di Beppe Caccia
nella
stagione che si sta aprendo in Europa, potrebbe essere giocata la scommessa
sulla relazione virtuosa, di reciproco volano tra istituzioni costituite e
nuovi istituti del comune: la sperimentazione di che cosa potrebbe significare,
sul serio, un movimento costituente
Nella
finestra di possibilità trasformativa che si è aperta per tutti noi in Europa,
abbiamo bisogno di forte mobilitazione sociale, ma certo non di propaganda. Per
questo, di fronte al braccio di ferro ingaggiato dal governo Tsipras con “il
regime della crisi” che da cinque anni ingabbia il nostro spazio continentale e
di fronte alla spinta della nuova Puerta del Sol del 31 gennaio scorso,
dobbiamo provare a contribuire alla più lucida comprensione di “come” sono nati
e “come” funzionano oggi i dispositivi politici che nominiamo Podemos e Syriza.
Provo qui a indicare alcune parziali piste di lavoro, a partire dall’intervallo
tra la pubblicazione di due testi di Pablo Iglesias Turrion, in cui può
situarsi la genealogia di Podemos, quel benvenuto fenomeno d’innovazione
politica che debordando i confini dello Stato spagnolo turba, insieme al
governo greco, le veglie e i sonni delle oligarchie di tutta Europa.
La disobbedienza, “futuro anteriore” del 15M e delle piazze spagnole
Il
primo libro è Disobedientes. De Chiapas a Madrid, pubblicato nel
2011 a Madrid da Editorial Popular, all’indomani del 15M di Puerta del Sol e mentre
le piazze iberiche ancora ribollivano di moltitudini indignate. Aperto da un
prologo di Luca Casarini, il testo nasce dall’originale tesi di dottorato in
cui Iglesias combina ricostruzione storica e analisi politologica della realtà
delle Tute bianche prima e dei Disobbedienti poi, all’interno del ciclo di
movimento di critica della globalizzazione neoliberista, con la propria
personale esperienza di attivista, studente Erasmus a Bologna e Padova in
quegli anni cruciali, presente alla contestazione del FMI a Praga nel settembre
2000 e poi a Genova nelle giornate del G8 2001, impegnato infine nel tentativo
di esportare in Spagna il modello della “disobbedienza all’italiana”.
Per
Pablo il terreno dell’azione comunicativa è decisivo: “I disobbedienti
scoprirono un meccanismo politico di produzione di senso adeguato a un tempo
dominato dalle tecnologie della comunicazione. Furono capaci di creare simboli
che, nel bene e nel male, si sono dimostrati storicamente imprescindibili per
l’esito dell’azione collettiva”. Qui egli individua tra le Tute bianche uno
degli elementi di anticipazione del ciclo dei movimenti “occupy” nelle piazze
di dieci anni dopo: “Non solo posero la necessità di costruire scenari di
comunicazione politica a partire dal conflitto, riconfigurando la disobbedienza
civile e adattandola a le nuove tendenze culturali e militanti proprie dello
sviluppo postfordista in Europa. Ma segnalarono anche una possibilità
strategica per i settori della sinistra radicale europea che non vedevano
ancora chiaramente la possibilità di scommettere sulla forma partito, né
intendevano accomodarsi nella marginalità o nella fuga verso “il sociale” e “il
solidale”. I disobbedienti dimostrarono invece che era possibile fare politica
sullo scenario globale senza essere un partito, e che si può stare al centro
del confronto senza farsi cooptare dal sistema rappresentativo”. È in sostanza
la fortunata coniugazione di “conflitto e consenso”, come si diceva in quegli
anni, che consente a Iglesias di affermare come, nella ricostruzione di un
ideale fil rouge, “il 15M abbia fatto sì che tutti questi eventi
non appartengano al passato ma, in ogni caso, a un futuro anteriore”.
Dalla “Transición” post-franchista alla “crisi di regime”
Il
secondo testo di Pablo Iglesias è molto più recente: Disputar la
democracia. Politica para tiempos de crisis è stato pubblicato negli
ultimi mesi del 2014 da Ediciones Akal, a poche settimane dalla prima
sorprendente affermazione di Podemos nelle elezioni europee del maggio scorso.
Qui, a rendere evidente un legame forte, costituente, l’introduzione è affidata
ad Alexis Tsipras. E lo scenario è ben differente: Pablo ammette che, se
l’obiettivo iniziale (estate 2013) del libro era dar conto delle riflessioni di
un giovane professore universitario divenuto famoso prima in rete, poi nei
media mainstream, per i commenti politici che offriva dal piccolo schermo, ora
si tratta invece di discutere del punto di vista del portavoce di una forza
politica, che gli ultimi sondaggi accreditano come maggioranza relativa tra
l’elettorato spagnolo. Il testo, pensato e scritto diversamente da certi nostri
(tribali e gergali) incunaboli per essere letto e compreso da un pubblico
vastissimo, è diviso in tre parti. Quella centrale offre un’interessante
ricostruzione dell’ultimo secolo di storia dello Stato spagnolo, individuando
quelle invarianti di lunga durata che marcano indelebilmente la cosidetta
“Transición”, dalla dittatura franchista al nuovo regime democratico sotto la
tutela della monarchia. Sono le parole di un altro protagonista di Podemos,
Juan Carlos Monedero, a suggellare il giudizio su questa fase storica: l’ampio
consenso partitico “si sarebbe incaricato di incanalare queste istanze [di
resistenza sociale] in maniera funzionale a un sistema che aveva come obiettivo
principale una nuova restaurazione borbonica, tale da garantire l’inserimento
della Spagna in ambito europeo al minor costo possibile per l’impresa e la
finanza.” Qui si collocano del resto, secondo Iglesias, le responsabilità delle
sinistre storiche iberiche, al pari di quelle italiane guidate da “un istinto
strategico per la conservazione”.
Anche
per queste ragioni, cinque anni di gestione capitalistica della crisi, su scala
europea, sono tra i fattori che determinano nello Stato spagnolo una vera e
propria “crisi di regime”, il progressivo collasso del regime della Transizione
post-franchista. E l’emergere, nel cuore di questa crisi, di una “grande
coalizione” di fatto che lega gli interessi dominanti, ai vertici delle imprese
capitaliste, nei maggiori partiti (Popolari e Socialisti), nel sistema dei
media, negli apparati di sicurezza. Una struttura di potere, tenuta assieme
dalla “corruzione come forma di governo” e impegnata ad assicurare livelli di
diseguaglianza mai raggiunti prima nella ripartizione della ricchezza sociale.
È questa che Pablo chiama la “casta”, identificandola con la sezione nazionale
del “Partito di Wall Street”, cioè attribuendole una valenza ben diversa da
quelle che echeggiano alle nostre longitudini.
La contesa intorno alla democrazia: come socializzare ai molti il potere
Del
resto è a una concezione della politica, erede della migliore tradizione
materialista del “realismo”, che la prima parte del libro di Iglesias invita a
guardare. “Il potere nascerà sempre dalla canna del fucile” è convinto il
portavoce di Podemos, ma nel nostro tempo bisogna essere capaci di vedere la
politica come una “partita a scacchi, cominciata da lungo tempo nella quale, a
partire da alcune regole date e nonostante i pezzi non siano stati distribuiti
sulla scacchiera in modo equo, è necessario dimostrare abilità e astuzia per
giocare con i mezzi di cui si dispone”. Oggi in Europa del Sud sarebbe ben
complicato intendere in altro modo la politica, “senza perdere mai di vista il
fatto che i potenti non rinunceranno a tutti i loro privilegi quand’anche
fossero sconfitti al tavolo degli scacchi”, ma dovranno un giorno “cadere sul
ring della boxe”. Questo è anche il senso dell’approccio alle istituzioni
politiche realmente esistenti, che non vanno concepite come organismi
monolitici, esclusivamente rappresentative dei poteri costituiti. “Al contrario
– insiste Iglesias – possono risultare decisive per nuove conquiste
democratiche e sociali.” Lo si è visto nell’esperienza del Welfare state
europeo, così come oggi in molti paesi dell’America Latina dove “gli
spostamenti verificatisi nei rapporti di forza all’interno delle
istituzioni statali sono una delle chiavi dell’azione politica trasformatrice.”
Curiosamente,
in questi due volumi, il contributo di Ernesto Laclau non viene mai
esplicitamente citato. Per l’importanza che questo pensatore ha per tutto il
gruppo dirigente di Podemos, potremmo parlare a ragione di una lacaniana
“casella vuota”. Ma avremo occasione di tornare altrove su potenzialità e
limiti di questa cruciale relazione teorica. Non manca invece l’insistenza sul
concetto gramsciano di “egemonia”: proprio a partire dalla propria personale
esperienza di personaggio televisivo di rottura, Pablo sottolinea come egemonia
significhi l’esatto contrario di dominio, ma la conquista di un potere culturale
capace di sovvertire lo stesso linguaggio performativo dei dominanti, agendo
sul “grande dispositivo mediatico della contemporaneità, il più importante per
determinare che cosa pensi la gente”, che al di là di tanta chiacchiera
sull’uso sociale della rete (decisiva invece per l’organizzazione di movimento
e forza politica), è e resterà a lungo la televisione. La coppia dicotomica
“pro-sistema / antisistema” si presta bene a questo punto ad argomentare questo
intervento contro-egemonico sul linguaggio: seguendo la lezione di Immanuel
Wallerstein, “le caratteristiche positive unanimemente attribuite oggi alla
democrazia sono state il frutto esclusivo dell’azione storica dei movimenti
antisistemici”, così come chi si qualifica “pro-sistema” sono “i difensori di
un sistema che persegue fondandosi nella protezione dei privilegi di una
minoranza di fronte ai diritti della maggioranza”.
Syriza – Podemos: genalogie differenti ma convergenti
Se,
come Iglesias ci ricorda, il cuore di qualsiasi discorso realista sulla “lotta
democratica” non sta nel formalismo dello Stato di diritto, ma nella permanente
contesa intorno al “processo di socializzazione del potere”, cioè alla sua
distribuzione sociale, tra il voto della Grecia del 25 gennaio scorso e le
prossime consultazioni spagnole, ci giochiamo tutti la possibilità democratica
in Europa.
Syriza
e Podemos hanno genealogie differenti, come noto. Nel caso spagnolo,
l’intuizione soggettiva di un gruppo di attivisti di impiantare una proposta
politica verticale sull’orizzontalità dei movimenti, senza minarne l’autonomia.
Non “rappresentando” le Plazas e le Mareas, ma assumendone fino in fondo i
contenuti, trasposti in un maturo programma politico. Interpretando con
spregiudicatezza la crisi della democrazia spagnola, il rifiuto massificato
della corruzione, la diffusa delegittimazione della “casta” non come deriva
rancorosa, moralista e giustizialista (e perciò funzione di blocco di ogni
possibile cambiamento), ma come terreno di costruzione di un consenso
maggioritario per la giustizia sociale. Piegando a questo obiettivo linguaggio
e forme del “populismo”; assumendo in tutta la sua problematicità la parola
d’ordine “né di destra, né di sinistra”, come premessa necessaria per
riattribuire dignità sostanziale a una politica di sinistra, che si saturasse
programmaticamente dei contenuti delle lotte sociali.
Vi
è tuttavia più di elemento di convergenza, al di là della comune speranza che
sono in grado di evocare: Syriza e Podemos sollevano con indispensabile forza
la questione del “governo”, cioè dell’esercizio del potere necessario per
mettere in discussione le politiche neoliberiste e scardinare la dominante
gabbia dell’austerity. Con la consapevolezza che “vincere le elezioni – ricorda
a se stesso prima che a tutti noi Pablo Iglesias – non significa affatto
conquistare il potere”. Che la dimensione globale e assoluta, fluida e
onnipervasiva del capitalismo finanziario, la complessità multifattoriale di
ogni processo di decisione politica, tanto più se orientato al cambiamento, non
consentono illusioni.
Le chances di
tali prospettive sono in larga misura affidate proprio al loro grado di
apertura, cioè se prevarrà la volontà politica di sfuggire a quella legge dei
“vasi comunicanti” per cui a un pieno dell’azione governativa debba per forza
corrispondere il vuoto dei conflitti, il loro addomesticamento e
neutralizzazione, o vice versa. Per la prima volta, nella stagione che si sta
aprendo in Europa, potrebbe essere giocata la scommessa sulla relazione
virtuosa, di reciproco volano tra istituzioni costituite e nuovi istituti del
comune: la sperimentazione di che cosa potrebbe significare, sul serio, un
movimento costituente.
Il
punto che pare unificante e cruciale per questi due solidi “spettri che si
aggirano per l’Europa” sta proprio nel salto di paradigma che ci propongono,
abbandonando lo stantio dibattito, datato primi anni Duemila, sulla relazione
tra movimenti sociali e partiti, sulle “alleanze” e, in ultima analisi, sul
rapporto dei primi con la rappresentanza politica. Al centro della scena si
mostra invece distintamente una ben più aperta e produttiva dialettica,
intrinsecamente politica, tra dinamiche sociali reali e funzioni di governo. Se
infatti assumiamo quest’ultimo paradigma, siamo su un terreno del tutto altro
rispetto a quello che, per via rappresentativa, riconduce forzatamente al nesso
con la sovranità e tutti i vizi della moderna forma Stato. Diversamente da
questa le funzioni di governo esprimono una permanente, e irresolubile tensione
tra “governanti” e “governati”, il rinvio a un’originaria pluralità di soggetti
e d’interessi, irriducibili all’Uno del Popolo sovrano. Prima di ripetere
qualche formuletta, che si pretenderebbe salvifica per le nostre anime, o
cercare di riprodurre qualche modellino per risollevare i destini della
“sinistra italiana”, varrebbe forse la pena interrogarsi a fondo su questo
nucleo incandescente di verità e novità, che proprio i dispositivi Syriza e
Podemos mettono sotto il nostro naso.