lunedì 31 marzo 2014

Sul reddito di base incondizionato. Intervista a Philippe Van Parijs

a cura di Mouvements.info
Philippe Van Parijs,  filosofo ed economista belga, è nel panorama internazionale tra gli intellettuali più  attivi nella campagna per il Reddito di base incondizionato. Un tema fondamentale questo che attraversa il dibattito dei movimenti antagonisti che promuovono istanze di accesso al reddito sganciato dal rapporto di scambio Capitale/Lavoro e dalla forma salario come chiave di accesso  alla distribuzione della ricchezza. Un diritto universale rivendicato legittimamente in nome della cooperazione sociale che sottende al modello di produzione generale e sussunta dall’economia capitalista globalizzata 
Mouvements: Lei è uno dei principali sostenitori del reddito di base incondizionato nel mondo, com’è arrivato a difendere questa idea?
Philippe Van Parijs: Risale al 1982. Ci sono arrivato per due vie. La prima partiva dall’urgenza di proporre una soluzione ecologicamente responsabile alla disoccupazione. Vi era una disoccupazione molto importante in Belgio, e anche quando la congiuntura era buona, la disoccupazione non diminuiva. Per la grande coalizione dei padroni e dei sindacati, della sinistra e della destra, non vi era che una soluzione per risolvere questo problema: la crescita. Più precisamente, un crescita il cui tasso doveva essere più elevato del tasso di aumento della produttività, esso stesso elevato. Per degli ecologisti, tuttavia, una corsa accelerata alla crescita non poteva rappresentare una soluzione. È in questo contesto che mi è venuta l’idea di un reddito universale, che proposi allora di battezzare allocazione universale in modo da suggerire un’analogia con il suffragio universale.
Un tale reddito separa parzialmente il reddito generato dalla crescita e il contributo a questa crescita. Deve consentire di lavorare meno a quelle persone che lavorano troppo, liberando così degli impieghi a favore di altre persone che invece non trovano lavoro. Un reddito universale è una sorta di tecnica agile di redistribuzione del tempo di lavoro che affronta il problema della disoccupazione senza dover puntare su una corsa folle alla crescita.
La seconda via che mi ha condotto all’allocazione universale è più filosofica. All’inizio degli anni ’80, molte persone che, come me, si situavano a sinistra, si rendevano conto che non aveva più alcun senso vedere nel socialismo e la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, il futuro desiderabile del capitalismo. Si cominciò allora a riconoscere pienamente che se i regimi comunisti non avevano risposto alle speranze immense che avevano fatto nascere, non era per delle ragioni puramente contingenti. D’altra parte, era importante ai miei occhi riformulare una visione del futuro che potesse entusiasmare, farci sognare, mobilitarci. Ora, il reddito universale e incondizionato non è forse interpretabile come una via capitalista verso il comunismo, inteso come una società che può scrivere sul proprio vessillo: “da ognuno (volontariamente) secondo le sue capacità, a ciascuno (incondizionatamente) secondo i suoi bisogni”?
Una società di mercato dotata di un’allocazione universale può in effetti essere compresa come una società nella quale una parte del prodotto è distribuita secondo i bisogni di ciascuno, eventualmente variabile in funzione dell’età e integrabile a beneficio di certe persone che hanno dei bisogni particolari, per esempio di mobilità. Più questo reddito universale è elevato, più il contributo di ognuno alla società è un contributo volontario, motivato dall’interesse intrinseco all’attività svolta piuttosto che dal bisogno di guadagnarsi da vivere. Più la parte del prodotto distribuita sotto forma di reddito incondizionato è grande, più ci si avvicina a questa società “comunista”, intesa come una società in cui l’insieme della produzione è distribuito in funzione del bisogno anziché in funzione dei contributi. Se, da allora, ho scoperto numerosi predecessori, non ho ancora trovato alcun problema decisivo che mi abbia condotto ad abbandonare questa idea. Ho letto e ascoltato migliaia di obiezioni e ho rapidamente acquisito la convinzione che la più seria non sia di natura tecnica, economica o politica, bensì di natura etica, e a questa ho tentato di rispondere in Real Freedom for All.

sabato 29 marzo 2014

Alzare il tiro. Lettera aperta al cd di ACTA

di Sergio Bologna

L'Associazione Consulenti Terziario Avanzato-ACTA deve alzare il tiro o, possibilmente, spostarlo. “Parlando solo di diritti dei lavoratori autonomi rischia di farsi liquidare come una tribù in via di estinzione, un’etnia da rinchiudere in una riserva... deve dialogare, deve cercare alleanze con tutto ciò che sa di innovazione, lo deve cercare all’interno del mondo dell’impresa, lo deve cercare anche tra quei servitori dello stato che, spesso isolati da tutti e umiliati dalla loro stessa amministrazione, difendono i beni collettivi, lo deve cercare in quel che resta del mondo della cultura e della scienza”

Carissime/i
la discussione che si è aperta in questi giorni sulle politiche del lavoro del governo Renzi ci ha dimostrato una volta di più l’ottusa resistenza che gli ambienti politici, accademici e sindacali – tranne alcune eccezioni – continuano ad opporre ad una visione moderna del lavoro. Mentre il Parlamento Europeo, che non è l’istituzione più vicina ai cittadini, dichiara a larga maggioranza che i freelance hanno gli stessi diritti sociali dei lavoratori dipendenti, le nostre classi dirigenti ripropongono uno schema che riconosce come “lavoro” solo il lavoro dipendente oppure le varie forme in cui il lavoro dipendente può essere reso “flessibile”. Deplorevole di questo atteggiamento non è tanto – o non solo – il disconoscere l’esistenza di altre forme di attività lavorativa quanto il persistere di una politica di flessibilizzazione del lavoro dipendente che ha portato al declino del nostro paese ed a una disoccupazione giovanile del 42%. Non è vero che il nostro paese è fatto di garantiti e non garantiti, di tutelati e non tutelati, magari fosse così!
È  fatto di non tutelati e di lavoratori che stanno perdendo gradatamente le loro tutele, se non di diritto, certamente di fatto. E’ dai tempi del “pacchetto Treu” che si professa il dogma della flessibilità all’entrata come rimedio alla disoccupazione. Dopo vent’anni che questo assioma ha prodotto i disastri che sono sotto gli occhi di tutti, il governo Renzi rincara la dose, eliminando ogni causale dalla ripetizione dei contratti a tempo determinato (Forti critiche a queste misure sono state espresse da molte parti, tra gli altri da Tito Boeri su la voce.info e da Chiara Saraceno su ingenere.com). Sono vent’anni che Confindustria, contrastata flebilmente dal sindacato (per usare un eufemismo), ci dice che il costo del lavoro per unità di prodotto è il più alto d’Europa e quindi la produttività del lavoro in Italia è al penultimo posta nella UE. Ma la produttività del lavoro dipende dagli investimenti, soprattutto nell’epoca delle nuove tecnologie informatiche. La percentuale costituita da investimenti tecnici del capitale delle società italiane quotate in Borsa, secondo lo studio di Mediobanca sui conti economici di 2035 imprese italiane, è pari al 28,0%, la percentuale destinata ai dividenti è pari al 30,9% e la percentuale destinata gli investimenti finanziari è pari al 25,4% (Indagine Mediobanca 2013 “Dati cumulativi di 2035 imprese italiane”, su www.mbres.it). Quasi un terzo del capitale disponibile se lo sono mangiato gli azionisti, un quarto i signori della finanza (leggi le banche), solo un residuo è stato investito nell’azienda. Le imprese non quotate, in mezzo alle quali si nasconde la parte più “sana” dell’imprenditoria italiana, hanno destinato un’eguale quota agli impieghi finanziari, ma poco meno del 20% ai dividendi e il 59,6% agli investimenti tecnici. Da vent’anni la grande impresa italiana non assume, da qualche anno ha smesso di assumere anche la media impresa. Chi crea lavoro è la piccola e la microimpresa, spesso forma, quest’ultima, di “lavoro autonomo con un minimo di organizzazione”, così definito da una giuslavorista acuta e brillante come Orsola Razzolini. Ma non basta. Le grandi imprese non solo si sono mangiate i soldi invece di reinvestirli, ma la quota maggiore del loro fatturato, addirittura il 61% (dato del 2012), lo hanno realizzato estero su estero, grazie ad un’attività sfrenata di delocalizzazione cui si sono dedicate soprattutto le industrie del made in Italy. Queste sono le imprese, è bene notarlo, che maggiormente hanno goduto della Cassa Integrazione, sono le imprese che più di altre intrattengono stretti rapporti con il mondo della finanza, da queste imprese nascono le lobbies che dettano ai governi le politiche del lavoro (Come se non bastasse, le assurde ricette per il rilancio economico e le trovate della Commissione Europea gettano altra benzina sul fuoco che divora la nostra società (v. le osservazioni di Radrik, L’Europa e le ricette sbagliate su sbilanciamoci.info del 18 marzo e le dure parole di simplicissimus su networkedblogs.com del 21 marzo in merito al progetto di prelievo forzoso delle entrate tributarie per pagare il fiscal compact).
Ora, io mi chiedo: sono solo i lavoratori autonomi, i professionisti con partita Iva ai quali si sputa in faccia con un disprezzo pari all’ignoranza della loro condizione oppure sono milioni di lavoratori dipendenti e di precari che vengono trattati al pari di un bagaglio ingombrante?

Quello che il Jobs Act non dice

di Alessandro Brunetti*

La vicenda dei contratti a termine è interessante. Si parte da un assunto non detto ma assolutamente evidente: la precarietà è una condizione generale che è destinata ad abbracciare tutta la vita lavorativa e non solo la fase di inserimento nel mondo del lavoro. 
Dalla favole del rottamatore alla dura realtà dei provvedimenti contro i precari

La cifra del giovane Renzi incomincia ad assumere contorni ogni giorno più chiari. Un agire politico in due fasi, prima le immagini semplici ed evocative, che promettono che tutto andrà bene, poi l’azione di governo che nulla ha a che fare con la favola. Il parto finale (quantomeno in materia di lavoro) è un topolino. Un topolino mannaro che divora diritti soggettivi e dignità.
Al momento, a proposito del famoso Jobs Act, abbiamo davanti esclusivamente un comunicato stampa della Presidenza del Consiglio dei Ministri che ci informa della prossima emanazione sia di un Decreto Legge che di un Disegno di Legge. Due strumenti normativi assolutamente diversi tra loro. Uno abusato, certo e immediato, in quanto sottratto a ogni confronto parlamentare; mentre l'altro il più delle volte si traduce in una mera dichiarazioni di intenti, impallinato dai veti incrociati (in un governo di larghe intese poi figuriamoci) e sottoposto al volere discrezionale del Ministro di turno. È evidente che, rispetto ai contenuti del Jobs Act anticipati a mezzo stampa, “dove metti cosa” ci dice chi sei e che priorità hai. Nel Decreto legge non ci sarebbe traccia di riforma degli ammortizzatori sociali, di abolizione della pletora dei contratti iperprecari oggi a disposizione delle aziende, nessun contratto unico a tutele crescenti, nessuna rimodulazione dell'Aspi (la nuova indennità di disoccupazione) per estenderla anche ai contratti a progetto, di una via universale alla maternità. Il qui e ora del Decreto Legge, piuttosto, focalizza un'urgenza che nulla ha a che fare con il plurievocato contratto unico: ci sono soltanto due interventi in materia di Contratti a termine e di Apprendistato.
Entriamo nel merito. La vicenda dei contratti a termine è interessante. Si parte da un assunto non detto ma assolutamente evidente: la precarietà è una condizione generale che è destinata ad abbracciare tutta la vita lavorativa e non solo la fase di inserimento nel mondo del lavoro. Non c'è più bisogno di fidelizzare, formare e inserire nella propria compagine aziendale proprio nessuno. Il “precario massa” entra ed esce dal mercato del lavoro con un bagaglio di competenze sempre più qualificato, aggiornato e competitivo. Altro non serve. Si passa continuamente da una situazione lavorativa a un'altra e, ogni volta, nella pluralità di queste "occasioni" di lavoro formale o informale, si acquisiscono ulteriore formazione e affinamento. Questo comporta per le imprese la condizione ottimale per sfruttare il turn over continuo. Ed ecco dunque che la fonte del profitto passa per la possibilità di poter assumere liberamente e sbarazzarsi, altrettanto liberamente, del proprio organico (si hanno percentuali da brivido se viste con gli occhi di trent’anni fa).
Il legislatore del 2001 (Dlgs 368/01) ha provato a muovere la prima mossa contro l'istituto ritenendo la disciplina normativa previgente (L.n. 230/62) troppo rigida. Per una rara eterogenesi dei fini l'operazione non è andata in porto, in quanto la Direttiva 1999/70/CE, in strumentale applicazione della quale si è introdotta la norma, ha imposto delle interpretazioni giurisprudenziali restrittive tali da vanificare il tentativo di liberalizzazione. Il secondo assalto viene mosso con la Legge Fornero (L.n. 92/12) con la quale è per la prima volta introdotta la possibilità di stipulare il primo contratto di durata (per un massimo di un anno) come "acausale": vale a dire che non viene più richiesta alcuna motivazione in grado di giustificare la durata del termine, viene cioè scardinato il perno del vaglio di legittimità del contratto di durata, offrendo così l'occasione alle aziende di esercitare un profittevole turn over su base annua. L’acausalità implica la possibilità di stipulare un contratto di durata al di là di qualsivoglia ragione temporanea che ne giustifichi il ricorso. Anche il più stabile dei lavori può dunque essere oggetto di un contratto di durata sottoponendo al ricatto della scadenza chi vi è inquadrato. Tutto ciò andando in frontale conflitto con la Direttiva europea sopra richiamata, la quale ha espressamente previsto l’eccezionalità del contratto a termine (rispetto a quello a tempo indeterminato) e la necessità di disporre misure antifraudolente contro l’abuso. La direzione intrapresa ha quindi l’evidente effetto di erodere segmenti di lavoro potenzialmente stabile e di incentivare dinamiche sostitutive dei lavoratori a tempo indeterminato (agevolate peraltro dalla fortissima attenuazione dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, ancora grazie alla stessa riforma Fornero che “lubrifica” le espulsioni).

Jobs Act: Renzi, Poletti e il fantasma dello sceriffo di Nottingham

di Gianni Giovannelli

In barba alle direttive europee e al principio che il contratto di lavoro di riferimento è quello subordinato a tempo indeterminato, le misure del governo Renzi, liberalizzando totalmente il contratto a tempo determinato e l’apprendistato, rendono il contratto a termine (sino a tre anni, rinnovabile ben 8 volte) l’architrave del mercato del lavoro e ne sancisce la definitiva precarizzazione. Oltre a rendere la precarietà giuridicamente strutturale (già lo è nella realtà) pone una serie di questioni rilevante in tema di rappresentanza. Come reagire?

È stato pubblicato in data 20 marzo sulla Gazzetta Ufficiale, con la firma di Re Giorgio, il decreto legge numero 34/2014. E’ senza alcun dubbio la più violenta aggressione ai diritti dei lavoratori di questi ultimi anni, nessun governo di destra aveva mai osato tanto; nessuna legislazione europea contiene una liberalizzazione così ampia e totale del contratto a tempo determinato, che diventa di fatto la forma ordinaria delle assunzioni, in palese contrasto con la direttiva 99/70 dell’Unione.
Napolitano e Poletti, due ex comunisti, si sono prestati a colpire, con la complicità dell’ambizioso  Matteo Renzi, i ceti deboli e precari, istituzionalizzando il ricatto e la minaccia che accompagnano la condizione precaria, unico possibile accesso al lavoro e al reddito. La scelta autoritaria (repressione e cancellazione delle tutele) caratterizza il governo delle larghe intese, privo ormai anche di investitura popolare, e tuttavia deciso ad evitare perfino il passaggio parlamentare.
È necessaria una riflessione sullo stato della democrazia rappresentativa in Italia, quale necessario strumento di lettura del decreto (di immediata attuazione, dunque già ora in vigore). Il Partito Democratico, senza i voti di SEL, non avrebbe il premio di maggioranza, ma SEL è confinata all’opposizione; 5 Stelle (la sigla più votata) è contro il governo; della destra coalizzata Lega e Forza Italia di dicono contrari. Il voto di fiducia è frutto di una legge elettorale che la Corte Costituzionale ha deliberato illegittima (contro la Carta) e di una ennesima variante del trasformismo italiano. La compagine di governo impone con la prepotenza le ragioni di chi ha deciso di allargare la forbice ricchezza/povertà, di espropriare la fascia debole per risolvere la propria crisi.
L’articolo 1 del decreto consente di assumere a termine, sempre e senza alcuna reale motivazione, sia direttamente sia utilizzando le agenzie di somministrazione. Ogni impresa è libera di scegliere fra assunzione stabile e assunzione precaria; dunque viene di fatto cancellata dal nostro ordinamento (per almeno un triennio) qualsiasi assunzione a tempo indeterminato (quale imprenditore, se non uno scemo destinato al fallimento, potrebbe scegliere un contratto meno favorevole, potendo evitarlo?). Il testo va letto con attenzione. Il limite del 20% è una soglia insuperabile, perché riferita all’intero organico: in un periodo di licenziamenti e di riduzione dell’organico la quota di fatto copre qualsiasi nuovo ingaggio. La cancellazione della causale (intesa come requisito necessario e oggettivo per l’utilizzo del contratto a termine) consente inoltre operazioni di sostituzione di lavoratori licenziati (anche con procedure collettive) con altri meno costosi e garantiti; basta, secondo l’articolo 3 del decreto 368/2001, munirsi di accordo aziendale o anche semplicemente modificare l’inquadramento (le stesse mansioni sono un concetto in fondo assai sfuggente nelle società di capitalismo avanzato).
Il nuovo testo consente l’assunzione, e successivamente ben otto proroghe; ma, attenzione, nell’ambito dei 36 mesi di utilizzo massimo, niente impedisce all’impresa (con il solo breve intervallo dell’articolo 5 del decreto 368/2001 e facendolo magari coincidere con le ferie) di fare due o tre o quattro contratti, ciascuno con otto proroghe. L’unico limite rimane quello dell’articolo 5 del decreto, i 36 mesi con una pluralità di contratti. Ma per 36 mesi di effettivo lavoro (escluse le pause fra un contratto e l’altro) ogni impresa può frazionare l’utilizzo anche in quote mensili o bimestrali. Mi spiego: di mese in mese posso decidere (per otto volte) se prorogare o meno, comunicandolo all’ultimo a chi lavora (e lasciandolo nella costante incertezza, dunque rendendo stabile la condizione precaria in luogo di rendere stabile l’aspettativa di retribuzione). Se invece di prorogare l’impresa decide di sospendere il rapporto per qualche settimana (o per accompagnare la produzione in forma flessibile o per punire o per semplicemente consentire la rotazione di un serbatoio), potrà poi stipulare liberamente un nuovo contratto, ancora con otto proroghe. Questo perverso meccanismo introdotto da Poletti&Renzi risolve anche, in prossima prospettiva il problema del trattamento di maternità: basta non prorogare il contratto alla lavoratrice in gravidanza (o non stipulare quello successivo) e l’impresa si evita spiacevoli maternità a rischio, assenze facoltative, divieti di licenziamento fino al compimento di un anno (ed anche in caso di matrimonio, basta attendere la più vicina scadenza e tanti saluti alla sposa!). Abbiamo scritto delle lavoratrici madri; ma con il frazionamento si cancellano di fatto anche le tutele per chi incorra in infortunio, chi sia vittima di malattia. Con lo spirare del termine (frazionato e sempre ravvicinato) l’impresa si libera di un peso, senza renderne conto a nessuno. La forma del contratto a termine, nel limite di 36 mesi complessivi, può essere indifferentemente quella dell’ingaggio diretto come della somministrazione a mezzo di agenzia d’intermediazione.

domenica 23 marzo 2014

7/ RASSEGNA W.I.P. 03

Sommario

di Enzo Traverso
da guastafeste e intelligenza critica che afferma la verità contro il potere – l’intellettuale- si è progressivamente trasformato in “esperto” al servizio dei potenti e specialista della comunicazione. In questo nuovo paesaggio segnato dalla fine delle utopie, dalla svolta conservatrice degli anni Ottanta e dalla mercificazione della cultura, il pensiero dissidente non è però scomparso. Ora per inventare nuove utopie gli intellettuali dovranno uscire dai loro ambiti specialistici e ritrovare un atteggiamento universalista.

di ∫connessioni precarie
Dopo il caso di Silvia Guerra, l’artista e cittadina italiana da tempo residente a Bruxelles che è stata espulsa perché considerata un peso per il welfare belga, abbiamo iniziato a ripensare in che modo l’Europa sta riconfigurando i suoi confini e come la questione della mobilità si colloca in tale scenario. L’affaire-Guerra, infatti, non è isolato, ma è uno dei molti casi di restrizione alla libertà di movimento delle persone all’interno dell’Europa

di Lapo Berti
Ci siamo illusi che la società potesse vivere senza la fatica e le pene del conflitto, che la coesione sociale e la democrazia potessero essere il frutto della pacifica convivenza fra egoismi. La democrazia desertificata che abbiamo di fronte ci dice che non è così. Il conflitto sociale è la linfa della democrazia e anche il costo che dobbiamo pagare perché essa viva

di Elvira Vannini
La memoria collettiva “ha costituito un’importante posta in gioco nella lotta per il potere condotta dalle forze sociali. Impadronirsi della memoria e dell’oblio è una delle massime preoccupazioni delle classi, dei gruppi e degli individui che hanno dominato e dominano le società storiche” (Jacques Le Goff, Storia e Memoria, 1986)

di Riccardo Bellofiore
“Keynes era per varie ragioni convinto di una tendenza al ristagno nel capitalismo sviluppato (...). Ne traeva perciò la conclusione che fosse opportuna una significativa ‘socializzazione dell’investimento’, unico strumento in grado di condurci nella zona della piena occupazione delle risorse produttive, incluso il lavoro” 

di Federico Tomasello
Il meeting è stato promosso dalla Fundación de los Comunes e dal network europeo di musei L’Internationale, si è tenuto principalmente nella suggestiva cornice del museo Reina Sophia, ed ha più volte posto il problema di unire immaginazione artistica e immaginazione politica nella costruzione di una nuova idea di Europa

di Euronomade
catene produttive, lavoro migrante, finanza, questi i temi su cui ruota l’intervista al ricercatore di Sociologia dei processi economici e del lavoro dell’Università patavina (Dipartimento FISPPA), esperto dei fenomeni economico-sociali nell’area dei paesi est-europei

di Danilo Mariscalco
Presentiamo la premessa del volume Dai laboratori alle masse. Pratiche artistiche e comunicazione nel movimento del ’77, editoda Ombre Corte (2014). Il libro propone un’analisi sulle forme dell’antagonismo liberato dal peso della tradizione del movimento operaio ufficiale  e dentro le quali  si intrecciano nuovi linguaggi, scritture e nuovi strumenti di comunicazione

di Elisabetta Teghil
Recuperare la storia e la memoria del movimento femminista, storia e memoria che vengono stravolte, manipolate, falsificate riducendo la trasgressione femminista ad un percorso di emancipazione dai tratti deterministici dove il miglioramento della nostra condizione sarebbe graduale e ineluttabile in una società che progredisce nell’attenzione alle diversità e ai diritti

di Mattia Ciampicacigli
Democrazia ristretta/ Il deficit democratico europeo è un vizio d'origine o il risultato di un'involuzione autoritaria? La doppia sfida di Tsipras è quella di cambiare la sinistra e allo stesso tempo l'Europa, superando i nazionalismi

di Marco Bascetta
sosti­tuire alla sini­stra ita­liana, alle sue baruffe pae­sane e ai suoi gala­tei giu­sti­zia­li­sti, una sini­stra euro­pea che tragga dalla scala stessa su cui opera la sua radi­ca­lità. Uno strappo nel tes­suto «mode­rato» e miope della poli­tica nostrana, for­zan­done riti, vin­coli e con­fini

da alfabeta2
si intensifica il dibattito attorno alla scommessa politica rappresentata dalla Lista Tsipras alle prossime elezioni europee. Proponiamo gli interventi di Fumagalli, Bifo e Formenti. L’entusiasmo non è il massimo in nessuno dei tre interventi. Ma diversamente da quello di Formenti, le cui distanze sono nette, gli altri due invitano a “sporcarsi le mani”

da Commonware
le riflessioni e la cronaca sullo sviluppo dell’insorgenza in Ucraina. L’intervista, apparsa sul sito avtonomia.net,  fornisce una preziosa analisi militante di insieme del movimento cosiddetto “Euromaidan”, della sua genealogia e della sua composizione, delle differenze economiche e sociali tra le diverse regioni del paese, dell’impatto della crisi


Che fine hanno fatto gli intellettuali? Conversazione con Régis Meyran*

di Enzo Traverso

In una lunga conversazione con Régis Meyran Enzo Traverso ripercorre la storia e la parabola dell’intellettuale che da guastafeste e intelligenza critica che afferma la verità contro il potere si è progressivamente trasformato in “esperto” al servizio dei potenti e specialista della comunicazione. In questo nuovo paesaggio segnato dalla fine delle utopie, dalla svolta conservatrice degli anni Ottanta e dalla mercificazione della cultura, il pensiero dissidente non è però scomparso. Ora per inventare nuove utopie gli intellettuali dovranno uscire dai loro ambiti specialistici e ritrovare un atteggiamento universalista. 

Le nuove utopie potrebbero venire dai movimenti di controcultura, apparsi nel dopoguerra contro la cultura di massa?

Mi sembra che oggi la controcultura degli anni Sessanta e Settanta sia generalmente scomparsa, o che esista in forme molto limitate. I giovani che si trasferiscono in campagna, per esempio a Tarnac, per creare una sorta di falansteri moderni, sottraendosi alla società di mercato, creano una controcultura che vorrebbe diventare un modello. È un fenomeno interessante ma marginale. Inoltre, l’esperienza del passato dimostra che la controcultura può farsi assorbire dal sistema di mercato. Molti autori hanno analizzato la straordinaria capacità del capitalismo di recuperare, integrare e quindi neutralizzare i movimenti culturali che lo criticano. Il rock & roll è stato una sfida violenta all’America autoritaria, conservatrice e puritana degli anni Cinquanta, prima di diventare uno dei settori più redditizi dell’industria culturale. London Calling, la canzone che i Clash urlavano nel 1979 come un’esortazione alla rivolta, nel 2012 è diventata l’inno ufficiale dei giochi Olimpici di Londra, spettacolo planetario e gigantesca kermesse commerciale… Nel 1989, con la celebrazione del suo bicentenario, la Rivoluzione francese si è trasformata in un puro spettacolo messo in scena per l’industria culturale.

Ma non restano dei focolai di pensiero critico, nell’editoria per esempio?

Abbiamo assistito, in questi ultimi anni, in particolare in Francia, alla nascita di diverse case editrici alternative che diffondono nuove teorie critiche, senza intenti commerciali. Certo, sopravvivono con difficoltà, ma si sono ritagliate un loro spazio nel panorama culturale. Questa scena alternativa, fatta di piccoli editori e di una rete di librerie, non può essere ignorata. Non è raro, in Francia, che un grande quotidiano dia conto di un libro pubblicato da Amsterdam o da La Fabrique. Esperienze simili esistono in Italia, dove sopravvive un quotidiano come “il manifesto”; in Germania, dove è sempre esistita una fitta rete di riviste alternative e di case editrici della sinistra radicale, e in Gran Bretagna, dove Verso ha una storia e una dimensioni di tutto rispetto. Il successo di una rivista radicale come “Jacobin” negli Stati Uniti è incoraggiante.

Al contrario, pochi degli intellettuali o delle persone che provengono da questa cultura alternativa hanno accompagnato gli attuali movimenti sociali. Come interpretare questa sconnessione tra i (pochi) intellettuali critici e gli attuali movimenti sociali?

È un problema reale. La sconfitta storica del 1989 ha fatto si che i movimenti sociali oggi siano rimasti orfani. Il paradosso della nostra epoca è che essa è ossessionata dalla memoria, mentre i suoi movimenti di contestazione – gli indignati, la “primavera araba”, Occupy Wall Street, ecc. – non hanno nessuna memoria… Non possono inscriversi nella continuità con i movimenti rivoluzionari del Novecento. Questi movimenti sono animati essenzialmente dai giovani, mentre gli intellettuali critici sono più anziani: hanno almeno sessant’anni. Dobbiamo dedurne che vi sia una guerra tra generazioni, anche se non si dice?
Non parlerei di una guerra tra generazioni. E del resto i giovani intellettuali impegnati sono numerosi, anche se non hanno la stessa visibilità né il riconoscimento dei loro predecessori. I movimenti di questi ultimi anni sono alla ricerca di nuove prospettive, ma non hanno un orientamento politico chiaramente definito. Sono apparsi in diversi paesi – in Spagna, negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Italia, nei paesi arabi – ma non sono mai riusciti a darsi strutture politiche permanenti. Si veda il caso di Occupy Wall Street, un movimento di cui si è parlato molto ma che è quasi scomparso durante la campagna presidenziale del 2012.

Restano comunque alcuni intellettuali critici come Jacques Rancière o Alain Badiou. Sono in sintonia con i movimenti sociali del nostro tempo?

Rancière e Badiou sono filosofi che criticano il potere contemporaneo. Sono molto interessanti, ma non sono in grado di offrire un progetto ai nuovi movimenti sociali. D’altra parte, essi non hanno, comprensibilmente, una tale ambizione, e non si presentano come leader. Rancière ha dato un contributo fondamentale, per ripensare la democrazia e l’emancipazione, in lavori come La nuit des prolétaires (1981) o La haine de la démocratie (2005). Badiou, strana figura di comunista platonico, seduce per l’acutezza della sua critica, il suo stile brillante e la radicalità del suo pensiero, ma i suoi riferimenti politici sono vecchi – l’'Organizzazione” (maoista) – e un po’ sconcertanti.
Nell’università, il pensiero critico è abbastanza vivace. Vi sono filosofi come Giorgio Agamben, Nancy Fraser, Toni Negri, Slavoj Žižek, storici come Perry Anderson, geografi come David Harvey, teorici e sociologi della politica come Michael Löwy, Sandro Mezzadra, Philippe Corcuff e molti altri… Fuori dell’università, vi sono scrittori e saggisti come Tariq Ali, ecc. Ma quando si svolge a Londra un convegno sull’“attualità del comunismo”, fa un po’ sorridere. I giovani in ogni caso non li riconoscono davvero come interlocutori. Negli Stati Uniti, Judith Butler riempie gli anfiteatri di giovani studenti, ma questa vasta influenza intellettuale non ha nessun impatto politico.
Si potrebbe dire la stessa cosa a proposito degli studi postcoloniali. Delle vere e proprie “star” sono apparse nei campus americani, come i teorici critici di origine indiana Homi Bhabha e Gayatri Chakravorty Spivak. Per i giovani insorti del Cairo e di Tunisi, tuttavia, Bhabha e Spivak non rappresentano nulla. La rottura tra intellettuali critici e movimenti sociali rimane considerevole. Daniel Bensaïd, che è stato un passatore insostituibile tra le generazioni, così come tra gli intellettuali e i militanti, considerava questa questione assolutamente decisiva quando ha creato lo Sprat (Societé pour la résistance à l’air du temps), oggi diventata Société Louise Michel, e la rivista “Contretemps”.

Movimenti d’Europa. Problemi e opportunità del nuovo governo del lavoro

di ∫connessioni precarie

Dopo il caso di Silvia Guerra, l’artista e cittadina italiana da tempo residente a Bruxelles che è stata espulsa perché considerata un peso per il welfare belga, abbiamo iniziato a ripensare in che modo l’Europa sta riconfigurando i suoi confini e come la questione della mobilità si colloca in tale scenario. L’affaire-Guerra, infatti, non è isolato, ma è uno dei molti casi di restrizione alla libertà di movimento delle persone all’interno dell’Europa

Negli ultimi anni la libertà di movimento è stata una parola d’ordine centrale per i movimenti, che hanno messo sotto accusa il fatto che la libera circolazione nell’area Schengen è garantita al prezzo delle restrizioni e dei vincoli imposti ai migranti, che possono entrare legalmente in Europa solo come lavoratori o come richiedenti asilo sottoposti all’odioso regime di Dublino II. Con la crisi, sembra che o spazio comune europeo di libera circolazione stia collassando, inaugurando una realtà fatta di differenziazioni e gerarchie che ora colpiscono anche i cittadini europei. I governi degli Stati più forti economicamente scaricano sui paesi più colpiti dalla crisi tutti i suoi costi, rimandando a casa (come nel caso di Silvia Guerra) migranti anche di lunga data, oppure tagliando qualsivoglia aiuto sociale destinato loro, o semplicemente non assicurando il godimento dei benefici sociali ottenuti pagando i contributi. Questa modalità di governo dei movimenti degli individui e della forza lavoro mostra così tutto il suo debito verso la normativa di Dublino II, che fa sobbarcare i costi dell’accoglienza dei rifugiati ai paesi del sud dove, nella maggior parte dei casi, i richiedenti asilo mettono piede per la prima volta in Europa. Sembra, insomma, che sia finita l’epoca dell’Europa libero spazio di transito e stabilimento delle persone, oltre che delle merci e dei capitali. Attraverso una gestione combinata dei sistemi di welfare, delle politiche di austerity e degli accordi di Schengen l’Europa sta sviluppando nuovi strumenti per disciplinare la forza lavoro, non solo extraeuropea ma anche interna all’Unione, governandone i movimenti. Come i migranti provenienti dal resto del mondoanche i cittadini europei si trovano sottomessi al regime del «lavoratore ospite» che, a dispetto dell’eventualità che si sia trasferito in pianta stabile in un paese diverso da quello in cui è nato, può essere rimandato al paese di origine non appena risulti essere un fardello eccessivo per il paese «ospitante».
A partire dai limiti introdotti da diversi paesi alla libera circolazione dei cittadini dei nuovi Stati membri è diventato evidente che sono i governi nazionali a decidere come e se far valere gli accordi di Schengen quando si tratta delle aree di competenza ancora destinate agli Stati membri. Il caso di Silvia Guerra dimostra che il welfare sta diventando in Europa un moltiplicatore indiretto di confini che colpisce tanto i migranti quanto i cittadini europei. Il welfare è un settore in cui la discrezionalità degli Stati membri è ancora ampia, un’area residuale di loro competenza esclusiva dentro a processi di portata transnazionale.

Senza conflitto non c’è democrazia

di Lapo Berti

Ci siamo illusi che la società potesse vivere senza la fatica e le pene del conflitto, che la coesione sociale e la democrazia potessero essere il frutto della pacifica convivenza fra egoismi. La democrazia desertificata che abbiamo di fronte ci dice che non è così. Il conflitto sociale è la linfa della democrazia e anche il costo che dobbiamo pagare perché essa viva

Il conflitto novecentesco
Il novecento è stato un secolo di grandi conflitti sociali che hanno segnato gli andamenti della politica e il divenire della società giungendo a condizionare anche il contesto economico. Si è trattato a lungo di conflitti che avevano come scenario privilegiato, se non unico, il mondo del lavoro e come teatro la fabbrica, in particolare la grande fabbrica in cui si è consumata l’era della produzione di massa e si è affermato il mito del fordismo. Le condizioni di lavoro, la remunerazione del lavoro, talora i rapporti di potere, erano la posta in gioco. La sospensione del lavoro era lo strumento, l’arma, con cui questi conflitti venivano combattuti. Il conflitto in fabbrica era nel contempo causa ed effetto di un processo di socializzazione che aveva al centro il processo lavorativo e le esperienze di condivisione e di riconoscimento che in esso si generavano. Si può forse parlare, in questo senso, di una vera e propria antropologia fordista, di un uomo forgiato dentro il crogiolo di un’esperienza collettiva assorbente e totalizzante perché fortemente congiunta con la speranza di un cambiamento radicale dei rapporti sociali e delle condizioni di vita.
Quei conflitti, che avevano nella grande fabbrica la loro matrice sociale e il luogo eletto della loro elaborazione e manifestazione, hanno plasmato la società del novecento, ne hanno condizionato l’evoluzione, ne hanno segnato la cultura. La politica che ancora oggi abbiamo di fronte e che si sta faticosamente tentando di superare è figlia, in gran parte, di quella stagione, di quei problemi, di quella configurazione sociale. Occorre prendere atto che quella stagione si è definitivamente conclusa, anche se continua a vivere nella memoria delle persone che l’hanno vissuta e ancora alimenta l’immaginario di forze politiche che da tempo hanno smesso di elaborare il loro rapporto con la realtà. Con quella stagione è morto anche il conflitto sociale, quella forma di conflitto che ne aveva costituito la forza propulsiva e la dannazione. Il conflitto si è ridotto a sporadico atto di protesta, per quanto ampio, al di fuori di ogni prospettiva di cambiamento e privo di una significativa base organizzativa. Le grandi mobilitazioni “no global”, il movimento “Occupy Wall Street” e quelli che lo hanno imitato in varie parti del mondo, gli indignados, si sono esaurite quasi senza lasciare traccia, certo senza raggiungere stabilmente nessuno degli obiettivi per cui erano nati. La sensazione diffusa che il “sistema” non sia scalfibile si è rafforzata, il senso di impotenza degli individui si è intensificato.

Una società senza conflitto?
Nella lunga deriva post-fordista, che ha ridisegnato il panorama sociale, il conflitto si è lentamente ritratto dalla scena fino a scomparire come fenomeno preminente della dinamica sociale. Si è diffusa l’illusione che il conflitto sociale, come l’abbiamo vissuto nella lunga deriva novecentesca sulla scia delle grandi organizzazioni di massa, fosse stato definitivamente espunto dal metabolismo sociale. Si è pensato, per un lungo istante storico, che le leggi del cambiamento sociale fossero mutate e che esso tendesse ora a essere il frutto di variazioni incrementali, tutt’al più di micro conflitti, perché erano venute meno le grandi aggregazioni cementate dall’ideologia e gli individui si ritrovavano soli con le loro scelte di vita. Si era esaurita, per un complesso di ragioni non facili da analizzare ma che si possono individuare, la capacità di attrazione e di mobilitazione della dimensione collettiva e con essa si era spenta la fiducia nella possibilità di poter modificare collettivamente la realtà sociale secondo un disegno condiviso. In particolare, si erano rivelati irraggiungibili e talora ingannevoli gli obiettivi di cambiamento sociale che la mobilitazione collettiva di ingenti masse di lavoratori si era proposta nell’ambito di una visione socialista dell’assetto sociale. Più in profondità, dentro quei sommovimenti che determinano le derive della lunga durata, si stava sfaldando il sistema della produzione di massa che era stato l’essenza del fordismo. Non teneva più da un punto di vista economico ed era diventato insostenibile socialmente e politicamente agli occhi degli esponenti del capitalismo mondiale proprio per la forza e la coesione che aveva attribuito alle masse lavoratrici raccolte nelle grandi fabbriche. Con esso cominciava a dissolversi quel grande aggregato sociale che andava sotto il nome di “classe operaia”, attraverso cui milioni di lavoratori, in primo luogo, avevano fatto la loro comparsa sulla scena politica acquisendo un’identità, una cultura, un’ideologia, una forza organizzativa e una capacità d’iniziativa che erano storicamente sconosciute alle classi inferiori. Era libero il campo perché potesse rispuntare e diffondersi il mito antico della “società senza classi”, ovvero di una società senza conflitto, in cui non esistono divisioni e contrapposizioni in grado di metterne in discussione la coesione.
Parallelamente, si stava imponendo, a partire dalla fine degli anni settanta, quella revanche del fronte capitalistico-liberale che avrebbe preso le forme del neo-liberismo e si sarebbe concretizzata nei governi di Reagan e della Thatcher. Una strategia intelligente, maturata nell’ambito dell’oligarchia economica e finanziaria globale e da essa fortemente sostenuta, aveva puntato fin dai tempi del New Deal rooseveltiano, ma con crescente intensità a partire dai primissimi anni del secondo dopoguerra, a porre le basi di un’egemonia culturale che avrebbe dovuto estirpare dal corpo delle società occidentali il germe del collettivismo, che veniva sbrigativamente identificato con il regime comunista dell’Unione sovietica. Verso la fine del secolo scorso, un sociologo acuto come Pierre Bourdieu era giunto alla conclusione che il neoliberalismo imperante non era altro che la copertura di un “immenso lavoro politico” all’insegna di un programma di distruzione sistematica di tutti gli spazi e gli organismi collettivi che si erano formati nella società (Le Monde diplomatique, marzo 1998).
La conseguenza di questa poderosa offensiva culturale, di cui la cultura progressista ha colpevolmente tardato a prendere coscienza, fu l’affermazione di quell’individualismo “mascalzone”, come mi piace definirlo, che è un’inquietante caricatura di dell’individualismo consapevole che è all’origine del liberalismo classico. L’incapacità, in tutto l’occidente, dei partiti tradizionali di comprendere e di affrontare questa metamorfosi ha fatto il resto.

martedì 18 marzo 2014

Sabotare la gestione del tempo: politiche della memoria

di Elvira Vannini
La memoria collettiva “ha costituito un’importante posta in gioco nella lotta per il potere condotta dalle forze sociali. Impadronirsi della memoria e dell’oblio è una delle massime preoccupazioni delle classi, dei gruppi e degli individui che hanno dominato e dominano le società storiche” (Jacques Le Goff, Storia e Memoria, 1986)

Nell’analisi del regime di visibilità delle insorgenze e dei movimenti di protesta post-Seattle, Maurizio Lazzarato introduce una rottura con il vecchio paradigma della rappresentazione, sia nei modi di produzione politica che estetica: “linguaggio, segni e immagini non riproducono qualcosa ma piuttosto contribuiscono a renderla possibile […] sono costitutivi della realtà e non sue rappresentazioni”.
Così le pratiche documentarie contenute nell’antologia Politiche della memoria. Documentario e archivio (DeriveApprodi 2014), a cura di Elisabetta Galasso e Marco Scotini, contribuirebbero piuttosto a una trasformazione della storia, attraverso la memoria e la sua riscrittura, nel cuore dei processi di produzione delle soggettività contemporanee. Il libro, nato da cinque anni di incontri con artisti e filmmaker internazionali presso la NABA di Milano, è una delle poche pubblicazioni in italiano sull’argomento a cui potremmo associare The Migrant Image di T.J Demos e The Greenroom di Maria Lind e Hito Steyerl, in area anglo-americana.

domenica 16 marzo 2014

6/ RASSEGNA W.I.P. 03

Sommario


di Riccardo Bellofiore
“Keynes era per varie ragioni convinto di una tendenza al ristagno nel capitalismo sviluppato (...). Ne traeva perciò la conclusione che fosse opportuna una significativa ‘socializzazione dell’investimento’, unico strumento in grado di condurci nella zona della piena occupazione delle risorse produttive, incluso il lavoro” 


di Federico Tomasello
Il meeting è stato promosso dalla Fundación de los Comunes e dal network europeo di musei L’Internationale, si è tenuto principalmente nella suggestiva cornice del museo Reina Sophia, ed ha più volte posto il problema di unire immaginazione artistica e immaginazione politica nella costruzione di una nuova idea di Europa


di Euronomade
catene produttive, lavoro migrante, finanza, questi i temi su cui ruota l’intervista al ricercatore di Sociologia dei processi economici e del lavoro dell’Università patavina (Dipartimento FISPPA), esperto dei fenomeni economico-sociali nell’area dei paesi est-europei


di Danilo Mariscalco
Presentiamo la premessa del volume Dai laboratori alle masse. Pratiche artistiche e comunicazione nel movimento del ’77, editoda Ombre Corte (2014). Il libro propone un’analisi sulle forme dell’antagonismo liberato dal peso della tradizione del movimento operaio ufficiale  e dentro le quali  si intrecciano nuovi linguaggi, scritture e nuovi strumenti di comunicazione


di Elisabetta Teghil
Recuperare la storia e la memoria del movimento femminista, storia e memoria che vengono stravolte, manipolate, falsificate riducendo la trasgressione femminista ad un percorso di emancipazione dai tratti deterministici dove il miglioramento della nostra condizione sarebbe graduale e ineluttabile in una società che progredisce nell’attenzione alle diversità e ai diritti


L’involuzione autoritaria europea. Intervista al sociologo Luciano Gallino
di Mattia Ciampicacigli
Democrazia ristretta/ Il deficit democratico europeo è un vizio d'origine o il risultato di un'involuzione autoritaria? La doppia sfida di Tsipras è quella di cambiare la sinistra e allo stesso tempo l'Europa, superando i nazionalismi


di Marco Bascetta
sosti­tuire alla sini­stra ita­liana, alle sue baruffe pae­sane e ai suoi gala­tei giu­sti­zia­li­sti, una sini­stra euro­pea che tragga dalla scala stessa su cui opera la sua radi­ca­lità. Uno strappo nel tes­suto «mode­rato» e miope della poli­tica nostrana, for­zan­done riti, vin­coli e con­fini


da alfabeta2
si intensifica il dibattito attorno alla scommessa politica rappresentata dalla Lista Tsipras alle prossime elezioni europee. Proponiamo gli interventi di Fumagalli, Bifo e Formenti. L’entusiasmo non è il massimo in nessuno dei tre interventi. Ma diversamente da quello di Formenti, le cui distanze sono nette, gli altri due invitano a “sporcarsi le mani”


da Commonware
le riflessioni e la cronaca sullo sviluppo dell’insorgenza in Ucraina. L’intervista, apparsa sul sito avtonomia.net,  fornisce una preziosa analisi militante di insieme del movimento cosiddetto “Euromaidan”, della sua genealogia e della sua composizione, delle differenze economiche e sociali tra le diverse regioni del paese, dell’impatto della crisi


La socializzazione degli investimenti: contro e oltre Keynes

di Riccardo Bellofiore

“Keynes era per varie ragioni convinto di una tendenza al ristagno nel capitalismo sviluppato, una previsione su cui fu smentito, e su cui pesavano errori significativi contenuti nella sua costruzione teorica. Ne traeva perciò la conclusione che fosse opportuna una significativa ‘socializzazione dell’investimento’, unico strumento in grado di condurci nella zona della piena occupazione delle risorse produttive, incluso il lavoro”  [il contributo dedicato agli economisti critici italiani è estratto dal saggio pubblicato in Alternative per il socialismo, marzo/aprile n. 30, 2014]

Federico Caffè, Augusto Grazianie Claudio Napoleoni
Criticando i keynesiani Paul M. Sweezy, a ragione sosteneva che parlare di riformare il capitalismo significava peccare di ingenuità o di doppiezza. Il capitalismo difenderà fino in fondo i suoi privilegi, consentendo soltanto quelle riforme e quel margine di libertà ai riformatori che non tocchino i loro interessi.
Federico Caffè era sicuramente un riformista, pur a un certo punto disilluso e disperato. Ma certo non ingenuo. Cita il Franco Fortini che sul Corriere della sera scrive che “lo sviluppo capitalistico, grazie alle sue crisi e ai suoi ritorni, drena sempre nuovi strati sociali, produce anzi sempre nuovi colonizzati interni, almeno da noi, da usare come deterrente nei confronti del lavoro comunque privilegiato”. La alternativa che propone è una economia di piena occupazione, ma è chiaro – aggiunge - che ciò dipende da una riforma fondamentale del contesto istituzionale. Di questa riforma fanno parte controlli sul commercio con l’estero, controlli sui prezzi, controlli sulla localizzazione delle industrie, estensione dell’azione dello Stato anche ai fini della regolamentazione complessiva dell’investimento privato.
Forse alludendo a Abba P. Lerner, la definisce una vera e propria ‘economia dei controlli’. Di più, si tratterebbe di una autentica ‘amministrazione globale della offerta’. Siamo chiaramente nello stesso orizzonte di Minsky, quello di una socializzazione industriale e della struttura produttiva, della banca e della finanza, dell’occupazione. Di fatto, e di nuovo, della rimessa in questione del ‘che cosa’, ‘quanto’ e ‘per chi produrre’ – qualcosa a cui una sinistra autentica non può non aggiungere una rimessa in questione anche del ‘come’ produrre. Caffè qualifica questa prospettiva come ‘riformismo gradualistico’, ma non si vede (almeno, io non vedo) proprio cosa vi sia di moderato in tutto ciò. Tant’è che lui stesso rimanda a Gramsci che scrive che si tratta di proporre fini discreti, raggiungibili pur nell’intento di approfondirli ed estenderli.

Una Carta per l’Europa: note sull’incontro di Madrid e sulla rottura possibile di un’evidenza

di Federico Tomasello

Il meeting è stato promosso dalla Fundación de los Comunes e dal network europeo di musei L’Internationale, si è tenuto principalmente nella suggestiva cornice del museo Reina Sophia, ed ha più volte posto il problema di unire immaginazione artistica e immaginazione politica nella costruzione di una nuova idea di Europa

Il nuovo ratto di Europa: è suggestivo il titolo scelto per l’incontro europeo conclusosi pochi giorni fa a Madrid (27 febbraio-2 marzo) tanto quanto ambiziosa appare la prospettiva che esso ha inteso delineare. Un orizzonte fondato su una tesi assai semplice, che consegna tuttavia un compito estremamente complesso a chi la condivide: un “golpe finanziario” contro l’Europa ha imposto agli attori protagonisti dell’UE di abiurare il “sogno” europeista, spetta allora ai movimenti, agli attivisti, alle esperienze collettive di azione e di pensiero di riaprire tale prospettiva facendosi promotori di un nuovo processo costituente, radicale e democratico di integrazione europea, dentro e contro, o meglio oltre le istituzioni della UE. Di unire dunque le molte pratiche di resistenza che agiscono dentro lo spazio europeo in un progetto di opposizione contro quelle recrudescenze sovraniste e nazionaliste e contro quella governance neoliberale della crisi che solidarmente incarnano i punti di impasse verticale del progetto di unire l’Europa. Si tratta in qualche modo di affermare un’evidenza – il ratto d’Europa come fine del progetto di integrazione per come lo abbiamo conosciuto negli ultimi decenni – e al tempo stesso la necessità di rompere tale evidenza rifondando quel progetto su basi radicalmente nuove. Come si vede, piuttosto che una discussione su questa delicata congiuntura, il meeting spagnolo ambiva a verificare le condizioni di possibilità dell’apertura di un discorso che può dispiegarsi solo sull’orizzonte del medio periodo.
Differentemente da quanto potrebbe accadere in Italia, nella cornice madrilena il termine “movimenti” ha immediatamente evocato un riferimento forte e preciso: il ciclo di mobilitazioni che nel 2011 ha attraversato soprattutto le piazze spagnole e statunitensi rivendicando quell’istanza di democrazia radicale e diretta restituita dallo slogan We are the 99%. La necessità di tracciare un bilancio di tali esperienze, elaborare l’esaurimento di quel ciclo, comprenderne le ragioni profonde e delineare nuove prospettive è certo uno degli elementi che ha spinto alcuni protagonisti delle acampadas spagnole a promuovere questo meeting. Più di un intervento ha indicato nella difficoltà di produrre istituzioni – vale a dire di inventare dispositivi collettivi in grado di proiettare l’esperienza di questi movimenti al di là dell’evento e della breve durata – il problema fondamentale di quel ciclo di lotte, mentre la dimensione europea è stata assunta come lo spazio comune, minimo e decisivo in cui dispiegare questa nuova istituzionalità. Pur cogliendo tutte le difficoltà del passaggio che stiamo attraversando, uomini e donne riuniti a Madrid hanno insomma condiviso anzitutto il rifiuto di assumere le familiari dimensioni della sovranità nazionale come possibile rifugio dalla violenza della crisi, ed hanno opposto a questa stanca illusione l’idea che solo sul livello europeo si può dare una soluzione di continuità nella gestione neoliberale della crisi e l’attivazione di campagne in grado di porsi, senza esitazione, l’obiettivo di durare e di vincere. Pertanto il dibattito è stato nutrito anche dalla testimonianze delle vittorie che talune esperienze di lotta hanno saputo strappare negli ultimi anni: dai risultati conseguiti sul terreno della bolla immobiliare e del debito ipotecario dalla Plataforma de Afectados por la Ipoteca (Ada Colau), a quelli raggiunti, dentro e fuori i luoghi di lavoro, attraverso l’invenzione di nuovi “modelli” e percorsi di organizzazione di forme di lavoro migrante e precario negli Stati Uniti, in Olanda e Inghilterra in settori tradizionalmente non sindacalizzati (Valery Alzaga).

domenica 9 marzo 2014

Dai territori dell’Europa orientale. Intervista con Devi Sacchetto

di Euronomade

catene produttive, lavoro migrante, finanza, questi i temi su cui ruota l’intervista al ricercatore di Sociologia dei processi economici e del lavoro dell’Università patavina (Dipartimento FISPPA), esperto dei fenomeni economico-sociali nell’area dei paesi est-europei. Uno spazio nel quale, segnala Devi Sacchetto, “le stratificazioni sono ben visibili sulla base sia delle condizioni storiche sia anche dei nuovi processi che si sono sviluppati negli anni più recenti”

d. Tu hai lavorato molto sull’Europa dell’Est e in almeno due direzioni: la prima concerne i flussi migratori e la composizione della forza lavoro; la seconda, mi sembra di poter dire, riguarda i processi di riorganizzazione del comando di impresa. Ci puoi dare qualche impressione di quadro?

r. Seguo le vicende dei paesi dell’Europa orientale da più di quindici anni. Mi pare che la situazione sia oggi molto articolata. Dal punto di vista spaziale si tratta di un’area che è attraversata contemporaneamente da processi di emigrazione (e talvolta ritorni), immigrazioni, rilocalizzazione e anche di ulteriore ri-rilocalizzazione. Questi fenomeni hanno assunto dimensioni di massa, basti pensare da un lato alle migrazioni dei romeni, dei polacchi o anche dei lituani e dall’altro lato agli investimenti produttivi nella Repubblica ceca, in Polonia, Ungheria, ma anche in Romania. L’area dell’Europa orientale è stata etichettata come la maquiladora dell’Europa occidentale dedita prevalentemente all’esportazione. È uno spazio però nel quale le stratificazioni sono ben visibili sulla base sia delle condizioni storiche sia anche dei nuovi processi che si sono sviluppati negli anni più recenti.
Per quello che riguarda le emigrazioni esse oggi si articolano in modo assai diverso da come gli studi solitamente presentano questi movimenti, mettendo a soqquadro le categorie di circolarità, permanenza, pendolarità. Una parte consistente della forza lavoro est-europea, ovviamente in particolare quella più giovane, ha preso sul serio le opportunità offerte dallo spazio europeo, muovendosi in quest’area attraverso agenzie di reclutamento, reti famigliari e amicali o anche individualmente cercando le migliori opportunità di lavoro. A fronte di un relativo filtraggio per i migranti non-EU noi assistiamo a una libertà di movimento per i cittadini EU che viene in parte osteggiata come i recenti provvedimenti in Gran Bretagna paiono indicare. E come già qui in Italia si era tentato di fare con forme di razzismo istituzionale e di differenzialismo democratico. Mi pare non ci sia la prospettiva del ritorno della figura del lavoratore ospite come qualche ricercatore ha provato a mettere a tema. Piuttosto questa forza lavoro sta cercando di costruirsi un mercato del lavoro internazionale. È pur vero che i processi produttivi e le condizioni di lavoro generano un continuo turn over e spingono alla mobilità, cercando per questa via anche di gestire la conflittualità. La crisi economica internazionale sta accelerando la costruzione di un mercato del lavoro europeo nel quale ormai sono molti i paesi che possono contare su una composizione della forza lavoro variamente articolata. Nella Repubblica ceca il 10% della manodopera è straniera, così anche in Polonia, mentre qualche azienda italiana in Romania ha pensato bene di importare forza lavoro dalla Cina e dal Bangladesh.
In questa fase il ruolo dello stato è ovviamente del tutto diverso rispetto al passato ma occorre non sottovalutarlo perché è indispensabile nella continua moltiplicazione delle giurisdizioni, che significa poi condizioni di lavoro, livelli di agibilità e profittabilità per le imprese, ma anche controllo della conflittualità. Voglio dire che a fronte di un innegabile processo di omogeneizzazione a livello ad esempio legislativo, poi ogni stato europeo fissa propri parametri per quanto riguarda ad esempio il mercato del lavoro o gli investimenti stranieri o i livelli salariali. Ogni paese rappresenta quindi un luogo con proprie caratteristiche e regole legislative. Il concetto di differenziazione penso che da questo punto di vista sia centrale. Capisco che possa sembrare una proposta da retroguardia, ma la convergenza a livello europeo almeno dei livelli salariali potrebbe essere un elemento importante per la riorganizzazione di questo proletariato.

“Dai laboratori alle masse”. Premessa

di Danilo Mariscalco

Presentiamo la premessa del volume Dai laboratori alle masse. Pratiche artistiche e comunicazione nel movimento del ’77, edito da Ombre Corte (2014). Il libro propone un’analisi sulle forme dell’antagonismo liberato dal peso della tradizione del movimento operaio ufficiale  e dentro le quali  si intrecciano nuovi linguaggi, scritture e nuovi strumenti di comunicazione. Ma soprattutto ciò che la ricerca intende mostrare è la possibile benjaminiana “intesa segreta” del movimento autonomo dell’operaio sociale con i soggetti biopolitici della moltitudine contemporanea

Oggetto dell’analisi è la produzione culturale del cosiddetto “movimento del ’77” italiano. La sua individuazione è il frutto di un generale impegno teorico che partigianamente si accosta ai frammenti ereditati dalle pratiche in vario modo antagoniste ai rapporti sociali dominanti nella storia; di una semplice “inclinazione”, si potrebbe sospettare, che però si avvale del conforto scientifico idealmente offerto da significative esperienze degli “studi culturali” internazionali. Queste, sulla falsariga della filosofia della praxis di Antonio Gramsci dalla quale ricavano utili strumenti d’indagine, riconoscono più o meno esplicitamente nella categoria e nella condizione reale di subalternità  la camera ottica  per mezzo della quale è possibile tratteggiare i lineamenti di ogni “scienza della cultura” che si proponga con intenzionale efficacia nei processi sociali di trasformazione ed emancipazione. Il fecondo confronto coinvolgente i teorici della subalternità, per il cui approfondimento si rimanda a un esaustivo saggio di Marcus Green[1], in parte è ruotato intorno alle riflessioni, condensate nel noto interrogativo di Gayatri Chakravorty Spivak[2], sulle capacità di rappresentazione dei gruppi sociali subalterni. Non si vagheggia, nel presente lavoro, un’interpretazione che riduca la polisemia caratterizzante il termine gramsciano; ogni concetto, nel paradigma marxiano da esso evocato, è un’astrazione che sussume diverse determinazioni[3] e che impone in ogni suo utilizzo un confronto costante con “la differenza reale”[4]. Il “caso” esposto nelle seguenti pagine offre una risposta affermativa alla domanda spivakiana nella misura in cui questa presuppone il carattere storicamente determinato dei fenomeni sociali e l’importanza scientifica di definizione delle contingenze agenti nella loro affermazione; nella misura in cui esclude ogni inappagabile richiesta di leggi sociali universali. L’analisi ha prodotto precisazioni storiche e concettuali, (ri)costruzioni di oggetti, considerazioni sulle condizioni sociali di emersione dei fenomeni intercettati; tali risultati, nell’ordine generale sovraesposto, sono presentati nei seguenti capitoli[5] e si offrono a una fruizione che, in questa introduzione alla lettura, deve essere informata sulla parzialità “determinata” dei materiali esaminati: la produzione culturale del ’77 non può in alcun modo sintetizzare le diverse pratiche del movimento suo artefice; ciononostante in essa possono essere individuate le qualità specifiche di emergenti soggettività antagoniste, la loro capacità di autorappresentazione, una tendenza sociale. Essa si configura, profanando le “osservazioni sul metodo” di Marx, come “una luce generale che si effonde su tutti gli altri colori modificandoli. [...] una atmosfera particolare che determina il peso specifico di tutto quanto essa avvolge”[6].