«Università israeliane motori di apartheid e genocidio»--Giovanni Tonutti-
Nel cuore della capitale americana, a pochi isolati di distanza dalla Casa Bianca e dai quartier generali della Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, è sorto uno delle centinaia di accampamenti di solidarietà con Gaza eretti dagli studenti delle università americane.
All’alba di giovedì 25 aprile, una coalizione di attiviste delle principali università della area metropolitana di Washington DC ha occupato il cortile del campus universitario della George Washington (GW) University, dichiarandola “zona liberata” e rinominandola “Piazza dei martiri” in onore delle oltre 35mila vittime del genocidio palestinese. Da allora, è trascorsa più di una settimana e il numero di tende continua a crescere.
A differenza della maggior parte degli altri accampamenti sorti a macchia di leopardo nelle principali università del paese, l’occupazione della GW non ha subito nessun tentativo di sgombero da parte della polizia, nonostante fin dall’inizio l’amministrazione dell’Università avesse richiesto alle autorità locali l’intervento delle forze dell’ordine. A eccezione delle tattiche intimidatorie della polizia e sparuti tentativi di provocazione da parte di sostenitori sionisti, l’atmosfera nell’accampamento è del tutto pacifica. Qua alla GW è evidente come la narrazione dei media mainstream e dello stesso presidente Biden di un movimento studentesco violento non trovi alcun riscontro, a dimostrazione di come gli episodi di scontri e violenza registrati in altri contesti siano il risultato esclusivo degli interventi delle forze dell’ordine o degli attacchi di vere e proprie gang filo-sioniste come avvenuto a Los Angeles.
L’accampamento è una vera e propria comunità autogestita. I pasti sono gratuiti, grazie alle donazioni dei moltissimi solidali, e sono presenti un’area per il primo soccorso, una zona di preghiera per i molti studenti musulmani e una tenda adibita a biblioteca, dove sono messi a disposizioni testi vari della letteratura post-coloniale. Al centro, lo spazio assembleare dove si susseguono momenti di autoformazione con interventi di attivisti locali impegnati in altre vertenze di giustizia sociale. Il tutto intervallato dai richiami degli stessi studenti, che a mo’ di mantra ricordano come «Gaza sia la bussola delle nostre azioni», elencando poi le richieste che il movimento ha sottoposto all’amministrazione dell’ università: la tutela della libertà di espressione filo-palestinese, il ritiro immediato dei provvedimenti penali e disciplinari contro gli studenti, l’immediata divulgazione di tutti gli investimenti e le dotazioni finanziarie dell’università, il disinvestimento da tutti i fondi legati a Israele e l’interruzione di partnership accademiche con le università Israeliane.
Proprio a margine di una assemblea mi incontro con Lucas, uno studente al terzo anno del corso di giornalismo nella vicina università di Georgetown. Lucas, nato e cresciuto a New York da genitori egiziani, è un attivista del gruppo Students Justice for Palestine e dal primo giorno di occupazione dorme in una tenda nel centro del cortile occupato. «Onestamente non pensavo l’accampamento durasse più di qualche giorno», mi dice.
Siamo invece all’ottavo giorno di occupazione, reduci da una settimana in cui abbiamo assistito alla brutale repressione degli studenti alla Columbia University e UCLA. Come ti senti in questo momento, sia rispetto all’occupazione in corso che al movimento in generale?
Sto vivendo delle sensazioni ed emozioni molto forti, a volte contrastanti, a volte difficili da elaborare. Vivo in costante ansia, e parte di questo è semplicemente la mia personalità. Ma in grossa parte è anche la situazione molto tesa in cui ci troviamo. Solo poche notti fa abbiamo ricevuto i video dalla Columbia con la polizia che irrompe nel campus, immagini diverse da tutto ciò che abbiamo mai visto nella storia di questo paese. Una forza di polizia di tale dimensione dispiegata per attaccare un gruppo di studenti universitari che protestano sul proprio campus contro il genocidio palestinese è una repressione da parte dello Stato estremamente violenta e senza precedenti. Mi trovavo nella mia tenda assieme al mio compagno, uno studente di un’altra università. Lui guardava i video e ha cercato di farmeli vedere, ma io ho chiuso gli occhi. Ho detto, “non posso guardare” e quello che sentivo era il rumore dei colpi e delle urla e, sai, solo l’idea che in qualsiasi momento la stessa cosa possa accadere qui mi spaventa molto.
È meno probabile che accada qui a Washington DC vista la situazione politica della città, molto diversa da New York City, ma non è escluso. E poi oltre a questo, abbiamo visto cosa è successo a UCLA, dove non è stata la polizia ad attaccare gli studenti, ma i filo-sionisti. E stamattina [a Washington DC, ndr] c’è stata una grossa manifestazione sionista e non sapevamo se sarebbero entrati qui. E come abbiamo visto a Los Angeles, la polizia non è intervenuta e dubito che interverrebbe. Quindi ci sono così tanti fattori in gioco che sono minacce imminenti per la nostra sicurezza. E sapere che io o, cosa più importante per me, uno dei miei compagni potrebbe rimanere davvero ferito è davvero terrificante. Ma anche così, per quanto possa sembrare scontato, trovo il mio coraggio e la mia fermezza nei miei compagni, sapendo che siamo tutti nella stessa barca. Sapendo che se succede qualcosa, avrò almeno qualcuno al mio fianco, ne usciremo e lotteremo. E se uno di noi cade, un altro cadrà con lui. E sapendo che abbiamo la nostra comunità su cui contare, che nessuno di noi combatterà questa battaglia da solo, questo mi dà molto conforto e mi permette di andare avanti.
Non è un’esagerazione dire che questo è probabilmente uno dei movimenti di protesta nella storia di questo paese che ha incontrato la repressione più dura da parte delle autorità. Fino ad oggi ci sono state pochissime concessioni da parte delle amministrazioni degli atenei. Al contrario, hanno richiesto l’intervento dei poliziotti per sgomberare le occupazioni e arrestare gli studenti. A livello di rappresentanza politica poi, c’è stata una condanna bipartisan quasi unanime. E poi c’è la violenza della polizia, inumana e totalmente sproporzionata. Come pensi che ciò influenzerà il movimento? Perché queste sono chiaramente azioni intimidatorie, un tentativo di sopprimerlo.
Una cosa a cui ho pensato molto in questi giorni è che ci stiamo avvicinando all’anniversario delle sparatorie di Kent State [4 maggio 1970, ndr], quando gli studenti di Kent State University in Ohio stavano protestando contro la guerra americana in Vietnam, e la Guardia Nazionale è intervenuta sparando e uccidendo quattro studenti.
La situazione che ha portato a quel massacro è identica a ciò che stiamo vedendo nelle università di questo paese ora. Kent State è stato un momento cruciale nel cambiare la politica estera degli Stati Uniti in Vietnam, nell’influenzare l’opinione pubblica, in un momento in cui era così impopolare criticare il governo degli Stati Uniti, essere anti-guerra. Quella infatti era una posizione di movimento di sinistra considerata di nicchia. Apparteneva agli studenti e agli hippy.
Ma i giovani venivano arruolati in tutto il paese e le persone erano molto paranoiche per la minaccia dell’URSS. Voglio dire, era un clima politico simile a quello con cui ci confrontiamo ora con la Palestina.
E forse abbiamo bisogno di una presa di coscienza forte per risvegliare le masse. Abbiamo bisogno che accada qualcosa di estremo. Abbiamo bisogno che le contraddizioni dello Stato e di queste università vengano esposte, per risvegliare le masse agli orrori e alle atrocità. Perché lo status quo è così normalizzato, lo status quo di oltre sette mesi di genocidio trasmesso in diretta su social media di cui siamo profondamente e apertamente complici, che i politici di tutti gli schieramenti stanno celebrando. E’ folle. E non viene visto come folle da una fetta abbastanza grande del pubblico. E la storia ci ha mostrato che sono gli studenti che si ribellano che risvegliano le masse a quella contraddizione nei loro stessi quadri morali.
Continuando con il parallelismo con le proteste del passato, gli studenti sono sempre stati all’avanguardia dei movimenti sociali. In questa occasione però, state anche protestando per delle richieste tangibili e concrete verso le università, spingendovi oltre l’occupazione altamente simbolica di un cortile universitario. Qual è il ruolo delle vostre richieste nel processo di isolamento di Israele e di cambiamento nelle relazioni di questo paese con il regime sionista?
Sappiamo di vivere in un sistema economico globale capitalista. Tutto si riduce a dove si muove il denaro e come si muove. Questo genocidio non può esistere senza che l’entità sionista riceva il supporto finanziario e materiale degli Stati Uniti e del settore privato. E il settore privato si fonda sugli investimenti privati. Una grande parte di questo proviene dalle dotazioni finanziarie universitarie [$850 miliardi di dollari, secondo le stime del “Washington Post”, ndr]. Se vogliamo realisticamente che il regime sionista ponga fine al suo colonialismo di insediamento e all’oppressione del popolo palestinese, deve essere abbattuto attraverso attacchi al suo capitale. Abbiamo visto come questo ha funzionato con l’apartheid in Sudafrica. Il regime dell’apartheid sudafricano è caduto grazie anche ai boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni. Attacchi diretti al suo capitale materiale.
Ed è esattamente ciò che speriamo di fare con lo Stato di Israele. Le nostre università sono ingranaggi fondamentali nella macchina imperialista. Penso che rispetto alle nostre richieste, le più importanti siano il disinvestimento da qualsiasi azienda che stia sviluppando armi o tecnologia o che altrimenti sia complice del sionismo politico e il boicottaggio o la fine di tutte le partnership con istituti di istruzione superiore sionisti. Questo forse non è immediatamente ovvio alle persone, ma le università israeliane sono i motori dell’occupazione, dell’apartheid e del genocidio. Sono loro che stanno sviluppando questa tecnologia, che stanno innovando, che stanno creando nuovi modi per opprimere i Palestinesi e per avanzare nel progetto coloniale di insediamento. Quindi se le nostre università iniziano a tagliare questi legami è un primo passo per isolare queste istituzioni e penso che sia il risultato più efficace che possiamo ottenere.
Voglio fare una pausa dalle attuali proteste e farti una domanda più personale. Mi raccontavi che sei nato a New York da genitori egiziani. Qual è stata la tua esperienza crescendo come arabo americano durante gli anni della guerra al terrorismo e come ha plasmato il tuo rapporto con la lotta palestinese?
La mia famiglia non era affatto politicamente impegnata. Quando erano in Egitto, era una storia molto diversa. Ma penso che venendo in America, affrontando molta repressione, sia in Egitto che negli Stati Uniti, soprattutto nei primi anni 2000 fino a oggi, affrontando le conseguenze dell’11 settembre, della guerra al terrore, dell’occupazione dell’Iraq, e della guerra civile siriana. Il Medio Oriente è stato un punto focale per la politica estera americana degli ultimi decenni e. qualsiasi sia il punto focale, ha effetti a cascata sul razzismo nella società americana. Quindi essere arabi è sempre stato un tabù nella mia infanzia. I miei genitori mi dicevano perfino di non definirmi arabo perché aveva questa connotazione ostile nei confronti dell’America e, sai, questo era il nostro paese ora e dovevamo integrarci, dovevamo essere uguali. Quindi c’è stata una grande spinta nella comunità in cui sono cresciuto per isolarci da quelli intorno a noi e questo non è affatto il caso in Egitto stesso dove tutti, tranne il governo, sono totalmente a favore della causa palestinese.
Nella diaspora negli Stati Uniti e, più ampiamente nell’Occidente, è difficile identificarsi con questo perché significa esporsi a un rischio maggiore. Penso che il mio risveglio sia stato durante la scuola media e superiore, a causa de razzismo che stavo subendo. Ne ho avuto abbastanza, e ho rifiutato di assimilarmi, ho rifiutato di abbassare la testa e ho deciso di andare avanti. E una volta che ho preso coscienza della mia oppressione, ho dovuto necessariamente prendere coscienza dell’oppressione degli altri. Ho iniziato a protestare e lottare per le vite degli afro-americani, contro l’odio verso gli asiatici o l’odio verso gli ispanici o gli immigrati da qualunque parte venissero. E di conseguenza anche per i Palestinesi. Sono un altro popolo che sta affrontando una fusione estrema di razzismo e oppressione. E non è perché sono arabo che scelgo di lottare per i Palestinesi, è perché i Palestinesi sono oppressi e lo sono anche io. E sono in grado di riconoscere questa oppressione condivisa.
Mi pare che sempre più giovani americani sembrino riconoscerlo. Ho partecipato alle proteste qui a Washington dall’inizio del genocidio e, devo ammettere, sono rimasto sorpreso da quanto sia grande il sostegno per il movimento palestinese. Sono un po’ più vecchio di te e storicamente ho sempre visto gli Stati Uniti e la società americana come profondamente e prevalentemente filosionisti. Ma stiamo sicuramente assistendo a un cambiamento di opinione pubblica sulla questione argomento. Ti sorprende in qualche modo? E secondo te che cosa c’è alla base di questo cambiamento?
Non penso di essere sorpreso necessariamente dal cambiamento di sostegno pubblico. Penso che i social media giochino un ruolo importante. Questo è parte del motivo per cui il governo sta cercando di bandire TikTok. Le persone stanno trasmettendo in diretta i propri massacri. E questo scuote l’anima delle persone. È davvero difficile come essere umano guardare un bambino mentre viene schiacciato da un attacco aereo e vedere la sua casa crollare su di sé, o bambini che tirano fuori i propri genitori dalle macerie, o medici che vengono tirati fuori da fosse comuni con le mani legate dietro la schiena.
È molto difficile come essere umano, indipendentemente dalla tua provenienza, guardare a quello e pensare che vada bene. E sempre più persone vengono esposte a questo. Prima vivevamo in un paese dove, pre-social media, le persone potevano essere cieche alla tragedia palestinese. Le persone non vedevano le realtà sul terreno in Palestina. Ora gli viene sbattuto in faccia. Apri TikTok, apri Instagram, apri X. È inevitabile, e questo ha aperto gli occhi a molte persone. Quello che ancora non stiamo vedendo è un cambiamento nella politica estera e negli interessi politici. Parte di questo è a causa del potere della lobby sionista e di quanto è ben finanziata. E ancora una volta, segui i soldi, i soldi parlano, i politici rispondono. Ma l’altro problema è a causa di un sistema incentrato sul capitale, i politici non cambieranno per motivi morali. Più spesso che no, cambieranno perché lo status quo non è sostenibile per mantenere il proprio capitale. E questo è il motivo per cui la mobilitazione di massa è così importante. Perché a un certo punto, i numeri delle masse supereranno il peso materiale o monetario della lobby sionista. Ed è questa la lotta che stiamo vedendo in gioco adesso. Ecco perché questo è così politicamente controverso ed è per questo che stiamo vedendo una repressione così isterica da parte del governo.
Mi chiedo anche se l’ondata di proteste seguita all’uccisione di George Floyd nel 2020 abbia in qualche modo preparato la risposta che stiamo vedendo tra i giovani americani oggi. Ho l’impressione che molte delle parole chiave, molti degli slogan e molte delle fondamenta ideologiche siano state prese in prestito dal movimento Black Lives Matter. Quanto, secondo te, quell’esperienza ha preparato la tua generazione a questo tipo di risposta e quali sono le differenze tra i due movimenti?
Un aspetto che dobbiamo riconoscere immediatamente sono i legami materiali diretti tra l’oppressione degli afro-americani negli Stati Uniti per mano dello Stato e l’oppressione dei Palestinesi nella loro terra natale per mano dello Stato sionista. Le forze di polizia statunitensi sono spesso addestrate dall’esercito israeliano. Se ricordi le rivolte a Ferguson, Missouri, nel 2014 dopo la uccisione di Michael Brown, un afro-americano ucciso dalla polizia, i Palestinesi su Twitter stavano guardando quelle proteste e inviavano messaggi agli organizzatori neri negli Stati Uniti, con consigli e trucchi su come proteggersi dal gas lacrimogeno, perché quelle tattiche usate dalla polizia erano state prima provate e testate sui Palestinesi. Entrambi combattono essenzialmente lo stesso sistema solo in due luoghi diversi. Sono le stesse tattiche, la stessa formazione, la stessa militarizzazione solo usate contro due bersagli diversi.
Se vuoi parlare dell’effetto che questo ha avuto sulla nostra generazione, la maggior parte degli studenti qui era al liceo durante il 2020 dopo l’omicidio di George Floyd. È coinciso anche con il COVID. Eravamo a casa, eravamo di più sui social media, avevamo più esposizione a ciò che veniva trasmesso online e penso che abbia aiutato a rafforzare le ideologie politiche di molte persone e spingerle a essere più progressiste. In generale, per gli americani della Gen Z, penso che sia stato un momento molto importante nel loro sviluppo politico, nel nostro sviluppo politico.
A differenza di quello che sta accadendo ora però, le richieste delle proteste del 2020 non erano coerenti in tutto il paese. C’era una richiesta di giustizia, ma l’idea di che aspetto avrebbe avuto la giustizia era estremamente vaga. Mentre nelle rivolte studentesche di oggi, le richieste sono coerenti. È un elenco breve. È boicottaggio, disinvestimento, divulgazione dei finanziamenti. È un elenco molto breve e coerente in tutto il movimento. Quindi penso che questa sia la differenza principale. Nel 2020 c’era molta mobilitazione di massa, non abbastanza organizzazione dietro le quinte. Qui c’è molta organizzazione e stiamo solo recuperando con la mobilitazione di massa fino a un punto in cui sta diventando un problema per il governo.
Proseguiamo sulla questione dell’influenza e della contaminazione di altri movimenti. Questo è un movimento in gran parte guidato dalla diaspora palestinese o dai giovani americani con background musulmani o arabi, tuttavia ha trovato immediata solidarietà in una moltitudine di altri gruppi. Penso, ad esempio, ai gruppi ebraici antisionisti. Qual è stata la tua esperienza nel navigare in queste alleanze?
La solidarietà è sempre stata fondamentale per l’organizzazione pro-palestinese negli Stati Uniti. Poiché la Palestina è stata tenuta fuori dal sistema educativo pubblico, poiché è così demonizzata dal governo, da qualsiasi entità di potere in questo paese, dagli anni ’60, i Palestinesi hanno ottenuto il consenso di altri movimenti di attivisti negli Stati Uniti incentrati su un quadro di pensiero anti-establishment. Hanno ottenuto il sostegno del movimento degli indiani americani, dei Black Panthers, di tutti questi gruppi radicali di sinistra che si sono formati negli Stati Uniti negli anni ’60, ’70 e oltre.
Quindi, l’organizzazione palestinese qui, sebbene guidata dai Palestinesi nella diaspora, è sempre stata basata su un quadro di solidarietà. Ghassan Kanafani è famoso per aver detto, parafrasando, che la lotta palestinese non è solo per i Palestinesi, ma per ogni rivoluzionario nel mondo. Anche in Palestina, i gruppi di sinistra e liberazionisti cercano sempre di forgiare alleanze con altri popoli colonizzati e oppressi in tutto il mondo.
Perché, sai, alla fine sono i sistemi globali di capitalismo e imperialismo che ci stanno opprimendo tutti. Su questa presa di coscienza si è sviluppato quello che stiamo vedendo qui e ora. Abbiamo gruppi ebraici antisionisti che hanno aderito al movimento, ed è davvero importante per contrastare le accuse di antisemitismo, ma anche perché è un movimento di persone che stanno dicendo che Israele non le rappresenta, che non rappresenta la loro identità etnica o religiosa e che questa confusione deve finire.
Ma oltre alla sola comunità ebraica antisionista, ci sono un sacco di attivisti afro-americani, un sacco di attivisti indigeni, un sacco di attivisti latinos, irlandesi, asiatici, vietnamiti, indiani, persone da tutto il mondo che riconoscono paralleli nelle loro lotte e sentono che è importante sottoscrivere anche la lotta palestinese. Perché la Palestina è davvero uno degli ultimi e principali bastioni coloniali nel mondo. La maggior parte dei luoghi ex colonizzati si trova ora a dover fare i conti con sistemi di neocolonialismo tramite istituzioni finanziarie come il FMI o la Banca Mondiale. Con la Palestina, si tratta davvero di un sistema diretto, tangibile e in evoluzione di colonialismo di insediamento.
Prima di concludere, hai detto come non sappiamo per quanto tempo ancora potrebbe durare questa occupazione. L’anno accademico sta per finire. Realisticamente, quali sono i prossimi passi nel immediato breve termine per il movimento studentesco?
Penso che sia ingenuo aspettarsi che le nostre richieste vengano soddisfatte entro una settimana. Tuttavia, penso che in termini di prossimi passi tangibile, fin dal primo giorno, il nostro team di negoziazione è stato pronto a incontrarsi uno a uno con la presidente di George Washington, Ellen Glamberg. Continuiamo a estendere a lei quell’invito a sedersi al tavolo, a negoziare, a giungere a un accordo per ottenere almeno alcune delle nostre richieste o per creare un piano per soddisfarle. Ma spetta a lei accettare quell’invito. Non abbiamo intenzione di andarcene finché quella porta non si aprirà, non abbiamo intenzione di andarcene finché lei non ci incontrerà. E poi continueremo a protestare finché tutte le nostre richieste non saranno soddisfatte.
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