lunedì 31 marzo 2014

Sul reddito di base incondizionato. Intervista a Philippe Van Parijs

a cura di Mouvements.info
Philippe Van Parijs,  filosofo ed economista belga, è nel panorama internazionale tra gli intellettuali più  attivi nella campagna per il Reddito di base incondizionato. Un tema fondamentale questo che attraversa il dibattito dei movimenti antagonisti che promuovono istanze di accesso al reddito sganciato dal rapporto di scambio Capitale/Lavoro e dalla forma salario come chiave di accesso  alla distribuzione della ricchezza. Un diritto universale rivendicato legittimamente in nome della cooperazione sociale che sottende al modello di produzione generale e sussunta dall’economia capitalista globalizzata 
Mouvements: Lei è uno dei principali sostenitori del reddito di base incondizionato nel mondo, com’è arrivato a difendere questa idea?
Philippe Van Parijs: Risale al 1982. Ci sono arrivato per due vie. La prima partiva dall’urgenza di proporre una soluzione ecologicamente responsabile alla disoccupazione. Vi era una disoccupazione molto importante in Belgio, e anche quando la congiuntura era buona, la disoccupazione non diminuiva. Per la grande coalizione dei padroni e dei sindacati, della sinistra e della destra, non vi era che una soluzione per risolvere questo problema: la crescita. Più precisamente, un crescita il cui tasso doveva essere più elevato del tasso di aumento della produttività, esso stesso elevato. Per degli ecologisti, tuttavia, una corsa accelerata alla crescita non poteva rappresentare una soluzione. È in questo contesto che mi è venuta l’idea di un reddito universale, che proposi allora di battezzare allocazione universale in modo da suggerire un’analogia con il suffragio universale.
Un tale reddito separa parzialmente il reddito generato dalla crescita e il contributo a questa crescita. Deve consentire di lavorare meno a quelle persone che lavorano troppo, liberando così degli impieghi a favore di altre persone che invece non trovano lavoro. Un reddito universale è una sorta di tecnica agile di redistribuzione del tempo di lavoro che affronta il problema della disoccupazione senza dover puntare su una corsa folle alla crescita.
La seconda via che mi ha condotto all’allocazione universale è più filosofica. All’inizio degli anni ’80, molte persone che, come me, si situavano a sinistra, si rendevano conto che non aveva più alcun senso vedere nel socialismo e la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, il futuro desiderabile del capitalismo. Si cominciò allora a riconoscere pienamente che se i regimi comunisti non avevano risposto alle speranze immense che avevano fatto nascere, non era per delle ragioni puramente contingenti. D’altra parte, era importante ai miei occhi riformulare una visione del futuro che potesse entusiasmare, farci sognare, mobilitarci. Ora, il reddito universale e incondizionato non è forse interpretabile come una via capitalista verso il comunismo, inteso come una società che può scrivere sul proprio vessillo: “da ognuno (volontariamente) secondo le sue capacità, a ciascuno (incondizionatamente) secondo i suoi bisogni”?
Una società di mercato dotata di un’allocazione universale può in effetti essere compresa come una società nella quale una parte del prodotto è distribuita secondo i bisogni di ciascuno, eventualmente variabile in funzione dell’età e integrabile a beneficio di certe persone che hanno dei bisogni particolari, per esempio di mobilità. Più questo reddito universale è elevato, più il contributo di ognuno alla società è un contributo volontario, motivato dall’interesse intrinseco all’attività svolta piuttosto che dal bisogno di guadagnarsi da vivere. Più la parte del prodotto distribuita sotto forma di reddito incondizionato è grande, più ci si avvicina a questa società “comunista”, intesa come una società in cui l’insieme della produzione è distribuito in funzione del bisogno anziché in funzione dei contributi. Se, da allora, ho scoperto numerosi predecessori, non ho ancora trovato alcun problema decisivo che mi abbia condotto ad abbandonare questa idea. Ho letto e ascoltato migliaia di obiezioni e ho rapidamente acquisito la convinzione che la più seria non sia di natura tecnica, economica o politica, bensì di natura etica, e a questa ho tentato di rispondere in Real Freedom for All.
M: Questa questione è stata oggetto di una controversia accademica con John Rawls, si tratta della questione del surfista di Malibu. È davvero legittimo versare un reddito a una persona che non lavora?
P. V. P.: A proposito di questa questione, il mio primo incontro con John Rawls fu al contempo una delle più grandi delusioni e uno dei più grandi stimoli intellettuali della mia esistenza. […] Nella sua Teoria della giustizia (1971), Rawls menziona esplicitamente l’imposta negativa sul reddito a titolo d’illustrazione della messa in pratica del principio di differenza. Ora, in certe versioni, come quella difesa da James Tobin, l’imposta negativa non è nient’altro che ciò che Tobin chiamerebbe demogrant, ossia l’allocazione universale. Inoltre, l’economista di riferimento di Rawls, colui da cui prende in prestito l’espressione che designa ciò che ai suoi occhi costituisce il miglior regime socio-economico – la property-owning democracy – non è altri che il premio Nobel per l’economia James Meade, grande difensore del reddito incondizionato dagli anni Trenta fino ai suoi ultimi scritti.
Su questa base mi pare evidente che un’interpretazione accorta del principio di differenza non giustifichi solo una forma di reddito minimo, ma più precisamente un’allocazione universale più elevata possibile. Evidente per me ma – a mia grande sorpresa – affatto per Rawls, il quale mi ribatté all’incirca: “prendiamo i surfisti di Malibu. Se trascorrono le loro giornate facendo surf, a questo punto non sarebbe giusto domandare alla società di provvedere ai loro bisogni!” […] Ho allora cercato di giustificare un reddito incondizionato senza appoggiarmi al “principio di differenza” di Rawls, ma restando fedele a due intuizioni di base di un approccio liberale ugualitario alla Rawls: uguale preoccupazione per gli interessi di ciascuno (la dimensione ugualitaria) e uguale rispetto per le differenti concezioni della vita buona (la dimensione liberale), senza perfezionismi antiliberali, favorevoli a una vita di lavoro.
M: Si ritiene dunque un liberale ugualitario?
P. V. P.: Esatto, un liberale di sinistra, se volete, a condizione di definire chiaramente questi termini. Essere “liberale”, in senso eminentemente filosofico, non significa essere pro-mercato o pro-capitalismo. Significa semplicemente sostenere che una società giusta non deve essere fondata su una concezione preliminare di ciò che deve essere una vita buona, su un privilegio accordato all’eterosessualità rispetto all’omosessualità, per esempio, o a una vita religiosa rispetto a una da libertino (o il contrario), ecc. Una concezione liberale presuppone che vi sia un modo per definire ciò che è una società giusta senza appoggiarsi su una concezione della vita buona, della perfezione umana – vita buona che certe istituzioni dovrebbero tentare di rendere possibile e ricompensare. Tra i liberali, però, vi sono quelli di destra e quelli di sinistra. Quelli di sinistra ritengono che sia apriori ingiusto che i membri di una società dispongano di mezzi ineguali per realizzare la loro concezione della vita buona. Di conseguenza, il giusto è l’uguaglianza delle risorse.
M: Nel 1986, ha partecipato alla creazione di ciò che diventerà il BIEN.
P. V. P.: Il Basic Income European Network, un’eccellente combinazione di un nome inglese e un acronimo francese o spagnolo. Da allora il BIEN organizza un congresso ogni due anni. Nel 2004, al congresso di Barcellona, mi sono lasciato convincere, in particolare dal senatore brasiliano Eduardo Suplicy, a trasformare la nostra rete in una rete mondiale, mantenendo l’acronimo BIEN ma modificandone l’interpretazione in Earth Network. Era logico, visto il numero crescente di persone non europee che partecipavano al congresso.
M: Avete creato il BIEN nel 1986 e si è diffuso in diversi Paesi. Come spiega il fatto che nessun paese, anche sviluppato, non abbia ancora messo in pratica l’allocazione universale né nemmeno incominciato un serio dibattito a tal proposito?
P. V. P.: C’è stato un dibattito autentico in certi Paesi, ma a corrente alternata. Un caso esemplare sono i Paesi Bassi. […] Anche nei casi in cui non si è troppo lontani da una concreta realizzazione – i Paesi Bassi dispongono già di una pensione di base, di allocazioni famigliari, di un reddito minimo condizionato e di crediti d’imposta rimborsabili –, si tratta di un profondo cambiamento della maniera in cui si concepisce il funzionamento della società e la distribuzione dei redditi. Non si può dunque aspettarsi che tutto fili liscio come l’olio. Tanto più che ci sono diversi ostacoli contro i quali si sbatte sistematicamente.
Il primo può essere formulato sotto forma di un dilemma: o le cose vanno troppo bene economicamente, e ci si dice “non c’è bisogno di un’allocazione universale”, o vanno troppo male economicamente, e ci si dice “non c’è denaro per finanziarla”.
Il secondo ostacolo strutturale è che si tratta di un’idea che divide persone che sono abitualmente dalla stessa parte della barricata, a destra come a sinistra del resto. […] A sinistra, il conflitto riguarda un’altra questione: perché siamo contro lo sfruttamento capitalistico? Ce ne sono che sono contro lo sfruttamento poiché “è inaccettabile che i proletari siano obbligati a vendere la loro forza-lavoro”. In questo caso fornire un’allocazione universale è magnifico, poiché se i proletari lavorano è perché il lavoro è davvero attraente. Si tratta di uno strumento potente al servizio dell’emancipazione dei proletari, dunque se ci si situa a sinistra non si può che essere favorevoli. Ma ce ne sono altri che sono contro lo sfruttamento capitalistico perché permette ai capitalisti di vivere senza lavorare. Ora, i partigiani dell’allocazione universale vorrebbero estendere questa possibilità scandalosa all’insieme della popolazione offrendo a ognuno un’opzione che per fortuna oggi è privilegio di una piccola minoranza. La ragione etica dell’opposizione allo sfruttamento capitalistico è profondamente differente nei due casi, e il dibattito sull’allocazione universale rende manifesta questa tensione.
Un terzo ostacolo al quale è importante prestare attenzione riguarda l’opposizione dei sindacati. Ci sono certi sindacati che hanno sostenuto l’allocazione universale. Nei Paesi Bassi un sostenitore molto forte del movimento per l’allocazione universale, era un sindacato del settore agroalimentare con una maggioranza di donne e di lavoratori a tempo parziale. Non è un caso. Ma in generale i sindacati, nella misura in cui si interessano a un’idea così lontana dalle loro rivendicazioni tradizionali, sono piuttosto ostili. Peraltro l’allocazione universale rappresenta anche un formidabile fondo per gli scioperi: si può scioperare percependo l’allocazione universale. Ciò non dovrebbe costituire un’acquisizione cruciale dal punto di vista sindacale? Non necessariamente. Poiché, con l’allocazione universale, i lavoratori individuali sono anche meno dipendenti dai sindacati.
M: La questione dell’allocazione universale è una questione poco investita dalle donne, perché?
P. V. P.: Non mi sembra che sia una questione meno investita dalle donne rispetto ad altre questioni di politica pubblica. Quale che sia il contesto e il modo di finanziamento, l’instaurazione di un’allocazione universale profitterà maggiormente alle donne che agli uomini. Redistribuirà del reddito dagli uomini verso le donne, e rappresenterà in particolare per le donne un allargamento più consistente delle loro possibilità. In certe sperimentazioni concrete condotte negli Stati Uniti durante gli anni ‘60 vi era stata in primo luogo una riduzione, non enorme ma statisticamente significativa, dell’offerta di lavoro di secondary earners, ossia di membri che contribuivano alla famiglia con un secondo reddito, in gran parte donne. E, in secondo luogo, il tasso di divorzi era aumentato. Che cosa riflette ciò? Da una parte, che certe donne hanno usufruito della possibilità di rifiutare la doppia giornata di lavoro, smettendo di correre dalla loro famiglia al loro impiego, di respirare maggiormente; e, dall’altra parte, che un certo numero di loro si son dette “ne ho abbastanza di quest’uomo, ora che dispongono di un pò di autonomia finanziaria, me ne vado”…
Traduzione di Davide Gallo Lassere
Leggi la versione originale in francese