di Toni Negri
perché l’Europa? Perché
siamo “europeisti” anche dopo che del neoliberalismo abbiamo direttamente
subito la repressione feroce, l’austerità orribile e ne abbiamo fatto l’oggetto
del nostro odio? E dopo aver implicitamente riconosciuto che l’Europa rappresenta nel quadro
istituzionale presente, il più completo esempio di consolidamento dello Stato neoliberale?
Scusate se la prendo da
lontano. Vorrei infatti chiedermi prima di tutto che cosa vuol dire “far
politica oggi” e risalire poi al tema Europa. Far politica sul terreno
dell’autonomia, vale a dire assumendo il punto di vista del soggetto sovversivo
e di conseguenza analizzando le figure e i modi di agire del proletariato
precario-cognitivo. Ritrovo infatti i bisogni e i desideri di questo soggetto
come dispositivo centrale, virtualmente egemonico, nell’analisi dei movimenti
della moltitudine dominata e sfruttata nella sua lotta contro l’ordine
capitalista.
Ci sono due argomenti,
meglio, due topoi che vanno assunti affrontando questo tema. Il
primo è oggettivo, bisogna cioè chiedersi che cosa significa porsi dentro
lo sviluppo capitalistico nella fase critica dell’egemonia neoliberale.
Potremmo anche, probabilmente, cominciare ad interrogarci sui “limiti del
capitalismo”, togliendo tuttavia di mezzo preventivamente ogni previsione
catastrofica comunque questa si presenti ed ogni nostalgia di una tradizione
attestata da troppo tempo su questa illusione. Il contesto capitalistico è oggi
caratterizzato dal dominio del capitale finanziario che sta consolidando la sua
azione dopo una lunga transizione, che risale almeno alla seconda metà degli
anni ’70. L’abbiamo ampiamente seguita, questa evoluzione, e spesso anticipata
nel nostro lavoro collettivo: vediamone dunque semplicemente le conclusioni. Il capitale
finanziario è egemone, non lo si può più definire come facevano Marx e
Hilferding, poiché esso si è fatto capitale direttamente produttivo:
cerca oggi la sua stabilizzazione esercitando attività estrattive sia
nei confronti della natura e delle sue ricchezze, sia nei confronti del
biopolitico-sociale (cioè del welfare). Quando parliamo di
consolidamento del potere del capitale finanziario ne parliamo ipotizzando (ed
è una ipotesi che si avvicina ormai ad una verifica conclusiva) che la
trasformazione del capitalismo abbia comportato (tra l’altro – ma
l’osservazione è tanto limitativa dell’analisi, quanto importante per
concentrare quest’ultima su quanto ci interessa) – abbia dunque comportato una
assai profonda trasformazione delle forme territoriali e delle strutture
istituzionali nell’assetto globale degli Stati e delle nazioni nel “secolo
breve”. Questa trasformazione comincia all’interno dei singoli mercati
nazionali dove, in ciascuno di essi, la struttura produttiva capitalistica è
riorganizzata dopo la prima Grande Guerra (rispondendo al trionfo della
rivoluzione bolscevica), secondo moduli contrattuali keynesiani. Nel secondo
dopoguerra e dopo le “ricostruzioni”, questo modulo di organizzazione sociale e
di comando capitalista comincia ad essere fragilizzato e talora a saltare sotto
la pressione operaia: è allora che comincia la rivoluzione neoliberale a
partire dalla fine degli anni ’70 con una straordinaria accelerazione
all’inizio del XXI secolo. Essa riorganizza innanzitutto lo Stato secondo
modalità fiscali nella gestione della crisi e nella governance del
debito pubblico. Il procedere della mondializzazione che interviene in quel
periodo e l’affermazione globale dei “mercati finanziari” spostano il controllo
delle possibilità debitorie dello Stato dal potere pubblico alle strutture che
organizzano il privato, dall’equilibrio dell’amministrazione interna
dello Stato all’equilibrio costruito sotto il dominio dei “mercati”
globali.
È a questo punto che si dà
una definitiva frattura fra il nuovo ordine capitalistico globale e i soggetti
che vivevano nel precedente ordinamento capitalistico dei singoli Stati-nazione
– in quell’ordinamento “riformista” del capitale, cioè, che avendo introdotto
keynesianamente il movimento operaio nel contratto sociale, ne disciplinava i
comportamenti secondo regole cosiddette “democratiche”. Se nello Stato fiscale,
presto pervenuto alla crisi, il debito statale aveva assunto quel ruolo di
anticipazione della spesa che prima aveva avuto l’inflazione (in senso opposto,
come strumento di devalorizzazione della spesa) e se presto la fiscalità non è
più sufficiente a sostenere il debito promosso dallo Stato – se dunque la
struttura del debito muta e il neoliberalismo, facendo del mercato la regola
dello sviluppo e dei “mercati” la giustizia del pianeta, impone la
privatizzazione globale del debito…. dato tutto questo, la crisi capitalistica
si presenta oggi come impossibilità di far agire all’interno dello sviluppo
stesso qualsiasi elemento di mediazione, qualunque struttura contrattuale,
insomma il keynesismo in tutte le diverse accezioni riformiste che esso possa
eventualmente assumere. D’altra parte, questo sviluppo (se riguardato dal punto
di vista delle lotte del soggetto sovversivo) ci restituisce un modulo assai
consistente di lotta di classe. Da un lato tutti coloro che possono
partecipare all’”interesse” (cioè al profitto monetario – alla partecipazione
alla pratica globale dell’usura dei mercati privati e/o semipubblici) costruito
sul mercato finanziario; dall’altro lato tutti coloro che considerano
l’esercizio della loro forza-lavoro reso socialmente utile dal loro “stare
insieme” e quindi dall’esigenza (bisogno e desiderio) di essere garantiti nel
corso della loro vita non dal perdurare della barbarie del privato possesso ma
dal possibile godimento dell’accesso al comune. E non c’è “nessuna classe
media” fra queste due realtà etiche.
Il secondo presupposto è
soggettivo, ne abbiamo accennato le caratteristiche etiche
– ora si tratta di studiarne (anche in questo caso riassumendo un lavoro
collettivamente compiuto) l’ontologia della produzione. In
essa si ricompongono dunque le modificazioni intervenute nella composizione
della classe lavoratrice. Essa non è più (come da molto tempo si sa) “operaia”
in senso esclusivo, tanto meno può essere qualificata come centrale nei
processi di valorizzazione – la dimensione immateriale, intellettuale,
cooperativa e la rete (come tessuto di ogni attività produttiva) sono
diventati gli elementi centrali della valorizzazione produttiva. La forza-lavoro
si è dunque radicalmente modificata. Nessuna nostalgia della vecchia classe
operaia. Impegno, invece, a ritrovarne le stigmate nel continuum della
“disindustrializzazione”, determinata (non tanto dal capitale finanziario
quanto) dall’automazione industriale e dalla sua espansione a tutto il sistema
dei servizi produttivi (sicché anche l’operaio industriale è oggi lavoratore
immateriale). La radicalità di questa modificazione è estrema. Altrove
abbiamo definito l’insieme della forza-lavoro nella sua dimensione di soggetto
sfruttato nello sviluppo del capitale finanziario come un composto da individui
“indebitati, mediatizzati, securizzati, rappresentati”. In questo quadro lo
sfruttamento avviene assumendo la società come totalità, investe e sussume l’intera
società. È uno sfruttamento estrattivo. La qualità estrattiva dello
sfruttamento significa che l’analitica “temporale” (quella marxiana, per
esempio) delle figure e delle quantità di pluslavoro e di plusvalore,
dev’essere rivista e analizzata secondo nuovi criteri. È qui infatti che il
capitale finanziario si segnala come potente agente di un’”estorsione” compatta
e massificata di plusvalore, come mistificatore di ogni assemblaggio di lavoro
cooperativo e infine – in tal modo – come forza estrattiva del comune. Nel
concetto di “estrazione” si modifica quindi quello di “sfruttamento”. “Estrazione”
significa appropriazione di plusvalore attraverso una continua scrematura
dell’attività sociale, la riduzione dellesingolarità che cooperano
nella produzione sociale (e che così esprimono comune) ad una massa che
ha perduto ogni controllo di se stessa ed ogni autodeterminazione, la
trasformazione dell’imprenditorialità capitalista in una funzione ormai
incapace di organizzare il lavoro, immersa nel gioco finanziario e solo attenta
alle cedole azionarie. Il concetto marxiano di sfruttamento sembra così
pateticamente lontano – nella sua insistenza sulla temporalità della giornata
lavorativa e dello sfruttamento individuale che in essa si misura. Se non fosse
che la massa esiste solo nella logica del capitale finanziario (come il popolo
in quella dei sovrani). Mentre la vita sfruttata è singolare. Da
questo punto di vista, dunque, le soggettività implicate in questo sviluppo del
capitalismo, espropriate come massa, sfruttate come singolarità, avvertono che
la frattura sociale, meglio, la scissione del concetto di capitale si
è data in maniera ormai piena. Al punto in cui lo sviluppo capitalistico è
stato spinto dall’azione neoliberale, una qualsiasi mediazione interna allo
sviluppo capitalistico (anche se imposta dalla moltitudine dei lavoratori
bisognosi, insomma comunque essa si presenti, qualsiasi sia la forma in cui le
singolarità sono rinchiuse nella massa espropriata) – ogni mediazione, dunque,
è stata rotta. Assistiamo all’azzeramento del politico, meglio, del
valore della composizione politica del soggetto antagonista: in questa
prospettiva “la politica” è solo considerata una mediazione – e questa non
potrà certo darsi con gli “esclusi”.
Dobbiamo dunque concludere
che la dialettica operaista che sempre teneva presente un rapporto antagonista
tra sviluppo capitalistico e lotta di classe operaia e ad essa imputava ogni
sviluppo, è terminata? È possibile, con tutta probabilità è avvenuto. Infatti
la relazione delle singolarità che costituiscono moltitudine è divenuta del
tutto intransitiva nel rapporto di capitale. Il neoliberalismo ci
impone questa verità. La valorizzazione capitalista nasce infatti dal fatto che
la moltitudine di singolarità è ridotta a massa – è resa “transitiva” in quanto
capitale variabile ma non può più esprimersi come classe – neppure all’interno
del capitale, come la dialettica “socialista” esigeva. Affermare questo non
significa che la concezione marxiana dello sviluppo sia obsoleta o la metodologia
operaista ormai desueta; significa solo che il metodo va innovato, che le “armi
della critica” vanno adeguate alla nuova situazione complessiva e che “far
politica oggi” è concetto che non può esser legittimato, per esempio,
semplicemente dal ricorso all’inchiesta operaia – modulata sul couplet
composizione tecnica e composizione politica – ma che i temi del potere e del
contropotere, della guerra e della pace, del potere costituente e
dell’insurrezione, insomma, del programma comunista, vanno riproposti – in
prima linea.
Mi ripeto. Già da tempo è
stato teorizzato che l’”uno si è diviso in due”. Questo significa che non c’è
più misura fra capitale e soggetto sfruttato, antagonista, che non vi è più
mediazione possibile. Vi può essere mediazione solo forzosa. Questo
comporta crisi, inefficienze, limiti della forma politica del capitalismo oggi
dominante, di quella “democratica” in particolare, sempre più evidenti. Se
l’azione politica del primissimo e primo movimento operaio (tra l’’8-‘900) ha
cercato alternativamente per la sua azione un modello riformista e/o uno
insurrezionale; se la seconda grande epoca del movimento operaio – quella
dell’operaio fordista – ha consolidato nella forma contrattuale (e riformista)
il suo progetto, oggi non vi è più nulla di questo che possa essere nuovamente
percorso. Alcuni autori hanno con grande intelligenza sottolineato che il
capitalismo neoliberale ha perduto ogni caratteristica democratica da
quando le istituzioni della democrazia non son più riuscite a
trattare, ad incidere sulle questioni economiche – hanno cioè permesso al
neoliberalismo di estrarle dalle regole della democrazia. È un altro modo di
dire che l’”uno si è diviso in due”. La sovranità è stata allora tolta agli
Stati-nazione per essere trasferita verso il potere globale dei “mercati”. Ma
questa conclusione non conclude nulla, è essa stessa implicata nel processo
della crisi e la estremizza piuttosto che risolverla. È ormai banalmente
ripetuta dai più e finisce per mistificare l’impotenza dei soggetti e per
vanificare le lotte contro il capitale finanziario.
Finora abbiamo visto come il
concetto di composizione politica di classe operaia sia venuto meno, come sia
stato azzerato dalla nuova figura dei movimenti finanziari e politici del
capitale – e in ogni caso come esso non possa funzionare (la diciamo grossa)
“ontologicamente”, e cioè nella realtà storica determinata: perché ormai
privato di ogni transitività. “Come fare politica, oggi”,
non significa dunque giocherellare fra composizione politica e tecnica ma ridefinire
radicalmente che cos’è “politica”. Tra poco vedremo quale sia la fragilità
dello stesso concetto di composizione tecnica. La metodologia classica
dell’operaismo non funziona dunque più. Bisogna modificarla. E farlo tenendo
presente che la nostra autocritica non significa che non ci possiamo più
chiamare marxisti; forse significa che non ci chiameremo più post-operaisti;
probabilmente ci diremo solo comunisti – alla nostra maniera,
facendo del marxismo un dispositivo vivente per adeguarlo alla critica del
nostro mondo. Per cominciare cioè ad uscire da quella condizione di azzeramento
della politica.
Sulla questione del
presupposto soggettivo dobbiamo quindi ora ritornare, armandoci di una nuova
metodologia che lavori essenzialmente sulle maniere di far crescere, indipendentemente dal
rapporto di capitale (non-transitivamente dunque), la nuova soggettività
sociale sfruttata. In essa non saranno più riconoscibili composizione tecnica o
composizione politica, conseguenti l’una dall’altra, ma piuttosto una
composizione semplificata ed una consistenza reale che cercheremo ora qui di
definire, descrivendo l’azione che è possibile, a questa soggettività, di
produrre.
In primo luogo dobbiamo
tener presente che quel soggetto separato, azzerato dal punto di vista
politico, è comunque un soggetto che si è riappropriato di capitale
fisso, in tutta la fase di trasformazione del capitalismo fra crisi dello
Stato fiscale e consolidamento dello Stato del capitale finanziario. In che
cosa consiste precisamente questa riappropriazione? Consiste
specificatamente nel far proprie, nell’afferrare, nel rendere protesi corporee
e mentali, linguistiche e/o affettive, cioè nel ricondurre alla propria
singolarità alcune capacità che prima erano solo riconosciute proprie delle
macchine con le quali si lavorava, e nell’incorporare queste
caratteristiche macchiniche, farne attitudini e comportamenti primari
dell’attività dei soggetti lavorativi. Nel distacco storico che si era
affermato tra oggettività del comando (e del capitale costante) e soggettività
della forza-lavoro (soggetta al capitale variabile) – si dà, da parte delle
singolarità, una riconquista di capitale fisso, un’acquisizione irreversibile
di elementi macchinici sottratti alla capacità valorizzante del capitale – per
dirlo brutalmente, un furto continuato di elementi macchinici che arricchisce
di capacità tecnica il soggetto, meglio, come si è detto che il soggetto
lavorativo incorpora. Con ciò si mostra quanto il lavoro immateriale
sia corporeo, della sua capacità di assorbire con rapidità
e virtuosità stimoli e potenze macchiniche.
Ora, ogni riappropriazione è destituzione del
comando capitalistico. Questo processo di appropriazione da parte dei
lavoratori immateriali è infatti molto forte, efficace nel suo svilupparsi –
esso determina crisi. Ma non si darebbe crisi se considerassimo che essa nasce
spontaneamente dai processi di riappropriazione e di destituzione. Non è così.
La crisi ha bisogno di uno scontro, di una realtà politica che si muova per la
distruzione non più semplicemente del rapporto di sfruttamento ma della
condizione forzosa che lo sostiene. In effetti quando si parla di
riappropriazione da parte del soggetto antagonista, non si parla semplicemente
della modificazione della qualità della forza-lavoro (che deriva
dall’assorbimento di porzioni di capitale fisso), si parla essenzialmente della riappropriazione
di quella cooperazione che nella ristrutturazione capitalista della
produzione era stata incentivata e poi espropriata – e che rappresenta il
dramma essenziale di questa fase critica. Quando si dice recupero di capitale
fisso, riappropriazione – lungi dall’esprimersi in termini macchiati di
economicismo – l’analisi entra piuttosto su quel terreno della cooperazione che
è oggi regolato in termini biopolitici dal capitale: destituire il
capitale di questa funzione significa recuperare alla
forza-lavoro autonoma capacità di cooperazione. Ma poiché la
società civile e la cooperazione produttiva sono oggi dominate dalle funzioni
monetarie – e le funzioni monetarie fanno capo direttamente al capitale finanziario
– riappropriazione di capitale fisso e destituzione del comando capitalistico
sulla cooperazione ci portano immediatamente all’interno di quanto è oggi più
decisivo nella struttura del comando capitalista: la sfera monetaria.
Se qui si dessero significanti, sarebbero significanti che rivelano il comune. La
moneta si incontra e si scontra con le caratteristiche comuni della
cooperazione. E allora la resistenza, la lotta e l’autodeterminazione
del soggetto lavorativo qui assumono immediatamente caratteristiche politiche,
poiché si scontrano con le dimensioni finanziarie (monetarie) del controllo
sociale. Il welfare è il terreno privilegiato di questo
scontro.
In secondo luogo, oltre a
destituire il comando sulla cooperazione e a incorporarsi parti di capitale
fisso, la nuova forza-lavoro, ovvero quella classe politica antagonista,
socialmente ricomposta nella cooperazione, si trova a costruire luoghi
comuni. Forse li desidera, comunque vuole costruirli. Luogo comune: che
cosa significa? Immediatamente, un senso di orientamento nel contesto proprio
della mobilità e della flessibilità incorporate alla forza-lavoro (cooperante).
E, in seconda battuta, che cosa sono dunque i luoghi comuni, meglio, gli
insiemi istituzionali dentro ai quali il soggetto antagonista vuole
riconoscersi? Si tratta essenzialmente di livelli strutturali
dell’organizzazione dello stare insieme, spesso il contesto sociale della
città, meglio della metropoli – come luogo di incontro e di
costruzione comune di linguaggi e di affetti, come piena virtualità di
associazioni produttive. La metropoli sta infatti diventando, sempre di più, il
luogo dove la resistenza all’estrazione capitalista del plusvalore dall’attività
comune ed allo sfruttamento delle singolarità moltitudinarie, è divenuta
possibile – forse un luogo di desiderio. La metropoli è certo divenuta centrale
nell’accumulazione capitalista perché lì, nella metropoli,
l’intransitività del rapporto capitalista ha raggiunto il più alto livello di
realizzazione e di espressione, e come tale va governato dal capitale. Ma
d’altra parte la metropoli si è fatta eminentemente luogo di incontro e di
riappropriazione proletarie. Ogni istanza di contro-potere non può prescindere
da luoghi, da spazi nei quali svilupparsi, affermarsi, sostenersi. Se nel primo
momento che abbiamo considerato (quello della riappropriazione di capitale
fisso) la singolarità veniva nel medesimo tempo riconoscendosi nel comune – ed
il comune (nel caso, l’insieme dei servizi di welfare) diveniva l’oggetto delle
sue istanze di riappropriazione – se questo avviene nella metropoli, cioè a
partire da moltitudini che vengono ricomponendosi e prendendo forma in luoghi
comuni – lo scontro allora si definisce immediatamente come lotta di un
proletariato moltitudinario contro il capitale finanziario. Qui l’azione
moltitudinaria, volta a difendere, a ricostruire, ad appropriarsi del welfare,
si incardina sulla riscoperta di soggettività attive, di quelle singolarità che
costituiscono la moltitudine – perciò si esprime nella richiesta del diritto di
cittadinanza – che è politicamente “diritto alla città”. Diritto cioè
garanzia di godimento della città, di cooperazione nella città, di governo
della città, di lavoro nella città. La questione del reddito garantito di
ogni cittadino diviene quindi un elemento che integra questa costruzione del
politico. E se la richiesta di reddito riconosce la funzione produttiva di ogni
cittadino, non è tuttavia questa la cosa fondamentale: fondamentale è piuttosto
che ogni singolarità (cioè ogni lavoratore ed ogni cittadino) trovi e fissi
nella sua pretesa soggettiva al reddito, una domanda di potere politico
adeguata alla costruzione della moltitudine. Reddito garantito e diritto
alla città sono un solo obiettivo politico. Se nel primo luogo comune che
abbiamo costruito, la singolarità moltitudinaria si realizzava nel comune (nel
governo del welfare), qui il comune è moltitudinario e si esprime
attraverso le singolarità (nel diritto soggettivo alla città,
all’accesso al comune) – così si afferma la nuova maniera di far politica
oggi.
Nel neoliberalismo, nello
Stato consolidato della trasformazione del comando di capitale, il tessuto del comune è
organizzato dalla moneta ed espropriato dalla Banca.
È così che, procedendo dal basso, si propone per noi, per le nostre lotte di
emancipazione sociale e di libertà, il tema Europa. Ricostruire
l’orizzonte europeo significa dunque battersi per la riappropriazione del welfare e
per l’ottenimento di un reddito di cittadinanza, eguale per tutti e più che
decente, riconoscendo nella BCE il nemico da battere, il potere da spossessare.
È qui che si da, a fronte degli attacchi dei “mercati” (quanto avvenuto nella
crisi ce lo ha mostrato) un’occasione unica di spostare il discorso
politico dalle condizioni asfissianti del dibattito all’interno dei
singoli Paesi-nazione ad una prospettiva rivoluzionaria. Ma di più – proprio se
non si può tornare indietro (e la crisi lo ha dimostrato, e la sua soluzione lo
affermerà ancora più duramente) l’Europa è un’occasione rivoluzionaria. Se non
si può tornare indietro, occorre andare avanti – e per andare avanti c’è una
sola strada: lottare, insistendo su welfare e reddito di
cittadinanza, per rifondare quell’istanza democratica del comune che ci è stata
strappata via dall’attuale governance europea, egemonizzata
dal neoliberalismo. Il tema Europa si pone dunque direttamente contro la Banca,
riconoscendo che la lotta moltitudinaria, la lotta del proletariato sociale
contro la Banca non rinnega il processo di unificazione europea ed i risultati
raggiunti (fra i quali la moneta unica) ma si pone piuttosto l’obiettivo del governo
della moneta, della costruzione della moneta del comune. Questa
è però solo una premessa, quasi un anticipo ideologico di un’azione comunista
da riprogrammare.
Di nuovo chiediamoci dunque:
perché l’Europa? Perché siamo “europeisti” anche dopo che del neoliberalismo
abbiamo direttamente subito la repressione feroce, l’austerità orribile e ne abbiamo
fatto l’oggetto del nostro odio? E dopo aver implicitamente riconosciuto che l’Europa rappresenta
nel quadro istituzionale presente, il più completo esempio di consolidamento
dello Stato neoliberale? All’interno della “sinistra” molti, la maggior parte
di quelli che non aderiscono alla socialdemocrazia, ora (dopo aver a lungo
lottato contro il processo di unificazione europea, duramente ammaestrati dalla
crisi economica e avendo appreso che indietro non si torna) – ora, dunque
pensano che la sola maniera di ricostruire l’Europa preveda la riformulazione
del contratto costitutivo, da parte degli Stati-nazione europei, esigono
dunque che questi si ricostruiscano come soggetti sovrani della contrattazione.
Si tratterebbe di ritornare (temporaneamente?) agli Stati-nazione, di
restaurare una sovranità nazionale (protetta dall’Europa dentro e contro la
globalizzazione?) e così di riconquistare potere sulla moneta. E poi… poi si
vedrà. Il sovranismo è duro a morire e ci sono ancora socialisti disponibili, fin
dal 1914, a ripetersi nel difendere la sovranità nazionale oltre ogni
vergognoso limite! Subordinatamente, in maniera più pacata, si sostiene la
possibilità di riaprire un rapporto – quasi contrattuale – fra i vari Stati
europei, quasi sovrani, dopo che essi abbiano riconquistato una maggiore
autonomia sovrana – quelli che il fiscal compact e gli altri
diabolici accordi monetari hanno eliminato: insomma, di ricostruire
l’Europa in due tempi. Uno, cancellazione degli accordi sulla BCE; due,
ricomposizione attorno ad un accordo tipo Bretton Woods, dove a comandare sia
un indipendente “Bancor” – moneta convenzionale che flessibilmente accompagni
le diversità delle situazioni europee e guidi i movimenti di aggiustamento
delle bilance e dei budget all’interno dei singoli paesi e fra tutti. Patetici
progetti. Comunque ci riguardano solo parzialmente, come per definire uno
sfondo. Per noi il problema non si risolve ritornando indietro: pensiamo
infatti che l’Europa sia il contenente minimo per un’azione
politica rivoluzionaria che si collochi nella globalizzazione. Lo spazio
(proprio in seguito alla globalizzazione) è ritornato ad essere una dimensione
politica essenziale, primaria. È solo costruendo e consolidando la forza di un
ordinamento in uno spazio determinato fra soggetti che cooperano, che la
legittimità (quella sovrana, certo, ma anche quella) rivoluzionaria, si
afferma. Non c’è alternativa. L’Europa è questo spazio – dove il proletariato
moltitudinario nel quale ci riconosciamo può insorgere, trasformando non lo
spazio (anche quello, forse: ne parleranno altri) ma la struttura di potere che
lo ordina. L’Europa e la moneta europea costituiscono un ambito di virtuale
autonomia all’interno della mondializzazione. Senza l’Europa non vi è
possibilità di governare, limitando la pressione immane dei mercati globali e
dei poteri multinazionali. Europa è quella dimensione spaziale che rappresenta
una possibilità di sopravvivenza politica e di azione autonoma delle
moltitudini europee, a fronte della pressione delle forze sovrane, già
assestate su dimensioni globali – configurantesi ormai come sezioni continentali
del potere globale.
Quanto è avvenuto sulla
scacchiera globale in quest’ultimo trentennio, dalla fine della guerra fredda,
va fortemente sottolineato per chiarire che la proposta di una lotta che si
proponga un progetto di democrazia radicale in Europa, è tutto tranne che un
sogno. Se è vero, infatti, che la potenza dei mercati è immane, è altrettanto
vero che il peso e i condizionamenti dell’alleanza e della subordinazione
atlantica è divenuto, nella continuità, sempre più fragile e in prospettiva
instabile. È dal declino della potenza americana che
l’inizio del XXI secolo è stato caratterizzato – con due conseguenze maggiori.
La prima è il conflitto latente fra USA e Cina – esso sta
maturando ed ha una prima conseguenza che ci interessa: avere estraniato il
potere americano dall’Europa e fatto registrare il forte indebolimento (da non
sottovalutare) del potere americano, non solo in Europa ma sull’intera
dimensione mediterranea. Gli USA non hanno mai voluto un’Europa unita, tranne
come alleato durante la guerra fredda. Dopo la “caduta del muro” di Berlino
hanno continuamente osteggiato l’unificazione e la Gran Bretagna ha sempre
rappresentato il cavallo di Troia di questo sabotaggio. Ora la situazione è
profondamente mutata e, all’indebolimento della leadership, si aggiunge per la
Casa Bianca la necessità di sostenere più efficacemente gli interessi americani
nel Pacifico e di costruire laggiù un fronte strategico per l’egemonia
asiatica. Come si vede, la “provincializzazione di Europa” non porta solo guai!
La seconda conseguenza è ben più importante: si lega allo sviluppo delle primavere
arabe lungo il Mediterraneo e nel Medio Oriente (un vero 1848). Per
ora sembra impossibile identificare una soluzione politica al conflitto fra
moltitudini arabe e le strutture autoritarie (militari e/o plutocratiche) che
le controllano e le stringono in una gabbia di miseria e ignoranza medievali.
In quella situazione, la lotta di classe sta riprendendo i suoi diritti –
naturalmente se di lotta di classe si parla nei termini in cui noi ne abbiamo
fin qui parlato, come lotte di moltitudini di singolarità, come lotte che sono
insieme di emancipazione dalla povertà e di liberazione dei soggetti. Il tema
di un’Europa unita da un progetto di democrazia radicale-comunista trova nel
movimento d’oltre Mediterraneo una sua base d’appoggio – anche il viceversa è
da costruire.
In terzo luogo – o meglio, è
questo il terzo presupposto che sta alla base del
ragionamento sulla soggettività che abbiamo cominciato a sviluppare all’inizio
di questo intervento (tanto tempo fa!) – si tratta di consolidare, anche noi,
in istituzioni i movimenti fin qui descritti. Si tratta non solo di costruire
contropoteri diffusi ma di coalizzarli per produrre potere costituente. Si
tratta di ricomporre l’insieme delle forze plurali che lottano per il reddito e
per la difesa/espansione del welfare, attorno ad un telos,
ad una finalità comune. A noi sembra che quando si sia assistito alla lunga
vicenda delle primavere arabe e delle insorgenze occupy (ed alle
tragedie che stanno contrassegnando la pur indomabile – talora aperta, talora
sotterranea – continuità delle prime ed al ristagno – sia pur talora
potentemente riflessivo – che tocca le seconde) – bene, non si può allora non
pensare – se ancora si possiede un minimo di responsabilità teorica, prima
ancora che politica – alla necessità di un lavoro di costituzione di
una forza che sappia – tutti insieme – affrontare il nemico. La
consapevolezza di un passaggio strategico è stata
probabilmente acquisita: sarà necessario costruire piattaforme che organizzino
la continuità delle lotte e il loro progresso. Far divenire istituzione le
lotte significa imprimere loro un telos, incorporato ad ogni
momento organizzativo. Sia chiaro che dicendo questo non si intende parlare di
“rifondazione” della “sinistra” (“rifondare” e “sinistra” sono state ridotte a
parole di merda) né si allude a possibili rapporti con forze parlamentari della
vecchia sinistra. Siamo comunisti, non abbiamo nulla a che fare con la
socialdemocrazia nella quale riconosciamo una variante ideologica del dominio
capitalista. Noi siamo un’altra cosa, e ci definiamo al di là del socialismo.
Cominciamo dunque per ora a sviluppare in Europa coalizioni di forze in
lotta, dentro l’Europa, contro la sua Costituzione e le politiche
della Banca Centrale e cerchiamo di dare loro forma istituzionale. Come una
volta dicevamo, nel costruire organizzazione: “chi non ha fatto inchiesta, non
parla”, cominciamo a dire: “chi non ha costruito coalizione, in Europa non parli”.
Questo è probabilmente un modo per far diventare tendenza, in Europa quelle
forme nuove che la moltitudine insegna, di costruire ed occupare spazi liberati
– perché moltitudine è moltitudine di soggettività che si ritrovano in uno
spazio comune. Credo comunque che per qualificare la costruzione di coalizioni,
in questa fase, sia sufficiente affermare un punto: la volontà di
distruggere la proprietà privata, di dissolvere nel comune la proprietà
pubblica e la sovranità che la colora, e di costruire e di gestire
democraticamente il governo del comune.
Lo spazio europeo è allora,
forse, un territorio privilegiato di sperimentazione moltitudinaria nella
costruzione di istituzioni del comune. Lo dico con molta prudenza ma anche con
molta speranza: perché è ben vero che l’Europa è stata provincializzata e che
il proletariato europeo ha perduto la sua battaglia di emancipazione che per
alcuni secoli aveva condotto contro l’impero neoliberale dal capitale…. e però
gliene abbiamo dato tante ed abbiamo ancora la forza di dargliene.
*Un contributo verso Europassignano2013