martedì 18 marzo 2014

Sabotare la gestione del tempo: politiche della memoria

di Elvira Vannini
La memoria collettiva “ha costituito un’importante posta in gioco nella lotta per il potere condotta dalle forze sociali. Impadronirsi della memoria e dell’oblio è una delle massime preoccupazioni delle classi, dei gruppi e degli individui che hanno dominato e dominano le società storiche” (Jacques Le Goff, Storia e Memoria, 1986)

Nell’analisi del regime di visibilità delle insorgenze e dei movimenti di protesta post-Seattle, Maurizio Lazzarato introduce una rottura con il vecchio paradigma della rappresentazione, sia nei modi di produzione politica che estetica: “linguaggio, segni e immagini non riproducono qualcosa ma piuttosto contribuiscono a renderla possibile […] sono costitutivi della realtà e non sue rappresentazioni”.
Così le pratiche documentarie contenute nell’antologia Politiche della memoria. Documentario e archivio (DeriveApprodi 2014), a cura di Elisabetta Galasso e Marco Scotini, contribuirebbero piuttosto a una trasformazione della storia, attraverso la memoria e la sua riscrittura, nel cuore dei processi di produzione delle soggettività contemporanee. Il libro, nato da cinque anni di incontri con artisti e filmmaker internazionali presso la NABA di Milano, è una delle poche pubblicazioni in italiano sull’argomento a cui potremmo associare The Migrant Image di T.J Demos e The Greenroom di Maria Lind e Hito Steyerl, in area anglo-americana.

Quale sarebbe allora il ruolo delle immagini all’interno di un sistema capitalista mediatizzato in cui la rappresentazione delle soggettività è sottomessa alle “macchine che cristallizzano il tempo”, ossia ai dispositivi mediatici che duplicano la realtà, controllano la memoria sociale e agiscono sulle temporalità per ristabilirne il dominio? È qui che emerge il conflitto. Nella varietà degli approcci ambivalenti alla memoria (quella nata dalla dissoluzione del blocco sovietico, dalla guerra israelo-palestinese fino ai più recenti sviluppi insurrezionali del mondo arabo, insieme ai flussi migratori e i processi di insubordinazione post-coloniale) le discontinuità elidono la svolta semiotica del capitale nella sua ristrutturazione neoliberale ma senza abbandonarsi a nessuna delle narrazioni storiche consolidate. Perché il passato si contrae sempre nel presente e agisce, continuando ad esistere, sul concatenamento tra percezione e memoria sollevando una contro-genealogia politica, attraverso cui la filmografia si è misurata col documentario fino a superarlo.
Per John Akomfrah, che ci offre uno dei contributi più significativi ed è stato tra i fondatori del Black Audio Film Collective, la memoria è lo spettro di una diaspora segnata da un’assenza, ossessionata dal problema della sua storia come modo di legittimazione del presente. L’archivio è il punto di partenza anche per il regista israeliano Eyal Sivan, uno strumento di potere gestito dalle istituzioni nel rapporto tra ricordo e violenza. Perché quando la memoria diventa un oggetto di coercizione il problema non è tanto di ricordare ma l’oggetto stesso del ricordo e l’atto cinematografico assume un valenza politica.
La questione culturale dell’amnesia di stato, la correzione del trauma e la sua rimozione sono al centro del caso libanese raccontato da Mohanad Yaqubi. Migliaia di metri di pellicola sulla guerra civile del 1976 sono sopravvissuti e sono oggi conservati a Roma presso l’archivio del movimento operaio. L’autore ne racconta il viaggio, da Beirut in Italia, attraverso le vicende di tre filmmaker militanti palestinesi, vicini a Godard e Gorin, durante il loro soggiorno in Giordania negli anni 70. Produrre la lotta, filmare la lotta, contribuire alla lotta: questo era l’imperativo che esortava ad assumere l’arma cinematografica come strumento di organizzazione antagonista.
Il problema del processo di documentazione è invece affrontato da Hito Steyerl attraverso la nozione di “immagini povere”: queste immagini sono quelle che circolano sul web e “offrono un’istantanea della condizione affettiva della moltitudine”. Ma è anche Florian Schneider a parlarcene: se la produzione artistica è un atto di resistenza rispetto alla comunicazione, allora “le tecnologie del sé possono riscrivere la storia”. Il retaggio etnografico ritorna nella filmmaker indipendente Trinh T. Minh-ha, teorica femminista e di studi postcoloniali, “consapevole che l’oppressione sta tanto nella storia raccontata quanto nelle forme del suo racconto”.
Non si tratta del “mal d’archivio” di Derrida che conserva le ceneri del passato ma di uno strumento attivo, che non reifica l’apparato documentario della storia e il suo racconto dominante, nella coscienza del suo carattere assolutamente politico. Qui abbiamo a che fare con l’archivio nascosto, pieno di ombre e di modelli spesso non riconosciuti dalla storiografia normativa, che assume piuttosto la persistenza del passato come tempo-latenza, virtualità costituente di quei rapporti di soggettivazione, conflitto e linee di fuga, capaci di far insorgere la memoria.
Allo stesso modo come insorgono i movimenti contro il potere – conclude Scotini nel suo saggio significativamente intitolato Governo del tempo e insurrezione delle memorie. Perché sabotare la memoria non può essere oggi un’operazione neutrale, oggettiva, ne tantomeno un gesto innocente. La sua funzione è quella di “produrre la storia, dunque renderla visibile. Le politiche della memoria rispondono al monopolio dell’apparenza neoliberista”.