di Alessandro Brunetti*
La vicenda dei contratti a termine è interessante. Si parte da un assunto
non detto ma assolutamente evidente: la precarietà è una condizione generale
che è destinata ad abbracciare tutta la vita lavorativa e non solo la fase di
inserimento nel mondo del lavoro.
Dalla favole del rottamatore alla dura realtà
dei provvedimenti contro i precari
La
cifra del giovane Renzi incomincia ad assumere contorni ogni giorno più chiari.
Un agire politico in due fasi, prima le immagini semplici ed evocative, che
promettono che tutto andrà bene, poi l’azione di governo che nulla ha a che
fare con la favola. Il parto finale (quantomeno in materia di lavoro) è un
topolino. Un topolino mannaro che divora diritti soggettivi e dignità.
Al
momento, a proposito del famoso Jobs Act, abbiamo davanti esclusivamente un
comunicato stampa della Presidenza del Consiglio dei Ministri che ci informa
della prossima emanazione sia di un Decreto Legge che di un Disegno di Legge.
Due strumenti normativi assolutamente diversi tra loro. Uno abusato, certo e
immediato, in quanto sottratto a ogni confronto parlamentare; mentre l'altro il
più delle volte si traduce in una mera dichiarazioni di intenti, impallinato
dai veti incrociati (in un governo di larghe intese poi figuriamoci) e
sottoposto al volere discrezionale del Ministro di turno. È evidente che,
rispetto ai contenuti del Jobs Act anticipati a mezzo stampa, “dove metti cosa”
ci dice chi sei e che priorità hai. Nel Decreto legge non ci sarebbe traccia di
riforma degli ammortizzatori sociali, di abolizione della pletora dei contratti
iperprecari oggi a disposizione delle aziende, nessun contratto unico a tutele
crescenti, nessuna rimodulazione dell'Aspi (la nuova indennità di
disoccupazione) per estenderla anche ai contratti a progetto, di una via universale
alla maternità. Il qui e ora del Decreto Legge, piuttosto,
focalizza un'urgenza che nulla ha a che fare con il plurievocato contratto
unico: ci sono soltanto due interventi in materia di Contratti a termine e di
Apprendistato.
Entriamo
nel merito. La vicenda dei contratti a termine è interessante. Si parte da un
assunto non detto ma assolutamente evidente: la precarietà è una condizione
generale che è destinata ad abbracciare tutta la vita lavorativa e non solo la
fase di inserimento nel mondo del lavoro. Non c'è più bisogno di fidelizzare,
formare e inserire nella propria compagine aziendale proprio nessuno. Il
“precario massa” entra ed esce dal mercato del lavoro con un bagaglio di
competenze sempre più qualificato, aggiornato e competitivo. Altro non serve.
Si passa continuamente da una situazione lavorativa a un'altra e, ogni volta,
nella pluralità di queste "occasioni" di lavoro formale o informale,
si acquisiscono ulteriore formazione e affinamento. Questo comporta per le
imprese la condizione ottimale per sfruttare il turn over continuo. Ed ecco
dunque che la fonte del profitto passa per la possibilità di poter assumere
liberamente e sbarazzarsi, altrettanto liberamente, del proprio organico (si
hanno percentuali da brivido se viste con gli occhi di trent’anni fa).
Il
legislatore del 2001 (Dlgs 368/01) ha provato a muovere la prima mossa contro
l'istituto ritenendo la disciplina normativa previgente (L.n. 230/62) troppo
rigida. Per una rara eterogenesi dei fini l'operazione non è andata in porto,
in quanto la Direttiva 1999/70/CE, in strumentale applicazione della quale si è
introdotta la norma, ha imposto delle interpretazioni giurisprudenziali
restrittive tali da vanificare il tentativo di liberalizzazione. Il secondo
assalto viene mosso con la Legge Fornero (L.n. 92/12) con la quale è per la
prima volta introdotta la possibilità di stipulare il primo contratto di durata
(per un massimo di un anno) come "acausale": vale a dire che non
viene più richiesta alcuna motivazione in grado di giustificare la durata del
termine, viene cioè scardinato il perno del vaglio di legittimità del contratto
di durata, offrendo così l'occasione alle aziende di esercitare un profittevole turn
over su base annua. L’acausalità implica la possibilità di stipulare
un contratto di durata al di là di qualsivoglia ragione temporanea che ne
giustifichi il ricorso. Anche il più stabile dei lavori può dunque essere
oggetto di un contratto di durata sottoponendo al ricatto della scadenza chi vi
è inquadrato. Tutto ciò andando in frontale conflitto con la Direttiva europea
sopra richiamata, la quale ha espressamente previsto l’eccezionalità del
contratto a termine (rispetto a quello a tempo indeterminato) e la necessità di
disporre misure antifraudolente contro l’abuso. La direzione intrapresa ha
quindi l’evidente effetto di erodere segmenti di lavoro potenzialmente stabile
e di incentivare dinamiche sostitutive dei lavoratori a tempo indeterminato
(agevolate peraltro dalla fortissima attenuazione dell’art.18 dello Statuto dei
Lavoratori, ancora grazie alla stessa riforma Fornero che “lubrifica” le
espulsioni).
Evidentemente
questa enormità sarà apparsa inadeguata per alcuni segmenti produttivi. Qui
arriviamo al primo atto in materia di lavoro del governo Renzi. Il contratto a
termine "acausale" passa da 12 mesi a 36. Ma non è necessario
accendere un contratto a termine acausale di tre anni, sarebbe stato
eccessivamente garantista! Ed ecco allora la possibilità di poter prorogare il
contratto a termine nell'arco di 36 mesi quante volte si vuole! Un contratto
iniziale di una settimana, per esempio, e poi decine e decine di proroghe. Ogni
proroga è puramente eventuale, di conseguenza, la ricattabilità è totale.
Come
già detto, l'ulteriore intervento è sull'apprendistato. Un contratto abusato
all'inverosimile che, oggi come oggi, costituisce una vera e propria piaga
generazionale: con durata sino a 48 mesi, retribuzione attenuata, sgravi
fiscali per il datore di lavoro e un tasso di elusione dell'obbligo di
formazione da brividi. Unico sottile argine (di carta velina) all'abuso era il
piano formativo che doveva essere scritto, consegnato all'apprendista al
momento della stipula del contratto (previa validazione della Direzione
Provinciale del Lavoro che doveva effettuarne il vaglio di legittimità) e in
cui si doveva esplicitare le ore e l'oggetto della formazione, le competenze da
acquisire, il livello contrattuale da raggiungere, etc. Sempre sulla scorta del
piano formativo era poi possibile agire giudizialmente per denunciarne le difformità
dalla realtà e chiedere la conversione a tempo indeterminato. Il Decreto
annunciato opera su due fronti: abolisce il piano formativo e abbatte i limiti
percentuali, sino a oggi vigenti, di lavoratori che possono essere assunti in
apprendistato, in modo da calmierarne l’utilizzo. A questo poi si aggiunge la
possibilità di poter pagare l'apprendista per i periodi formativi (che senza
alcuna formalizzazione scritta, idonea a identificarli, possono essere
tranquillamente evocati per tutta la durata dei 48 mesi di contratto) il 35%
della paga base di un lavoratore subordinato. Chi conosce la miseria delle
retribuzioni correnti sa che si sta parlando di somme irrisorie, che rendono
l'articolo 36 della Costituzione (quello che ottimisticamente evoca una retribuzione
idonea a vivere una vita libera e dignitosa) definitivamente carta straccia.
In
sostanza è un'operazione di svelamento, il cui sottotesto plateale è l'invito
all'inosservanza di alcuna attività formativa. Non solo, l'abolizione dei
diaframmi di calmierizzazione lo rendono un ulteriore duttile strumento per
agire un turn over sì giovanile ma pur sempre servile.
È
assolutamente evidente, quindi, che senza un vero rilancio dell’occupazione
l’ulteriore precarizzazione e l’impoverimento dei contratti non possono
materialmente condurre ad alcun aumento occupazionale, ma solo a un ulteriore
movimento di scambio tra ciò che resta del lavoro stabile e il lavoro precario
e sottopagato, da cui conseguono poi ulteriori effetti recessivi.
Dulcis
in fundo, vale la pena
evidenziare anche l'altra (ultima) proposta che dovrebbe essere subito
operativa: è quella di una riduzione dell'Irpef soltanto per i redditi bassi da
lavoro dipendente. Prescindendo dalla quasi irrisorietà della misura, non era
meglio, eventualmente, abbassare ancora di più la soglia (oggi è a 1.500 euro
al mese), ma estendere la riduzione anche ai tanti lavori autonomi di nuova
generazione?
Insomma
non si "cambia verso" né per la ricetta (nuova precarietà) né per la
platea (il buon vecchio lavoro servile del '900, per altro ancor più
dequalificato con la fine del piano formativo nell'apprendistato).
Se
questo è il buongiorno del mattino renziano serve una rapida, davvero rapida,
sveglia.
*Avvocato
CLAP-Camere del lavoro autonomo e precario