di
Euronomade
catene produttive,
lavoro migrante, finanza, questi i temi su cui ruota l’intervista al ricercatore
di Sociologia dei processi economici e del lavoro dell’Università patavina (Dipartimento
FISPPA), esperto dei fenomeni economico-sociali nell’area dei paesi est-europei.
Uno spazio nel quale, segnala Devi Sacchetto, “le stratificazioni sono ben
visibili sulla base sia delle condizioni storiche sia anche dei nuovi processi
che si sono sviluppati negli anni più recenti”
d. Tu hai lavorato molto sull’Europa dell’Est e
in almeno due direzioni: la prima concerne i flussi migratori e la composizione
della forza lavoro; la seconda, mi sembra di poter dire, riguarda i processi di
riorganizzazione del comando di impresa. Ci puoi dare qualche impressione di
quadro?
r. Seguo le vicende dei
paesi dell’Europa orientale da più di quindici anni. Mi pare che la situazione
sia oggi molto articolata. Dal punto di vista spaziale si tratta di un’area che
è attraversata contemporaneamente da processi di emigrazione (e talvolta
ritorni), immigrazioni, rilocalizzazione e anche di ulteriore
ri-rilocalizzazione. Questi fenomeni hanno assunto dimensioni di massa, basti
pensare da un lato alle migrazioni dei romeni, dei polacchi o anche dei lituani
e dall’altro lato agli investimenti produttivi nella Repubblica ceca, in Polonia,
Ungheria, ma anche in Romania. L’area dell’Europa orientale è stata etichettata
come la maquiladora dell’Europa
occidentale dedita prevalentemente all’esportazione. È uno spazio però nel
quale le stratificazioni sono ben visibili sulla base sia delle condizioni
storiche sia anche dei nuovi processi che si sono sviluppati negli anni più
recenti.
Per quello che riguarda le emigrazioni esse oggi si articolano in modo assai diverso da come gli studi solitamente presentano questi movimenti, mettendo a soqquadro le categorie di circolarità, permanenza, pendolarità. Una parte consistente della forza lavoro est-europea, ovviamente in particolare quella più giovane, ha preso sul serio le opportunità offerte dallo spazio europeo, muovendosi in quest’area attraverso agenzie di reclutamento, reti famigliari e amicali o anche individualmente cercando le migliori opportunità di lavoro. A fronte di un relativo filtraggio per i migranti non-EU noi assistiamo a una libertà di movimento per i cittadini EU che viene in parte osteggiata come i recenti provvedimenti in Gran Bretagna paiono indicare. E come già qui in Italia si era tentato di fare con forme di razzismo istituzionale e di differenzialismo democratico. Mi pare non ci sia la prospettiva del ritorno della figura del lavoratore ospite come qualche ricercatore ha provato a mettere a tema. Piuttosto questa forza lavoro sta cercando di costruirsi un mercato del lavoro internazionale. È pur vero che i processi produttivi e le condizioni di lavoro generano un continuo turn over e spingono alla mobilità, cercando per questa via anche di gestire la conflittualità. La crisi economica internazionale sta accelerando la costruzione di un mercato del lavoro europeo nel quale ormai sono molti i paesi che possono contare su una composizione della forza lavoro variamente articolata. Nella Repubblica ceca il 10% della manodopera è straniera, così anche in Polonia, mentre qualche azienda italiana in Romania ha pensato bene di importare forza lavoro dalla Cina e dal Bangladesh.
In questa fase il ruolo dello stato è ovviamente del tutto diverso rispetto al passato ma occorre non sottovalutarlo perché è indispensabile nella continua moltiplicazione delle giurisdizioni, che significa poi condizioni di lavoro, livelli di agibilità e profittabilità per le imprese, ma anche controllo della conflittualità. Voglio dire che a fronte di un innegabile processo di omogeneizzazione a livello ad esempio legislativo, poi ogni stato europeo fissa propri parametri per quanto riguarda ad esempio il mercato del lavoro o gli investimenti stranieri o i livelli salariali. Ogni paese rappresenta quindi un luogo con proprie caratteristiche e regole legislative. Il concetto di differenziazione penso che da questo punto di vista sia centrale. Capisco che possa sembrare una proposta da retroguardia, ma la convergenza a livello europeo almeno dei livelli salariali potrebbe essere un elemento importante per la riorganizzazione di questo proletariato.
Per quello che riguarda le emigrazioni esse oggi si articolano in modo assai diverso da come gli studi solitamente presentano questi movimenti, mettendo a soqquadro le categorie di circolarità, permanenza, pendolarità. Una parte consistente della forza lavoro est-europea, ovviamente in particolare quella più giovane, ha preso sul serio le opportunità offerte dallo spazio europeo, muovendosi in quest’area attraverso agenzie di reclutamento, reti famigliari e amicali o anche individualmente cercando le migliori opportunità di lavoro. A fronte di un relativo filtraggio per i migranti non-EU noi assistiamo a una libertà di movimento per i cittadini EU che viene in parte osteggiata come i recenti provvedimenti in Gran Bretagna paiono indicare. E come già qui in Italia si era tentato di fare con forme di razzismo istituzionale e di differenzialismo democratico. Mi pare non ci sia la prospettiva del ritorno della figura del lavoratore ospite come qualche ricercatore ha provato a mettere a tema. Piuttosto questa forza lavoro sta cercando di costruirsi un mercato del lavoro internazionale. È pur vero che i processi produttivi e le condizioni di lavoro generano un continuo turn over e spingono alla mobilità, cercando per questa via anche di gestire la conflittualità. La crisi economica internazionale sta accelerando la costruzione di un mercato del lavoro europeo nel quale ormai sono molti i paesi che possono contare su una composizione della forza lavoro variamente articolata. Nella Repubblica ceca il 10% della manodopera è straniera, così anche in Polonia, mentre qualche azienda italiana in Romania ha pensato bene di importare forza lavoro dalla Cina e dal Bangladesh.
In questa fase il ruolo dello stato è ovviamente del tutto diverso rispetto al passato ma occorre non sottovalutarlo perché è indispensabile nella continua moltiplicazione delle giurisdizioni, che significa poi condizioni di lavoro, livelli di agibilità e profittabilità per le imprese, ma anche controllo della conflittualità. Voglio dire che a fronte di un innegabile processo di omogeneizzazione a livello ad esempio legislativo, poi ogni stato europeo fissa propri parametri per quanto riguarda ad esempio il mercato del lavoro o gli investimenti stranieri o i livelli salariali. Ogni paese rappresenta quindi un luogo con proprie caratteristiche e regole legislative. Il concetto di differenziazione penso che da questo punto di vista sia centrale. Capisco che possa sembrare una proposta da retroguardia, ma la convergenza a livello europeo almeno dei livelli salariali potrebbe essere un elemento importante per la riorganizzazione di questo proletariato.
d. Con Rutvica Andrijasevic hai di recente lavorato
sulla Foxconn a Padubice, vicino Praga (si veda: → La
Cina è lontana, la Foxconn è vicina; → China
may be far away but Foxconn is on our doorstep). Ci sembra che si tratti di un caso molto
interessante di riterritorializzazione del capitale finanziario in conformità
con un “uso capitalistico” dello spazio nazionale e cioè del ritaglio, ai
confini d’Europa, di zone di produzione speciali all’interno delle quali – così
come avviene in molti altri luoghi del globo – mettere a valore differenze
salariali e deroghe dal diritto del lavoro. Meglio: ci sembra che questo caso
dimostri esattamente che cosa significhi mettere a valore la frontiera. Sia per
quanto attiene allo sfruttamento di migranti, sia per quanto attiene alla
composizione di una specifica spazialità del capitale. Ce ne puoi parlare?
r. La Foxconn è
un’impresa taiwanese con 1,3 milioni di occupati, il terzo datore di lavoro
privato a livello mondiale. Si tratta di un caso interessante per svariate
ragioni. Provo a dirtene qualcuna: innanzitutto si tratta di investimenti dai
paesi asiatici a quelli europei, per quanto nell’Europa orientale. Questo ci
permette di superare i limiti dei molti studi che guardano ai flussi dal mondo
occidentale a quello dei cosiddetti paesi in via di sviluppo o dei molti che si
soffermano sulla questione del costo del lavoro o sulla rincorsa verso il basso
delle condizioni di lavoro. I livelli salari sono uno degli aspetti, ma la
prima domanda di una delegazioni di imprenditori giapponesi nella Repubblica
ceca è stata: “Qual è il ruolo dei sindacati? Quanti scioperi ci sono? C’è una
certa pace sociale o vi sono tensioni sociali?”. Credo occorra tenere in considerazione
anche altri elementi come i livelli di tassazione, le barriere tariffarie e il
ruolo delle altre istituzioni nazionali o internazionali, come ad esempio
l’Omc. La Foxconn ha iniziato a investire nella Repubblica ceca nel 2000 e
adesso ha due stabilimenti che occupano circa 8-9000 persone; poco meno della
metà sono migranti europei assunti da agenzie di reclutamento internazionali
direttamente nel loro paese di origine.
In secondo luogo questo caso mette in luce come l’attuale sistema produttivo mondiale funzioni come una rete che di volta in volta incorpora o espelle quei nodi produttivi non indispensabili o problematici. Le catene produttive che si estendono a livello globale rispondono quindi alla politica dei confini in senso sia commerciale sia del mercato del lavoro. La creazione di aree dove stabilire o ristabilire le condizioni per avviare “nuovi” cicli di accumulazione è un processo incessante e in questo è fondamentale reperire e costruirsi specifiche composizioni di forza lavoro. Se ogni nodo di questa immane rete produttiva è incastrata all’interno di elementi sociali e istituzionali occorre non pensarli mai in modo statico: la Foxconn ad esempio nel reclutamento del suo personale ha riattivato le vecchie reti tra i paesi del blocco socialista ma agisce attraverso delle agenzie di reclutamento internazionale che si appoggiano anche al web per reperire personale. Non è detto che questo elemento rimanga sempre uguale. Quello che ci interessa qui non è solo comparare gli stabilimenti nella Repubblica ceca con quanto succede negli stabilimenti della Foxconn in Cina dove ha quasi un milione di dipendenti, ma comprendere come questa multinazionale gestisca ogni singolo nodo produttivo in modo diversificato. La catena produttiva della Foxconn tiene insieme molte nicchie diverse di lavoro vivo: a fronte di una relativa omogeneizzazione dal punto di vista dei macchinari, delle linee di assemblaggio e dell’organizzazione della produzione, quello che noi notiamo è una molteplicità di composizioni della forza lavoro e di modalità di gestione di questa manodopera. La questione non è soffermarsi sull’analisi dello Stato o del locale, ma andare a guardare come gli elementi locali/statali vengano inseriti nella macchina produttiva mondiale.
Un altro elemento da tenere in considerazione e che mi pare importante è come la Foxconn cerchi di collocare gli stabilimenti prossimi al luogo della riproduzione. Sappiamo bene che la compressione del tempo e dello spazio è una costante storica del capitale. Da questo punto di vista niente di nuovo. Quello che mi pare rilevante è che ogni nodo della catena produttiva mondiale cerca di comprimere la dimensione spazio-temporale con diversi strumenti sulla base degli elementi “locali”. Nella Repubblica ceca la Foxconn come altre aziende, ad esempio la Panasonic, usa dei dormitori prossimi alla fabbrica dove ospita i migranti assunti dalle agenzie interinali. Qualcuno potrebbe pensare ai bui opifici manchesteriani e alle stamberghe in cui vivevano gli operai inglesi. In realtà qui siamo su tutt’altra dimensione. Certo questi dormitori non sono alberghi a cinque stelle, ma negli stabilimenti, dove le operazioni stanno sotto il minuto, il lavoro morto ha assunto una potenza enorme. Mentre all’esterno i lavoratori migranti si trovano in un ambiente de-solidarizzato e senza una comunità su cui fare affidamento. E’ pur vero che questo talvolta ha permesso anche lo sviluppo di forme di organizzazione, ma il turnover lavorativo è stato al momento gestito oculatamente dalle agenzie di reclutamento. Per questo noi riteniamo importante nella nostra analisi tenere insieme i processi di produzione e di riproduzione. Due elementi sovente tenuti debitamente separati negli studi.
In secondo luogo questo caso mette in luce come l’attuale sistema produttivo mondiale funzioni come una rete che di volta in volta incorpora o espelle quei nodi produttivi non indispensabili o problematici. Le catene produttive che si estendono a livello globale rispondono quindi alla politica dei confini in senso sia commerciale sia del mercato del lavoro. La creazione di aree dove stabilire o ristabilire le condizioni per avviare “nuovi” cicli di accumulazione è un processo incessante e in questo è fondamentale reperire e costruirsi specifiche composizioni di forza lavoro. Se ogni nodo di questa immane rete produttiva è incastrata all’interno di elementi sociali e istituzionali occorre non pensarli mai in modo statico: la Foxconn ad esempio nel reclutamento del suo personale ha riattivato le vecchie reti tra i paesi del blocco socialista ma agisce attraverso delle agenzie di reclutamento internazionale che si appoggiano anche al web per reperire personale. Non è detto che questo elemento rimanga sempre uguale. Quello che ci interessa qui non è solo comparare gli stabilimenti nella Repubblica ceca con quanto succede negli stabilimenti della Foxconn in Cina dove ha quasi un milione di dipendenti, ma comprendere come questa multinazionale gestisca ogni singolo nodo produttivo in modo diversificato. La catena produttiva della Foxconn tiene insieme molte nicchie diverse di lavoro vivo: a fronte di una relativa omogeneizzazione dal punto di vista dei macchinari, delle linee di assemblaggio e dell’organizzazione della produzione, quello che noi notiamo è una molteplicità di composizioni della forza lavoro e di modalità di gestione di questa manodopera. La questione non è soffermarsi sull’analisi dello Stato o del locale, ma andare a guardare come gli elementi locali/statali vengano inseriti nella macchina produttiva mondiale.
Un altro elemento da tenere in considerazione e che mi pare importante è come la Foxconn cerchi di collocare gli stabilimenti prossimi al luogo della riproduzione. Sappiamo bene che la compressione del tempo e dello spazio è una costante storica del capitale. Da questo punto di vista niente di nuovo. Quello che mi pare rilevante è che ogni nodo della catena produttiva mondiale cerca di comprimere la dimensione spazio-temporale con diversi strumenti sulla base degli elementi “locali”. Nella Repubblica ceca la Foxconn come altre aziende, ad esempio la Panasonic, usa dei dormitori prossimi alla fabbrica dove ospita i migranti assunti dalle agenzie interinali. Qualcuno potrebbe pensare ai bui opifici manchesteriani e alle stamberghe in cui vivevano gli operai inglesi. In realtà qui siamo su tutt’altra dimensione. Certo questi dormitori non sono alberghi a cinque stelle, ma negli stabilimenti, dove le operazioni stanno sotto il minuto, il lavoro morto ha assunto una potenza enorme. Mentre all’esterno i lavoratori migranti si trovano in un ambiente de-solidarizzato e senza una comunità su cui fare affidamento. E’ pur vero che questo talvolta ha permesso anche lo sviluppo di forme di organizzazione, ma il turnover lavorativo è stato al momento gestito oculatamente dalle agenzie di reclutamento. Per questo noi riteniamo importante nella nostra analisi tenere insieme i processi di produzione e di riproduzione. Due elementi sovente tenuti debitamente separati negli studi.
d. Mi sembra rilevante concentrarci un momento di più su queste forme
interne di divisione della forza lavoro; ed in particolare sulla differenza tra
lavoratori contrattati direttamente dalle imprese (diretti) e quelli invece
reclutati dalle agenzie di mediazione (indiretti). Non ti sembra?
r. La forza lavoro nei
due stabilimenti è separata da diversi elementi: innanzitutto la nazionalità
perché i cechi sono circa la metà e gli altri sono slovacchi, polacchi, rumeni,
bulgari e una quota anche di ucraini, vietnamiti e mongoli. Poi per contratto di
lavoro diretti e indiretti. Per genere, circa il 60-65% sono uomini. Per età
con una forza lavoro relativamente giovane 20-40 anni, ma una quota anche di
migranti anziana. Poi per orari di lavoro dalle classiche 12 ore (6-18) a chi
fa i tre turni giornalieri sulle otto ore a quanti fanno il cosiddetto
giornaliero. C’è ovviamente una distinzione anche per le cosiddette capacità
professionali, ma queste non sempre sono valutate. Infine per sistemazione
abitativa, chi dorme nei dormitori, cioè molti dei migranti e chi in abitazioni
private. Queste differenziazioni sono dispiegate in senso gerarchico con i
cechi nelle posizioni migliori e i migranti distribuiti nelle diverse mansioni
sulla base della loro nazionalità, oltre che competenze. Cechi e migranti sembrano
guardarsi e non capirsi, ma non tanto per incomprensioni linguistiche ma per le
diverse prospettive. Il migrante ha un interesse relativo al posto di lavoro
per quanto alcuni stiano lì anche diversi anni.
d. Questi processi, tuttavia, non mostrano una
cifra univoca. Quali sono le traiettorie di resistenza del lavoro vivo che li
attraversano? Ed in particolare: ci sono esperienze di riorganizzazione delle
forme di intervento sindacale nell’Europa centrale e dell’Est? A noi sembra che
qualcosa, forse, in Germania si stia muovendo…
r. Nell’Europa
orientale permane l’ombra lunga del comunismo. E mi pare che quanto accade in
Ucraina ne sia una testimonianza. Pro-Ue o Pro-Unione Sovietica i manifestanti
mirano a modificare le loro condizioni di vita. Si tratta come è ben
comprensibile di abbagli, ma sotto i quali si nasconde un processo di
proletarizzazione e di “sistemazione” di quelle aree come una forza lavoro da
mobilitare sia per le emigrazioni, a ovest come a est, sia per spezzoni di
processi produttivi. La tremenda crisi demografica che ha interessato l’Ucraina
(come la Russia) in questi ultimi vent’anni penso sia un elemento da tenere in
considerazione.
Nell’Europa dell’est vi sono stati momenti anche importanti di ripresa della conflittualità operaia, come nel caso della Dacia-Renault in Romania. Mi pare tuttavia che siamo ancora in larga parte di fronte a singole vertenze o a forme di resistenza individuali. Molti imprenditori italiani in Romania ti raccontano ad esempio di come nelle loro fabbriche questi lavoratori siano anche in grado di mettere in campo forme di contrattazione basate sul luogo di lavoro in modo indipendente, oppure che in molti cercano di non entrare in queste fabbriche preferendo emigrare o vivere attraverso le rimesse e un pezzo di orto. Sono forme di resistenza che sono state talvolta teorizzate come agency. A me pare si tratti di un’agency debole e individuale, al massimo familiare, per il momento. D’altra parte il processo di riorganizzazione sindacale è sostanzialmente fallito. Ci troviamo di fronte in larga parte a un sindacato social-liberista, poco attento alle questioni classiche dell’organizzazione e delle condizioni di lavoro, più attento ai pezzi di welfare che l’azienda permette di gestire. Le connessioni che ad esempio la Foxconn è riuscita a riattivare tra paesi dell’ex-socialismo reale, i sindacati neanche ci provano. Eppure i taiwanesi hanno un’azienda in Slovacchia e un paio anche in Ungheria.
L’aspetto a mio avviso più interessante e che potrebbe rimescolare le carte è questa giovane forza lavoro esteuropea, composta da uomini e donne in quasi egual misura, in particolare di slovacchi, rumeni, polacchi, lituani che si muove in Europa e che inizia ad avere una buona esperienza di diverse condizioni di lavoro e di comando d’impresa. È pur vero che siamo in una situazione più simile all’esperienza degli Hobo che a quella di un’organizzazione come gli IWW, tanto per capirci. Sindacati e partiti sono considerati elefanti inadeguati. Non è un caso che i sindacati più interessanti siano quelli con posizioni anarchiche che tuttavia mi pare non abbiano strumenti adeguati per ramificarsi oltre il ristretto ambito in cui sono attivi e neppure una capacità di strutturare una loro linea politica.
Nell’Europa dell’est vi sono stati momenti anche importanti di ripresa della conflittualità operaia, come nel caso della Dacia-Renault in Romania. Mi pare tuttavia che siamo ancora in larga parte di fronte a singole vertenze o a forme di resistenza individuali. Molti imprenditori italiani in Romania ti raccontano ad esempio di come nelle loro fabbriche questi lavoratori siano anche in grado di mettere in campo forme di contrattazione basate sul luogo di lavoro in modo indipendente, oppure che in molti cercano di non entrare in queste fabbriche preferendo emigrare o vivere attraverso le rimesse e un pezzo di orto. Sono forme di resistenza che sono state talvolta teorizzate come agency. A me pare si tratti di un’agency debole e individuale, al massimo familiare, per il momento. D’altra parte il processo di riorganizzazione sindacale è sostanzialmente fallito. Ci troviamo di fronte in larga parte a un sindacato social-liberista, poco attento alle questioni classiche dell’organizzazione e delle condizioni di lavoro, più attento ai pezzi di welfare che l’azienda permette di gestire. Le connessioni che ad esempio la Foxconn è riuscita a riattivare tra paesi dell’ex-socialismo reale, i sindacati neanche ci provano. Eppure i taiwanesi hanno un’azienda in Slovacchia e un paio anche in Ungheria.
L’aspetto a mio avviso più interessante e che potrebbe rimescolare le carte è questa giovane forza lavoro esteuropea, composta da uomini e donne in quasi egual misura, in particolare di slovacchi, rumeni, polacchi, lituani che si muove in Europa e che inizia ad avere una buona esperienza di diverse condizioni di lavoro e di comando d’impresa. È pur vero che siamo in una situazione più simile all’esperienza degli Hobo che a quella di un’organizzazione come gli IWW, tanto per capirci. Sindacati e partiti sono considerati elefanti inadeguati. Non è un caso che i sindacati più interessanti siano quelli con posizioni anarchiche che tuttavia mi pare non abbiano strumenti adeguati per ramificarsi oltre il ristretto ambito in cui sono attivi e neppure una capacità di strutturare una loro linea politica.
d. È a tuo avviso necessario spostare l’analisi
sull’uso capitalistico dello spazio europeo, sulla sua riconfigurazione
multilivello (aree metropolitane, spazi transfrontalieri, traiettorie
finanziarie globali), e sulla temporalità frammentata e discontinua dei
processi che vengono messi a valore? Perché, se fosse così, i vettori di
politicizzazione da organizzare dovrebbero trovare spazi e tempi differenti e
nuovi… Come si può considerare l’uso dello spazio da parte
dell’accumulazione (e delle lotte). Intendo: non c’è uno spazio nazionale e non
c’è uno spazio europeo liscio, mi pare. Ciò che abbiamo di fronte sono
striature e riorganizzazioni dello spazio secondo traiettorie “metropolitane”,
messe a valore della specificità transfrontaliera, investimenti globali su
territori specifici, rincorse all’esternalizzazione di comparti produttivi,
valorizzazione di filtri alla mobilità che non sono semplici frontiere etc. Se
non mi sbaglio, questa dimensione è quella che rende complicato il processo di
campagne e di lotte: i compromessi welfaristi o socialdemocratici non possono
tenere, né può immediatamente funzionare uno spazio di mobilitazione europeo
che non tenga conto della vischiosità e dei freni che queste differenze
specifiche permettono.
r. Sono d’accordo
sull’idea delle striature che non si sovrappongono solo ai confini statuali ma
che attraversano e segnano le diverse aree europee. Non sono confini in senso
classico, ma spazi che permettono di volta in volta una valorizzazione
diversificata. I confini attraversano anche la stessa composizione della forza
lavoro all’interno del medesimo stabilimento. La moltiplicazione di questi
nuovi regimi lavorativi si sostiene e sviluppa specifici processi di
razzializzazione e genderizzazione che depotenziano le forme della cittadinanza
europea. D’altra parte, non bisogna nascondersi che talvolta gli stessi
migranti mettono in campo questi processi di differenziazione rendendo
assolutamente complicata una convergenza.