di COMMONWARE
affinché il lavoro cognitivo possa
emanciparsi dalla sua destinazione capitalista e quindi affinché possa essere
rimesso all’ordine del giorno il problema della liberazione dallo sfruttamento,
occorre tutto il lavoro necessario perché i saperi si dispieghino in una
condizione libera. Il problema è appunto la piattaforma tecnica per
l’autorganizzazione. Se siamo disperati perché le nostre capacità d’invenzione
limitate al campo della politica non sono in grado di impostare il problema,
bisogna allora che trasferiamo i nostri bagagli su un altro territorio, quello
dell’autorganizzazione epistemica dei contenuti del sapere
d. Rispetto alla tua recente
esperienza in Corea hai evidenziato la tendenza a una disiscrizione
dall’università, da cui anche l’estremo interesse che hanno esperienze come
quella di ricerca e formazione indipendente di Sujonomo. Una tendenza per
certi versi analoga può essere riscontrata anche in Italia, seppur in forme
decisamente ridotte: i dati del Cun sui 50.000 immatricolati in meno negli
ultimi dieci anni parlano di una dimensione non più espansiva dell’università.
Questa parziale tendenza alla crescita della disiscrizione non deriva
esclusivamente da questioni economiche, che pure ovviamente contano (rispetto
alla Corea e agli Stati Uniti in Italia le tasse universitarie sono ancora
relativamente basse), ma probabilmente ha a che fare anche con una perdita di
senso complessiva dell’università e dell’esperienza formativa che lì si può
fare. Se questo è il trend (per quanto contraddittorio e con forme e tempi
estremamente differenziati), come si può agire dentro questa tendenza?
r. A
Seul ho partecipato a più iniziative: una di queste è stata una conferenza in
una facoltà umanistica, cui prendevano parte rappresentanze studentesche di
diverse università cittadine. Veniva fuori come in Corea il modello americano
(così come lì è chiamato) tenda a diventare quello prevalente, l’università
pubblica tende a essere svalutata a favore di quella privata. Il titolo di
studio pubblico perde sempre più valore a favore di quello privato, e
naturalmente privatizzazione vuol dire aumento di costi e tutto quello che
sappiamo. In alcune situazioni universitarie c’è un movimento contro questo
processo, ma contemporaneamente succede che un numero consistente di persone
alla domanda “cosa fai nella vita?” risponda “il ricercatore indipendente”.
All’inizio pensavo che chiunque di noi può definirsi un ricercatore
indipendente, invece in Corea è proprio una scelta di autodefinizione che ha un
significato preciso. Andare all’università costa sempre di più e serve sempre
di meno dal punto di vista professionale lavorativo, ma serve sempre di meno
anche rispetto alla qualità e all’interesse dell’esperienza formativa. Sono
andato a pranzo con un gruppo di persone capitanato da un professore che mi ha
dichiarato la sua decisione di abbandonare il posto di lavoro: lo pagavano
sempre di meno (c’è da dire che i salari degli insegnanti in Corea, a tutti i
livelli, sono piuttosto alti), si lamentava di essere trattato sempre peggio,
il rapporto con gli studenti era diventato intollerabile nelle condizioni che
si stanno determinando, allora aveva deciso di costituire un gruppo di
ricercatori indipendenti.
Sujonomo è appunto un gruppo di ricercatori indipendenti, alcuni di loro
insegnano o studiano all’università, altri fanno il benzinaio o il prete. La
composizione del gruppo è molto eterogenea, ma il carattere essenziale è
proprio quello di un’istituzione della ricerca indipendente: è il fenomeno più
interessante con cui sono entrato in contatto nella mia esperienza coreana.
Tradurlo nella situazione europea è forse un modo per collegarsi a una tendenza
che già esiste. É evidente che la gente ragiona su molte cose: in primo luogo
sul fatto che la laurea, nella maggioranza dei casi, ti serve sempre di meno;
in secondo luogo, non sono mica tutti imbecilli, qualcuno pensa che andare
all’università sia ormai un’esperienza priva di qualsiasi fascino e interesse
intellettuale.
Una tendenza del genere dovrebbe essere presentata in maniera meno dura
possibile: il problema non è la scelta morale o politica di abbandonare
l’università, ma poiché è probabile che si manifesti anche qui una tendenza di
questo genere interpretiamola, diamole consapevolezza e realismo. É difficile,
perché realismo vuole dire anche questioni come il futuro professionale.
Insomma vale la pena di chiedersi: per quali ragioni studiamo? Uno, perché
abbiamo bisogno di un salario domani, e la questione è molto complicata in
quanto non dipende solo dal titolo di studio; due, perché ci piace nella vita
non essere coglioni. Ma l’università nell’epoca attuale serve sempre meno per
avere un salario, e serve sempre di più per diventare coglioni.
Commonware parte ovviamente da una storia e una piattaforma teorica
largamente definite, al contempo dovrebbero crearsi le condizioni per progetti
di ricerca e autoformazione più ampi. C’è per esempio l’esperienza di Public
School, piattaforma online lanciata a Berlino e New York che consiste di gruppi
di studenti o altre persone che comunicano al sito di voler studiare il
pensiero di Newton, o chissà cosa d’altro. Cercano un esperto stabiliscono la
location fisica oppure, se gli studenti sono in luoghi distanti fra loro, il
sito mette a disposizione uno spazio per il virtual learning. Mi dicono che a Berlino e a New York ora ci
sono proprio delle classi organizzate fisicamente in luoghi definiti e poi c’è
un’attività in rete. Public School ovviamente è avviata da gente che viene dal
movimento, ma non è un progetto di ricerca finalizzato o prestrutturato, è
semplicemente una struttura di servizio. Questa potrebbe essere una delle
possibili evoluzioni di Commonware.
d. Hai più
volte sostenuto che la lotta è tra neuro-totalitarismo e autorganizzazione
dell’intelletto generale. Cosa significa e quali conseguenze politiche pone?
r. Il tema del neuro-totalitarismo è un tema su cui sto lavorando, raccolgo
informazioni e scrivo, ma forse si potrebbe pensare a un’iniziativa di tipo
seminariale a partire da alcune questioni di grande attualità, tipo google glass, georeferenzialità o
Prism.
Cosa significano questi dati dell’evoluzione tecnologica attuale dal punto
di vista della soggettività futura?
Pensiamo al grande scandalo che è sorto intorno a Prism dopo le rivelazioni
fatte da Edward Snowden. A mio parere non si tratta di un problema di privacy,
infatti la privacy non esiste più, è una parola per gli allocchi; il problema è
la precostituzione di strutture di controllo sulle capacità di lavoro e di
consumo della mente umana. Questo è il punto, il processo è già largamente
attivo: non occorre che l’Nsa o la Cia si mettano a frugare nella tua mail, le
strutture di rintracciamento del potenziale comportamento produttivo, economico
e consumativo sono già tutte in atto, la questione è analizzarle e anche –
questo è un nodo puramente politico, addirittura etico – chiedersi se
l’atteggiamento tradizionale dei movimenti sia ancora efficace in una
situazione di questo tipo. Puoi pensare di opporti a google glass? Naturalmente no, non
vuole dire niente, devi elaborare strategie che abbiano un piano di consistenza
totalmente diverso da quello dell’opposizione politica. I piani di elaborazione
sono quindi molteplici: c’è il piano di analisi dei fenomeni in atto, c’è
quello della comprensione del loro significato politico presente, c’è quello
dell’elaborazione di possibili modulazioni della soggettività.
d. Da un
lato, tu metti in evidenza come le classiche forme della resistenza oggi siano
delle armi spuntate, tendano a girare a vuoto o abbiano difficoltà a uscire da
una posizione testimoniale; dall’altro, resta il problema di come coniugare il
processo di autorganizzazione del lavoro cognitivo con i punti di rottura di
quello che tu definisci “neuro-totalitarismo” – che, per restare al piano della
formazione e della ricerca, si situano all’interno o sui bordi dell’università.
r. Una cosa è individuare un problema, altra cosa è articolarne la soluzione.
Secondo me è urgente uno spostamento dell’ottica. Detta così,
l’autorganizzazione del general intellect è una formula che non si sa come
sviluppare: probabilmente è l’argomento del prossimo ventennio o trentennio,
quindi il nostro compito è aprire una questione. La centralità delle tematiche
del general intellect ci è nota almeno da quando è stato pubblicato ilFrammento sulle macchine, però ecco
un altro argomento che vale la pena di affrontare: storia della lettura
politica del Frammento sulle macchine,
in Italia e non solo.
Noi l’abbiamo letto come appendice della storia della lotta operaia, e
questo era un buon modo di impostare la questione: gli operai vinceranno, dopo
di che consegneranno ai lavoratori tecnico-scientifici il compito di liberarli
dallo sfruttamento e dalla fatica. Questo è lo schemino che si poteva avere in
mente nel 1969. Le cose però non stanno così per una serie di ragioni,
innanzitutto perché gli operai non hanno vinto.
Dunque, come stanno le cose? Da un po’ di anni io sto ragionando sul tema
della sofferenza psichica come motore dell’autorganizzazione dei lavoratori
cognitivi. So che si tratta di una impostazione debole perché la sofferenza
psichica qualche volta può aprire degli orizzonti, ma molto spesso li chiude.
Non penso che il suicidio sia un comportamento da consigliare, però credo che
sia la fenomenologia di un comportamento emergente.
Siamo di fronte a un problema: aprire il cantiere “autorganizzazione del
lavoro cognitivo” vuole dire squadernare l’insieme delle dimensioni del sapere
umano, se ne devono occupare insieme gli informatici, gli ingegneri, i medici,
nessuno può surrogare il lavoro specifico di ricerca disciplinare. Quel che noi
possiamo fare è chiederci: qual è il lavoro politico o filosofico o metodologico
che va in quella direzione? Io direi la creazione di una piattaforma tecnica
d’interscambio fra saperi in formazione. Quando è nata la mailing list
Rekombinant, un anno dopo Seattle e dopo il No-Ocse a Bologna, l’idea era
questa: RK non vuole essere un sito di discussione politica o d’informazione,
ma uno spazio in cui si lavora alla creazione di una piattaforma tecnica per
l’autorganizzazione del lavoro cognitivo. Era un progetto più grande di noi, ma
la questione resta quella. Qualche volta ci si agita per fare cose più grandi
di noi, poi arriva qualcuno che è grande il giusto e le fa...
d. Affrontiamo
la questione europea. É evidente che nel quadro attuale un discorso
sull’Europa, che resta per noi un indispensabile piano su cui agire, va
ripensato; lo spazio europeo stesso va evidentemente ricostruito lungo nuove
coordinate, pena l’evocazione di un’Europa ideale che non tiene conto di ciò
che è oggi l’Europa reale. Proprio per contrastare ogni tentazione
neosovranista e qualsiasi ripiegamento reazionario, è necessario porsi il
problema del livello su cui agire la critica di un’Europa diventata un mostro.
Allora, quali sono secondo te questi livelli dell’azione politica
transazionale, facendo anche i conti con le difficoltà che i movimenti hanno
avuto in questi anni nella costruzione di reti europee efficaci e durature?
r. Io non condivido quello che ha recentemente scritto Frédéric Lordon,
cioè l’idea secondo cui l’unica forma di autogoverno possibile consista nella
sovranità e la sovranità è necessariamente nazionale: se è così, che vada in
malora la sovranità perché l’abbiamo già conosciuta! Mi pare, dunque, che la
questione vada spostata rispetto a quanto dice Lordon: il problema non è qual è
il luogo vero della democrazia (parola che suggerirei di dimenticare), a rigore
direi che non è più nemmeno un problema della politica, è proprio un problema
di forza produttiva e innanzitutto della forza produttiva cognitiva. Ciò detto,
la questione dell’Europa rischia di caderci in una maniera o nell’altra sulla
testa, cioè o nella maniera della Banca centrale europea, oppure nella maniera
di un ritorno disperato del sovranismo – Lordon è da questo punto di vista
realistico, sostiene che comunque sarà un periodo deprimente. Allora io direi
che la questione europea resta al centro del discorso ma non più
dell’iniziativa politica. L’iniziativa politica deve spostarsi su un tema del
tutto deterritorializzato, ovvero senza territorio istituzionale: è il tema
dell’autorganizzazione del lavoro cognitivo, è questo il problema del secolo.
L’Europa vada a farsi fottere, è questa l’Europa che volete? Tenetevela! É
vero che, nel modo in cui l’abbiamo posto nel decennio passato, quello
dell’Europa non era un problema territoriale, bensì una metafora per dire una
cosa più complessa. Sciogliamo allora la metafora, se continuiamo a usarla ci
fraintendiamo: lasciamola perdere, l’Europa è un disastro e – semmai lo siamo
stati – oggi non possiamo essere europeisti. Mi piace l’idea di fare tutti
richiesta per votare in Germania, però è appunto una delle tante azioni di
demistificazione che si possono fare. Invece nel 2011 abbiamo pensato che
potesse esserci un movimento capace di aprire la metafora Europa e farne venire
fuori un processo di autorganizzazione sociale: questo non è avvenuto, forse
perché l’Europa è questo tipo di scatola. Non credo che valga la pena di
gridare niente in piazza a proposito dell’Europa, per il momento non
s’intravedono le condizioni per un processo d’insurrezione europea; parliamo
invece del contenuto sociale e autorganizzativo, poi se la forma sarà l’Europa
bene.
Quando si parla di insurrezione europea sono in un leggero imbarazzo perché
hanno tradotto in America il mio libro “La sollevazione”, ora mi chiedono di
andarlo a presentare, a breve sarò a Vancouver per presentarlo. Adesso potrei
arrampicarmi sugli specchi e dire che sostenevo una cosa diversa, ma in realtà
in quel libro – scritto tra il 2010 e il 2011 – la mia tesi era che
l’insurrezione europea era imminente. Ora devo andare in giro a dire che
l’insurrezione europea non c’è stata, oppure che c’è stata, così come c’è stata
l’insurrezione egiziana, ma dove sono andate a finire? L’esperienza
mediorientale è una lezione sulla quale bisogna ragionare, non possiamo far
finta che non sia successo niente, anche perché forse fra poco non parleremo
più d’Europa, ci occuperemo della guerra euro-mediterranea, è questo il
prossimo argomento.
Insomma, a Vancouver non parlerò de “La sollevazione” ma di
neuro-plasticità, e spiegherò perché la neuro-plasticità è l’unica cosa
riuscita.
d. In Turchia
e, forse ancor di più, in Brasile le lotte che hanno animato l’ultimo periodo
hanno preso avvio in una situazione non di recessione ma di espansione
economica. Nel tuo ultimo viaggio in Corea sei entrato in contatto con una
società che come ci racconti, nel solo spazio di due generazioni, è passata
dall’esperienza della povertà e della miseria largamente diffuse a un altissimo
livello di ricchezza e di consumo, pari ai paesi più avanzati dell’Occidente.
L’ultima generazione sta tuttavia iniziando a scontare la diffusione della
precarietà, la privatizzazione e l’alto costo dell’educazione, l’indebitamento.
Di contro, la resistenza sociale appare frammentaria, individualizzata, per lo
più caratterizzata da azioni dimostrative e simboliche. Accanto a queste forme
di resistenza che non riescono a organizzarsi in modo incisivo, prendono corpo
esperienze come Sujonomo, ovvero centri autonomi per l’autorganizzazione del
lavoro cognitivo. Siamo dinanzi dunque a processi di aggregazione sociale diversi
in paesi accomunati da una situazione di crescita economica: da un lato la
Turchia e il Brasile praticano l’occupazione degli spazi metropolitani e forme
d’insorgenza di massa, dall’altro la Corea sviluppa esperienze che puntano
all’autorganizzazione del general intellect praticando azioni politiche
differenti. Se le lotte in questi paesi ci dimostrano evidentemente la crisi di
un modello di sviluppo e l’esaurimento delle promesse capitalistiche di
progresso sociale, quale valutazione fai delle differenti forme di resistenza
elaborate e messe in atto? È possibile estrapolare una riflessione che possa
servirci da orientamento per le lotte future?
r. Io ho l’impressione che le esplosioni di massa continueranno a esserci
nei prossimi anni. Il problema è che dobbiamo chiederci non solo qual è la loro
molla, la loro ragione, la loro spinta, da dove vengono, questo magari
riusciamo a capirlo; dobbiamo capire a che cosa servono e in quale orizzonte
strategico si collocano. L’esperienza della Turchia, come quella di tutta
l’area, mi pare catastrofica: quello che si può definire come movimento
moltitudinario – per usare un’espressione che non mi convince – non produce
effetti duraturi di tipo positivo. Il caso brasiliano mi è abbastanza oscuro,
lì mi pare che le cose siano in movimento, però è una questione continentale.
Se ho capito bene Dilma Rousseff ha detto che i profitti dell’estrazione
petrolifera nei prossimi anni saranno destinati alla scuola e ad altri servizi,
saranno cioè socializzati; se è vero, è estremamente significativo, però
appunto riguarda la situazione dell’intera America Latina. Io non riesco a
vedere una valenza strategica nell’esplosione di massa, soprattutto dopo
l’esperienza egiziana e anche siriana. In assenza di una prospettiva strategica
dei movimenti quello che fai è semplicemente aprire la porta a facce diverse
del potere. Fatico a dirlo perché non conosco abbastanza la situazione turca,
ho seguito quello che è successo e mi sembra disperante, però chi lo sa cosa
c’è dentro. Soprattutto, quello che mi fa impressione è che la Turchia è un
paese con una crescita impetuosa: l’anno scorso ho partecipato a un seminario
organizzato da urbanisti turchi, da quello che dicevano l’impressione era che
la qualità della vita e della soggettività fosse in pieno rigoglio, che tutti
fossero felici in Turchia. Non mi sembra che sia così, però non capisco dove va
a parare una storia di questo genere. É un po’ come quello che dicevamo prima
sull’Europa: le esplosioni di massa sono come una metafora che contiene la
possibilità dell’autorganizzazione sociale, però su cosa vogliamo mettere
l’accento, sull’esplosione di massa o sull’autorganizzazione sociale? Se
poniamo l’accento sull’esplosione di massa rischiamo di infilarci in situazioni
come quella che l’Egitto ci mostra, se invece mettiamo l’accento
sull’autorganizzazione sociale certo l’esplosione di massa è un passaggio
qualche volta necessario, però dobbiamo ragionarci in modo diverso. È la
ragione per cui la parola “moltitudine” non mi ha mai convinto: il concetto di
moltitudine vuol dire che il potere non può controllare la soggettività, va
bene, però voglio sapere cosa c’è dentro la soggettività, come si esprimerà,
ciò che sta all’interno. Se non riusciamo a capirlo, magari il potere non
controlla, però alla fine è lui che incassa gli effetti; poi c’è sempre un
eccesso, ma quell’eccesso non è mai sufficiente per trasformarsi in autonomia.
d. Prima hai
tirato fuori una suggestione interessante, che potrebbe diventare tema di un
seminario futuro: una storia della lettura politica del Frammento sulle macchine. Tu ti sei sempre definito un
composizionista: allora, dentro a questa storia, come va oggi ripensata una
politica composizionista a partire dal problema dell’autorganizzazione
dell’intelletto generale?
r. Sono circa cinquant’anni che leggo Tronti, ma mai come in “Noi
operaisti” mi sono reso conto di quanto sono realmente lontano da Tronti. Ti
affascina, dice le cose così bene che è il caso di crederci, ma in questo
libretto mi sono reso conto del fatto che – per quanto sia certamente un grande
della letteratura italiana – sul piano politico Tronti è problematico. Sostiene
che tra gli operai e i carri armati hanno ragione i carri armati, anche se i
giovani intellettuali avevano simpatizzato con gli operai. Io penso l’esatto
contrario, non solo perché mi stanno antipatici i carri armati, ma perché credo
che la vera ragione della sconfitta degli operai nel XX secolo sia stata
l’identificazione tra operai e Stato. Qui bisognerebbe ragionare proprio
raccontandosi la storia del XX secolo, da quando Lenin ha avuto la malsana idea
di scrivere il “Che fare?”. Sarebbe bello fare un seminario storico intitolato
“E se la Rivoluzione d’Ottobre non ci fosse stata?”.
Tronti dice che l’operaismo arriva fino al 1968, perché il ’68 è una
questione interna alla borghesia che deve decidere quale settore governerà la
modernizzazione. In realtà Tronti già lo diceva allora. Non a caso dopo il
’68 sostiene che il problema è il PCI come autonomia del politico. I risultati
li vediamo. Tronti mi resta molto simpatico, dice le cose in modo esplicito e
spiritoso e ti dà una visione del secolo grandissima che però non condivido
minimamente. Mi sono anche chiesto in che senso possiamo dirci operaisti, e la
mia risposta è: solo nel senso del metodo, non dei contenuti. In altri termini,
se entro nei contenuti divergo completamente, se mi riferisco al metodo sono
d’accordo con Tronti su quella che chiamerei la precessione del soggettivo, sul fatto cioè che il soggettivo
viene prima e la struttura viene dopo.
Ora vengo alla vostra domanda sulla composizione. Quello che Tronti non
vede nel ’68 è invece la sua cosa più importante: è infatti il primo momento
nel quale il lavoro cognitivo diventa consapevole. Nel libro “From
Counterculture to Cyberculture” il californiano Frederick Turner racconta il
Free Speech Movement di Berkeley come non avevo mai letto, poi racconta la
storia della cultura californiana e la nascita del neoliberismo, l’ambiguità
della cybercultura fra libertarismo e liberismo, l’emergere del discorso di
Newt Gingrich o della destra californiana dall’interno del movimento del ’68.
Turner sposta il punto di vista in California e racconta la storia come non la
vedi da nessuna parte del mondo. Sicuramente Mario Savio – l’attivista che
parlò a Berkeley il 2 dicembre 1964 dando inizio al movimento che oggi
chiamiamo ‘Sessantotto - non aveva letto il Frammento sulle macchine, ma è come se l’avesse letto. Turner
racconta il movimento californiano come l’origine di tutto quello che è
successo dopo, ed effettivamente è così. É inutile ricordare che la California
è il luogo in cui nascono l’informatica e la rete; da quel punto di vista,
com’è possibile oggi reimpostare un processo di autonomizzazione? Noi, la
tradizione post-operaista – e questo è certamente il maggior titolo di merito
di Negri – siamo stati gli unici a vedere la complanarità della storia
dell’autonomia e della nascita del neoliberismo, quindi ad attribuire al
neoliberismo una sorta di “nobiltà”. Qual è il punto in cui questa complanarità
nuovamente si rompe? Oggi la risposta non c’è, probabilmente non è una risposta
che possiamo dare in termini politici, dicendo che bisogna fare questo
piuttosto che quello; affinché il lavoro cognitivo possa emanciparsi dalla sua
destinazione capitalista e quindi affinché possa essere rimesso all’ordine del
giorno il problema della liberazione dallo sfruttamento, occorre tutto il
lavoro necessario perché i saperi si dispieghino in una condizione libera. Il
problema è appunto la piattaforma tecnica per l’autorganizzazione. Se siamo
disperati perché le nostre capacità d’invenzione limitate al campo della
politica non sono in grado di impostare il problema, bisogna allora che
trasferiamo i nostri bagagli su un altro territorio, quello
dell’autorganizzazione epistemica dei contenuti del sapere. Non c’è escamotage
che ci permetta di evitare questo processo, necessariamente lungo. Qui potrebbe
esserci la domanda tragica: dal momento che è un processo lungo, cosa succede
nel frattempo? Non lo sappiamo, però è così, la frittata è fatta, il XX secolo
non si cancella, gli effetti di quello che è successo li vivremo tutti.
d. Più che
porre in alternativa esplosione e autonomia, il problema ci sembra pensarne il
rapporto. In altri termini, come possiamo riarticolare il problema
dell’autorganizzazione del lavoro cognitivo a partire dalle trasformazioni
delle soggettività che si danno dentro le insorgenze di massa? Qui dentro,
infatti, il problema che apriamo viene collocato su un piano nuovo...
r. Questa non è una domanda, è una risposta che io condivido. É vero,
l’esplosione di massa può porre le condizioni della trasformazione delle
soggettività, però se nessuno si occupa dell’autorganizzazione sociale avviene
solo l’esplosione di massa e va a finire generalmente male. Nel libro “La
sollevazione” formulo l’ipotesi secondo cui l’insurrezione non è un’azione
politica rivolta ad abbattere lo Stato, ma è semplicemente una convocazione
della corporeità intelligente della società. Il punto è che bisogna che ci
occupiamo specificamente di quello che accade nel cervello, si deve aprire la
questione, non come un’allusione politica bensì come un compito che spetta alle
forze fresche. Vorrei invitare i nostri giovani a pensare che nel corso della
loro esistenza dovranno, oltre che trovare le condizioni per vivere una bella
vita, trovare anche il modo i cui i loro saperi avranno una funzione
socialmente alternativa a quella cui il capitale li destina, porlo come
imperativo numero uno.
Parafrasando
Tronti, allora, potremmo chiudere dicendo “la strategia all’autonomia, la
tattica all’insurrezione”...