a
cura di Mouvements.info
Philippe Van Parijs, filosofo ed economista belga, è nel panorama
internazionale tra gli intellettuali più
attivi nella campagna per il Reddito di base incondizionato. Un tema
fondamentale questo che attraversa il dibattito dei movimenti antagonisti che
promuovono istanze di accesso al reddito sganciato dal rapporto di scambio
Capitale/Lavoro e dalla forma salario come chiave di accesso alla distribuzione della ricchezza. Un
diritto universale rivendicato legittimamente in nome della cooperazione sociale che sottende al modello di produzione generale e sussunta dall’economia capitalista globalizzata
Mouvements: Lei è uno dei
principali sostenitori del reddito di base incondizionato nel mondo, com’è
arrivato a difendere questa idea?
Philippe Van Parijs: Risale al 1982. Ci sono arrivato per due vie. La prima partiva
dall’urgenza di proporre una soluzione ecologicamente responsabile alla
disoccupazione. Vi era una disoccupazione molto importante in Belgio, e anche
quando la congiuntura era buona, la disoccupazione non diminuiva. Per la grande
coalizione dei padroni e dei sindacati, della sinistra e della destra, non vi
era che una soluzione per risolvere questo problema: la crescita. Più
precisamente, un crescita il cui tasso doveva essere più elevato del tasso di
aumento della produttività, esso stesso elevato. Per degli ecologisti,
tuttavia, una corsa accelerata alla crescita non poteva rappresentare una
soluzione. È in questo contesto che mi è venuta l’idea di un reddito
universale, che proposi allora di battezzare allocazione universale in modo da suggerire un’analogia con il
suffragio universale.
Un tale reddito separa parzialmente il
reddito generato dalla crescita e il contributo a questa crescita. Deve
consentire di lavorare meno a quelle persone che lavorano troppo, liberando
così degli impieghi a favore di altre persone che invece non trovano lavoro. Un
reddito universale è una sorta di tecnica agile di redistribuzione del tempo di
lavoro che affronta il problema della disoccupazione senza dover puntare su una
corsa folle alla crescita.
La seconda via che mi ha condotto
all’allocazione universale è più filosofica. All’inizio degli anni ’80, molte
persone che, come me, si situavano a sinistra, si rendevano conto che non aveva
più alcun senso vedere nel socialismo e la proprietà collettiva dei mezzi di
produzione, il futuro desiderabile del capitalismo. Si cominciò allora a
riconoscere pienamente che se i regimi comunisti non avevano risposto alle
speranze immense che avevano fatto nascere, non era per delle ragioni puramente
contingenti. D’altra parte, era importante ai miei occhi riformulare una
visione del futuro che potesse entusiasmare, farci sognare, mobilitarci. Ora,
il reddito universale e incondizionato non è forse interpretabile come una via
capitalista verso il comunismo, inteso come una società che può scrivere sul
proprio vessillo: “da ognuno (volontariamente) secondo le sue capacità, a ciascuno
(incondizionatamente) secondo i suoi bisogni”?
Una società di mercato dotata di
un’allocazione universale può in effetti essere compresa come una società nella
quale una parte del prodotto è distribuita secondo i bisogni di ciascuno,
eventualmente variabile in funzione dell’età e integrabile a beneficio di certe
persone che hanno dei bisogni particolari, per esempio di mobilità. Più questo
reddito universale è elevato, più il contributo di ognuno alla società è un
contributo volontario, motivato dall’interesse intrinseco all’attività svolta
piuttosto che dal bisogno di guadagnarsi da vivere. Più la parte del prodotto
distribuita sotto forma di reddito incondizionato è grande, più ci si avvicina
a questa società “comunista”, intesa come una società in cui l’insieme della
produzione è distribuito in funzione del bisogno anziché in funzione dei
contributi. Se, da allora, ho scoperto numerosi predecessori, non ho ancora
trovato alcun problema decisivo che mi abbia condotto ad abbandonare questa
idea. Ho letto e ascoltato migliaia di obiezioni e ho rapidamente acquisito la
convinzione che la più seria non sia di natura tecnica, economica o politica,
bensì di natura etica, e a questa ho tentato di rispondere in Real Freedom for All.
M: Questa questione è stata oggetto di una
controversia accademica con John Rawls, si tratta della questione del surfista
di Malibu. È davvero legittimo versare un reddito a una persona che non lavora?
P. V. P.: A proposito di questa questione, il mio primo incontro con John Rawls fu
al contempo una delle più grandi delusioni e uno dei più grandi stimoli
intellettuali della mia esistenza. […] Nella sua Teoria della giustizia (1971), Rawls menziona esplicitamente
l’imposta negativa sul reddito a titolo d’illustrazione della messa in pratica
del principio di differenza. Ora, in certe versioni, come quella difesa da
James Tobin, l’imposta negativa non è nient’altro che ciò che Tobin chiamerebbe
demogrant, ossia l’allocazione
universale. Inoltre, l’economista di riferimento di Rawls, colui da cui prende
in prestito l’espressione che designa ciò che ai suoi occhi costituisce il
miglior regime socio-economico – la property-owning
democracy – non è altri che il premio Nobel per l’economia James Meade, grande
difensore del reddito incondizionato dagli anni Trenta fino ai suoi ultimi
scritti.
Su questa base mi pare evidente che
un’interpretazione accorta del principio di differenza non giustifichi solo una
forma di reddito minimo, ma più precisamente un’allocazione universale più
elevata possibile. Evidente per me ma – a mia grande sorpresa – affatto per
Rawls, il quale mi ribatté all’incirca: “prendiamo i surfisti di Malibu. Se
trascorrono le loro giornate facendo surf, a questo punto non sarebbe giusto domandare
alla società di provvedere ai loro bisogni!” […] Ho allora cercato di
giustificare un reddito incondizionato senza appoggiarmi al “principio di
differenza” di Rawls, ma restando fedele a due intuizioni di base di un
approccio liberale ugualitario alla Rawls: uguale preoccupazione per gli
interessi di ciascuno (la dimensione ugualitaria) e uguale rispetto per le
differenti concezioni della vita buona (la dimensione liberale), senza perfezionismi antiliberali,
favorevoli a una vita di lavoro.
M: Si ritiene dunque un liberale ugualitario?
P. V. P.: Esatto, un liberale di sinistra, se volete, a condizione di definire
chiaramente questi termini. Essere “liberale”, in senso eminentemente
filosofico, non significa essere pro-mercato o pro-capitalismo. Significa
semplicemente sostenere che una società giusta non deve essere fondata su una
concezione preliminare di ciò che deve essere una vita buona, su un privilegio
accordato all’eterosessualità rispetto all’omosessualità, per esempio, o a una
vita religiosa rispetto a una da libertino (o il contrario), ecc. Una
concezione liberale presuppone che vi sia un modo per definire ciò che è una
società giusta senza appoggiarsi su una concezione della vita buona, della
perfezione umana – vita buona che certe istituzioni dovrebbero tentare di
rendere possibile e ricompensare. Tra i liberali, però, vi sono quelli di
destra e quelli di sinistra. Quelli di sinistra ritengono che sia apriori
ingiusto che i membri di una società dispongano di mezzi ineguali per
realizzare la loro concezione della vita buona. Di conseguenza, il giusto è
l’uguaglianza delle risorse.
P. V. P.: Il Basic Income European Network, un’eccellente combinazione di un nome inglese e un acronimo francese o
spagnolo. Da allora il BIEN organizza un congresso ogni due anni. Nel 2004, al
congresso di Barcellona, mi sono lasciato convincere, in particolare dal
senatore brasiliano Eduardo Suplicy, a trasformare la nostra rete in una rete
mondiale, mantenendo l’acronimo BIEN ma modificandone l’interpretazione in Earth Network. Era logico, visto il
numero crescente di persone non europee che partecipavano al congresso.
M: Avete creato il BIEN nel 1986 e si è diffuso in
diversi Paesi. Come spiega il fatto che nessun paese, anche sviluppato, non
abbia ancora messo in pratica l’allocazione universale né nemmeno incominciato
un serio dibattito a tal proposito?
P. V. P.: C’è stato un dibattito autentico in certi Paesi, ma a corrente alternata.
Un caso esemplare sono i Paesi Bassi. […] Anche nei casi in cui non si è troppo
lontani da una concreta realizzazione – i Paesi Bassi dispongono già di una
pensione di base, di allocazioni famigliari, di un reddito minimo condizionato
e di crediti d’imposta rimborsabili –, si tratta di un profondo cambiamento
della maniera in cui si concepisce il funzionamento della società e la
distribuzione dei redditi. Non si può dunque aspettarsi che tutto fili liscio
come l’olio. Tanto più che ci sono diversi ostacoli contro i quali si sbatte
sistematicamente.
Il primo può essere formulato sotto forma
di un dilemma: o le cose vanno troppo bene economicamente, e ci si dice “non c’è
bisogno di un’allocazione universale”, o vanno troppo male economicamente, e ci
si dice “non c’è denaro per finanziarla”.
Il secondo ostacolo strutturale è che si
tratta di un’idea che divide persone che sono abitualmente dalla stessa parte
della barricata, a destra come a sinistra del resto. […] A sinistra, il
conflitto riguarda un’altra questione: perché siamo contro lo sfruttamento
capitalistico? Ce ne sono che sono contro lo sfruttamento poiché “è
inaccettabile che i proletari siano obbligati a vendere la loro forza-lavoro”.
In questo caso fornire un’allocazione universale è magnifico, poiché se i
proletari lavorano è perché il lavoro è davvero attraente. Si tratta di uno
strumento potente al servizio dell’emancipazione dei proletari, dunque se ci si
situa a sinistra non si può che essere favorevoli. Ma ce ne sono altri che sono
contro lo sfruttamento capitalistico perché permette ai capitalisti di vivere
senza lavorare. Ora, i partigiani dell’allocazione universale vorrebbero
estendere questa possibilità scandalosa all’insieme della popolazione offrendo
a ognuno un’opzione che per fortuna oggi è privilegio di una piccola minoranza.
La ragione etica dell’opposizione allo sfruttamento capitalistico è
profondamente differente nei due casi, e il dibattito sull’allocazione
universale rende manifesta questa tensione.
Un terzo ostacolo al quale è importante
prestare attenzione riguarda l’opposizione dei sindacati. Ci sono certi
sindacati che hanno sostenuto l’allocazione universale. Nei Paesi Bassi un
sostenitore molto forte del movimento per l’allocazione universale, era un
sindacato del settore agroalimentare con una maggioranza di donne e di
lavoratori a tempo parziale. Non è un caso. Ma in generale i sindacati, nella
misura in cui si interessano a un’idea così lontana dalle loro rivendicazioni
tradizionali, sono piuttosto ostili. Peraltro l’allocazione universale
rappresenta anche un formidabile fondo per gli scioperi: si può scioperare
percependo l’allocazione universale. Ciò non dovrebbe costituire un’acquisizione
cruciale dal punto di vista sindacale? Non necessariamente. Poiché, con
l’allocazione universale, i lavoratori individuali sono anche meno dipendenti
dai sindacati.
M: La questione dell’allocazione universale è una
questione poco investita dalle donne, perché?
P. V. P.: Non mi sembra che sia una questione meno investita dalle donne rispetto ad
altre questioni di politica pubblica. Quale che sia il contesto e il modo di
finanziamento, l’instaurazione di un’allocazione universale profitterà maggiormente
alle donne che agli uomini. Redistribuirà del reddito dagli uomini verso le
donne, e rappresenterà in particolare per le donne un allargamento più
consistente delle loro possibilità. In certe sperimentazioni concrete condotte
negli Stati Uniti durante gli anni ‘60 vi era stata in primo luogo una
riduzione, non enorme ma statisticamente significativa, dell’offerta di lavoro
di secondary earners, ossia di
membri che contribuivano alla famiglia con un secondo reddito, in gran parte donne.
E, in secondo luogo, il tasso di divorzi era aumentato. Che cosa riflette ciò?
Da una parte, che certe donne hanno usufruito della possibilità di rifiutare la
doppia giornata di lavoro, smettendo di correre dalla loro famiglia al loro
impiego, di respirare maggiormente; e, dall’altra parte, che un certo numero di
loro si son dette “ne ho abbastanza di quest’uomo, ora che dispongono di un pò
di autonomia finanziaria, me ne vado”…
Traduzione di Davide Gallo Lassere
Leggi la versione originale in francese
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