uno scarto assai significativo. Ciò non vale solo per il Sud ma anche per il Centro-Nord. Infatti se nel Mezzogiorno il gap è all’incirca del 12% (19,7 contro 31,5), quello nella ripartizione centro-settentrionale, sia pure al di sotto affatto non trascurabile, è di ben 4 punti (9,1% contro 13%). Gli effetti della crisi colpiscono duramente le condizioni generali del mercato della forza-lavoro: stando alle registrazioni ufficiali, la crescita della disoccupazione nazionale nel solo 2013 ha sfiorato le 400mila unità.
Quindi all’aggravamento della situazione nel Sud, corrisponde una sorta di “processo di meridionalizzazione” nelle aree più sviluppate: lo sfondamento del 13% del tasso di disoccupazione effettivo nel Centro-Nord rappresenta la cifra del declino generale delle condizioni di vita e dell’immiserimento sociale in cui versa il Paese. I morsi della crisi non hanno risparmiato le aree tradizionalmente capaci di smistare i flussi della forza-lavoro, restringendo gli spazi per possibili sbocchi alternativi nella ricerca di posti di lavoro per i residenti meridionali, non a caso – da un lato – è aumentata la durata del periodo dello stato di disoccupazione ed è diminuita – dall’altro – la mobilità migratoria interna, caratterizzata da una nuova dinamica basata sul cosiddetto “pendolarismo di lungo raggio”.
Se nelle aree economicamente più avanzate “la perdita di posti di lavoro tende a trasformarsi quasi interamente in ricerca di nuovi posti di lavoro”, nel Mezzogiorno la desertificazione produttiva e la recessione provocata dalle politiche neoliberiste scoraggiano la ricerca di nuova occupazione. Quella della centralità del lavoro salariato è una prospettiva sempre meno credibile e praticabile per uscire dalla crisi, anche se è illusoriamente alimentata dal pensiero economico mainstream, come unica chiave di accesso al reddito: se il 63% dei disoccupati meridionali versa in questo stato economico-sociale per lunghi periodi (oltre un anno, secondo la raccolta delle rilevazioni 2003) – con la prevedibile stima di una tendenza destinata ad allungarsi nel tempo – appare ovvio che il dato di crescita alla disincentivazione della ricerca di lavoro nel futuro alimenterà sempre più quella “zona grigia degli impliciti”, di cui non tengono conto le statistiche ufficiali.
Comunque sia, l’aspettativa di un’occupazione continua ad essere indirizzata fuori dai confini del Mezzogiorno. Certo si tratta di un fenomeno migratorio connotato diversamente dalla massificazione conosciuta negli anni di epoca fordista: si tratta di un nuovo flusso definito “pendolarismo di lungo raggio”, ovvero trasferimenti temporanei che mantengono la residenza nei comuni di origine con frequenti rientri in famiglia nel corso della durata del contratto di lavoro. Un fenomeno quello del pendolarismo tipicamente giovanile, ma che di recente ha visto crescere il coinvolgimento di coniugati e meno giovani: nel 2013 questi ultimi raggiungono la soglia del 31% della massa totale di pendolari. Tuttavia, nello stesso anno considerato, gli occupati pendolari complessivi (142mila) risultano in netta flessione (-9%) rispetto al 2012, segno che anche nelle zone più ricche – come sottolineano anche allo Svimez – si certifica il trend alla riduzione degli sbocchi occupazionali.