di ∫CONNESSIONI PRECARIE
Non saremo certo noi gli statalisti, ma qui ci preme
sottolineare come l’ideologia del “meno Stato più mercato” che il governo di
unità nazionale sta portando avanti, per superare la crisi, potrà al più fornire qualche beneficio a
qualche azionista o a vecchi e nuovi capitani d’industria che si ritroveranno
qualche gallina dalle uova d’oro tra le mani
Mentre
l’autunno si avvicina, sono in molti a chiedersi per l’ennesima volta se sarà
caldo. Già alcune organizzazioni sindacali e politiche hanno prenotato
manifestazioni nazionali e scioperi generali, nella convinzione di mobilitare
le masse e innescare l’annunciata conflittualità. L’arretramento politico e
sociale che già abbiamo vissuto dopo gli ultimi one-day-spot, atti
unici di irruzione della soggettività precaria durante qualche manifestazione,
dovrebbe spingerci alla cautela. Sembra ormai evidente che questi
sfogatoi allontanano le forme di conflittualità dentro e intorno ai
posti di lavoro. Come le recenti lotte nella logistica hanno
mostrato, la questione non è tanto la forza immediata con cui si manifesta
il conflitto, quanto il suo localizzarsi nei punti strategici dei processi
economici. Ma si sa quanto sia complicato frenare l’autonomia di certe
soggettività e quanto sia ampia la smania delle varie organizzazioni di
sovradeterminare i processi politici.
Nonostante
gli auspici, i proclami e le paure sull’aumento della conflittualità, uno degli
elementi senza dubbio più eclatanti della crisi economica italiana è la sua
sostanziale assenza,
almeno in confronto agli altri paesi dell’area euro-mediterranea. Si può senza
dubbio convenire sul fatto che le abitudini concertative incistate nei
sindacati confederali italiani abbiano smorzato l’emergere di estese lotte
operaie per contrastare la gestione della crisi economica.
Tanto
l’accordo sulla Rappresentanza sui posti di lavoro, siglato il 31 maggio 2013,
quanto il recentissimo documento comune con Confindustria ne sono la prova più
tangibile. Eppure, ci sembra che l’accusa rivolta ai sindacati di
troncare e sopire le tensioni colga solo una parte della questione. Uno dei
principali strumenti per la gestione delle ricadute della crisi economica, che
ha spento sul nascere le tensioni sociali e politiche, è stato il ricorso ai
cosiddetti ammortizzatori sociali, in particolare alla cassa integrazione. Ricostruire
la gestione delle politiche del lavoro e della cittadinanza, cioè del welfare
nel suo complesso, è di assoluta rilevanza per non immaginarlo solamente come
uno spazio liscio, aperto a rivendicazioni soggettive in grado di sovvertire le
forme attuali dello sfruttamento. Per quanto la spesa pubblica
italiana per le politiche del lavoro rimanga tra le più basse a livello
europeo, dal 2008 al 2011 essa è passata dai 19 ai 27 miliardi di euro, cioè da
322 a 442 euro per abitante. Si tratta di una spesa che finanzia in larga
misura le politiche passive del lavoro, cioè qualche beneficio economico per
chi ha perso il lavoro o è in cassa integrazione. Se lo Stato sociale è
in crisi da almeno un ventennio, i governi che si sono succeduti in questi
cinque anni di recessione economica hanno mantenuto una certa attenzione alla
distribuzione di briciole di massa, che non ha escluso neppure quanti non
ne avevano alcuna titolarità grazie alle numerose deroghe.
L’uso
della cassa integrazione in funzione anti-operaia era stato una delle
principali strategie messe in campo a partire dalla metà degli anni Settanta,
quando però il livello di conflittualità aveva raggiunto punte elevate. Nella
situazione odierna la cassa integrazione sembra invece essere un mezzo per
prevenire la conflittualità, per quanto le forze dell’ordine e la magistratura
non abbiano certo lesinato il loro apporto anche nella
gestione dell’attuale congiuntura. È evidente che per quanti non sottostanno
allo scambio politico, di cui la cassa integrazione è uno degli strumenti, il
piccolo teorema estremista è sempre pronto. Come ha notato perfino un giudice,
le scandalose legnate somministrate agli operai negli ultimi mesi, quelle
stesse legnate che hanno fatto sussultare qualche mezzo d’informazione, sono
ben poca cosa rispetto a quanto è stato messo in campo contro gli attivisti No
Tav, su alcuni dei quali pende l’accusa di terrorismo.
La
crisi economica e le misure previste per contrastarne gli effetti, dalla cassa
integrazione ai contratti di solidarietà, hanno rinvigorito i rapporti tra
sindacati e aziende,
finendo per chiudere sempre più nella sfera privata i rapporti lavorativi. Gli
accordi di cassa integrazione e di riduzione del personale con gli annessi
incentivi all’esodo hanno frammentato ulteriormente la forza lavoro alle prese
con le proprie situazioni personali, le proprie capacità lavorative e la
propria rete di sostegno per la sopravvivenza e per la ricerca di un nuovo
posto di lavoro. Là dove questo era possibile. Ma dov’era e dov’è possibile?
La
ricomposizione del collettivo lavorativo è avvenuta quasi solo quando le misure
di salvaguardia del reddito erano in pericolo o quando incombevano
licenziamenti collettivi.
Con buona pace delle sbandierate politiche di flessibilità e di mobilità, la
cassa integrazione ‘incatena’ gli operai alla fabbrica poiché essi ne rimangono
formalmente alle dipendenze. La recessione ha quindi ridato centralità al
sindacato in quanto soggetto necessario per la gestione della crisi
enfatizzando il suo ruolo concertativo all’interno del sistema
azienda-territorio. Un funzionario sindacale afferma significativamente: «Siamo
diventati tutti specialisti di cassa integrazione e mobilità». Se i sindacati
non escono certo rafforzati dalla crisi, ne escono però economicamente più
floridi grazie ai nuovi contatti con i lavoratori, all’approfondirsi degli
accordi bilaterali per le imprese artigianali e ai nuovi servizi su cui essi si
sono specializzati. C’è forse da domandarsi se questa maggiore
prosperità permetta, come in altri paesi, il lancio di specifiche campagne di
sindacalizzazione in nuovi e vecchi settori produttivi.
Tanto
nel 2010 quanto nel 2011 in Italia i beneficiari di prestazioni di
ammortizzatori sociali sono stati poco meno di 4 milioni di lavoratori: 1,4
milioni di cassaintegrati, 1,2 milioni di percettori di indennità di
disoccupazione ordinaria, 526 mila beneficiari di disoccupazione agricola, 502
mila percettori di indennità di disoccupazione a requisiti ridotti. Nel
2012 i numeri sono probabilmente aumentati estendendo la compravendita del
consenso a prezzi di sconto. Quasi un terzo dei lavoratori dipendenti del
settore privato ha quindi beneficiato di un sostegno al reddito. I
lavoratori italiani hanno fatto la parte del leone per quanto riguarda le varie
tipologie di cassa integrazione, mentre i migranti hanno sovente percepito un
più misero assegno di disoccupazione, visto che sono spesso occupati in aziende
di minori dimensioni e soggetti a contratti precari. È d’altra parte evidente
che, mentre gli italiani hanno potuto affrontare la crisi con qualche risparmio
e una rete sociale sovente articolata, i migranti si sono riversati in
altre attività pagando il pedaggio di una maggiore mobilità territoriale.
La
platea di aziende e cooperative cui è stata data la possibilità di accedere
alle forme di sostegno al reddito è stata allargata concedendo ampie deroghe.
In questo modo anche quelle imprese e cooperative che non hanno contribuito ai
diversi fondi per la cassa integrazione vi hanno potuto accedere: circa un
quinto dei lavoratori hanno percepito la cassa integrazione grazie a
provvedimenti ad hoc. In tutto questo giro di soldi vi sono
naturalmente operazioni quanto meno sospette. Che qualche cooperativa del
commercio equo e solidale ricorra alla cassa integrazione per i suoi dipendenti
per qualche decina di ore alla settimana è perlomeno riprovevole. Tanto più se
poi quei dipendenti continuano a svolgere il loro consueto orario di lavoro. Cassa
integrazione, mobilità, contratti di solidarietà e incentivi all’esodo non sono
serviti solo ad affrontare la più profonda recessione del dopoguerra, ma hanno
permesso al padronato di operare una gestione politica della forza
lavoro. La diffusione di liste di proscrizione sulla base
dell’iscrizione a un sindacato o semplicemente perché qualche lavoratore non è
pronto alla deferenza è uno dei tanti effetti di questi orientamenti. La
mannaia della crisi ha così permesso di estendere il processo di
disciplinamento dentro e fuori i posti di lavoro e addirittura di incrementare
il razzismo. Il livello di effettiva fruizione della cassa integrazione
rispetto alle ore autorizzate, 40-43%, è un preciso indicatore di questo
processo di disciplinamento: le aziende chiedono la cassa integrazione
e poi la usano durante l’anno a seconda della congiuntura economica e
politica.
Il
ricorso alle misure di sostegno al reddito ha garantito lo smantellamento
silenzioso di una parte importante dell’industria manifatturiera italiana, in particolare
quella metalmeccanica, sottocapitalizzata e a ‘bassa produttività’. La bassa
produttività dell’apparato produttivo è sovente indicata come uno dei mali
dell’economia italiana, ma tra tutti i fattori che determinano la produttività
ne viene sempre indicato uno solo: la forza lavoro. Degli investimenti che non
siano i capannoni che hanno infestato come la gramigna ormai buona parte del
centro-nord Italia non si parla mai, mentre ogni governo nel corso degli ultimi
vent’anni (a partire proprio da quelli di centrosinistra) è andato all’assalto
delle ‘rigidità’ della forza lavoro e dell’apparato produttivo pubblico. Che la
precarietà contrattuale e i ricatti cui una buona parte di lavoratrici e
lavoratori italiani sono sottoposti possano rendere più competitivo il
sistema-paese, ormai lo credono solo quanti sono in malafede o vivono nella
sudditanza di una classe imprenditoriale che sta gestendo la progressiva
dismissione dell’industria manifatturiera. Una prospettiva che può essere
considerata miserevole, come infatti la considerano quanti – anche nel mondo
imprenditoriale – mantengono un atteggiamento obiettivo ricordando gli
investimenti lesinati alla ricerca e allo sviluppo, ma che sembra costituire
ormai il modello italiano corrente. Per capire il rapporto tra il livello degli
investimenti e quello dei salari non è necessario scendere
nel foggiano, basta fermarsi nei ghetti per braccianti immigrati a Saluzzo
(Cuneo) o visitare qualche polo logistico del centro-nord. Sulla scelta
di mantenere l’Italia nei meandri dei bassi salari, non si sono levate grandi
proteste. Mentre i giovani più accorti e attrezzati hanno già cominciato a
votare con i piedi, migrando all’estero.
L’assalto
all’apparato produttivo pubblico è un altro obbrobrio cui pure le forze
sindacali hanno contribuito in vari modi. Come sempre durante il periodo estivo
si è iniziato a lanciare il sasso nello stagno per capire le reazioni, sicché dopo
il decreto del fare forse avremo anche un decreto del liberare. Dalla metà
degli anni Ottanta al 2012 le dismissioni dell’apparato pubblico hanno permesso
introiti pari a circa 157 miliardi di euro correnti. Nello stesso periodo,
nell’UE a 15 paesi ha fatto meglio solo la Francia con 174 miliardi di euro. Il
periodo d’oro delle privatizzazioni è stato il decennio 1996-2005, in
particolare quando governava il centrosinistra (1996-2001): nel solo 1999, con
la volpe del Tavoliere al timone del governo, furono venduti beni pubblici per
25 miliardi. Le motivazioni addotte per le privatizzazioni sono sempre
abbastanza simili: risanare le finanze pubbliche; ridurre la presenza dello
Stato nel mercato; rendere efficienti imprese in cui regna il clientelismo;
incrementare la concorrenza. Lasciando stare i più noti casati Agnelli e
Berlusconi, forse le aziende (e le cooperative) private gestite dai Tanzi, dai
Ligresti, dai Riva o dal duo Consorte-Sacchetti ci hanno abituato a prestazioni
impeccabili sui mercati internazionali?
Ogni
privatizzazione è stata ovviamente preparata con campagne stampa
sull’inefficienza, la corruzione, le necessità finanziarie dello Stato e così
via. Se i conti
pubblici non sono certo migliorati in questi anni, d’altra parte è emerso in
modo chiaro come il mercato non sia certo una panacea per i mali dei
consumatori o, peggio, dei lavoratori. Non saremo certo noi gli statalisti, ma
qui ci preme sottolineare come l’ideologia del ‘meno Stato più mercato’ che il
governo di unità nazionale sta portando avanti, per superare la crisi,
potrà al più fornire qualche beneficio a qualche azionista o a vecchi e nuovi
capitani d’industria che si ritroveranno qualche gallina dalle uova d’oro tra
le mani, come nel caso di Telecom, Eni, Enel, Autostrade.
Per
contro, dal lato dei cosiddetti garantiti e privilegiati, cioè
della forza lavoro nel settore pubblico, la gestione della crisi è
avvenuta attraverso altri strumenti:
una campagna stampa contro i fannulloni, le minacce di privatizzazione e soprattutto
di licenziamento, una retorica incessante su quanti sarebbero i fortunati nella
lotteria della vita. Se di questa propaganda sono stati artefici i due
precedenti governi, l’attuale partito di maggioranza relativa sembra ben lieto
di continuarne l’opera, iniziando con la riduzione del potere d’acquisto dei
salari, grazie alla proroga del blocco delle buste paga fino alla fine del
2014, che rende sempre meno attraente questi posti di lavoro. Il
settore privato ha così allargato il bacino di forza lavoro a cui attingere
offrendo livelli retributivi mediamente più elevati.
In
due anni, dal 2010 al 2011, il blocco delle assunzioni e degli stipendi ha
fatto perdere mediamente più di 2000 euro a ciascuno dei dipendenti pubblici,
garantendo un risparmio di 6,6 miliardi di euro alle casse statali. In
prospettiva, grazie al ritardo degli scatti di anzianità e a una forza lavoro
piuttosto ‘anziana’, queste manovre permetteranno ulteriori risparmi,
ma anche probabilmente una riduzione del Pil. Un aspetto questo largamente
sconosciuto. La spesa per redditi da lavoro dipendente nella Pubblica
amministrazione è oggi pari a circa 165 miliardi di euro e la sua incidenza sul
prodotto interno lordo è diminuita dall’11,1% del 2010 al 10,6% del 2012. La
campagna contro i lauti stipendi dei ministeriali e dei manager pubblici
occulta il fatto che la maggior parte dei dipendenti pubblici percepisce dei
salari da stento, 1100-1300 euro al mese. Per chi è assunto a tempo
indeterminato la relativa sicurezza del posto di lavoro è sempre stata
scambiata con bassi salari medi e scarse opportunità di carriera, ma molti
dimenticano come il settore pubblico sia stato anche un’avanguardia nelle forme
di precarizzazione del lavoro, tanto dirette quanto attraverso i subappalti. D’altra
parte non esistono politiche del welfare senza un settore pubblico che le
gestisca. Ed è significativo che la spending review voluta
da Monti, su oltre tre milioni e mezzo di dipendenti pubblici a
livello nazionale, ne ha individuati 7.800 in esubero, di cui 3.300,
praticamente la metà del totale, all’Inps.
Il
blocco delle assunzioni e degli stipendi del settore pubblico è piombato su
circa 3,2 milioni di lavoratori senza alcuna possibilità di negoziazione. Di
questa vicenda l’aspetto che sorprende è la capacità sindacale di mantenere
bassissimo il livello di conflittualità, nonostante il settore pubblico sia tra
i più sindacalizzati, con circa 1,1 milioni di iscritti, più di un terzo di
tutti i lavoratori, e nonostante una relativa presenza dei sindacati di base.
Al netto delle accuse di oziosità, buone solo per additarli al pubblico
ludibrio come dei privilegiati, l’attacco ai lavoratori pubblici è legato alla
loro maggiore autonomia nel posto di lavoro e ai diritti che li proteggono dal
licenziamento con uno schiocco con le dita. Ma il settore
pubblico rappresenta anche una riserva di reddito, disciplina e identità del
corpo del lavoro e del sindacato dal quale, non a caso, sono esclusi i
lavoratori migranti. Anche l’apertura degli impieghi pubblici ai migranti
richiesta dall’Unione Europea avrebbe effetti ormai solo nel lunghissimo
periodo, tenendo conto della loro condizione di partenza e del blocco del turn
over.
Attraverso
il blocco di stipendi e assunzioni il popolo delle libertà prima e quello della
legalità poi hanno spazzato via la finzione dell’autonomia della contrattazione
collettiva e la sua equiparazione a una legge ordinaria. Il contratto
collettivo di lavoro ha sempre avuto aspetti di forte contraddizione, ma
l’accordo sulla Rappresentanza del maggio scorso vorrebbe farne una gabbia per
l’agibilità operaia, impedendo qualsiasi protesta per tutto l’arco della
sua vigenza. Una volta firmato il contratto collettivo, l’azienda avrà così
mano libera nella produzione e per contrastarla occorrerà attivare procedure
burocratiche e inefficaci, facendo percepire ai lavoratori tutta la loro
impotenza. Un sistema che negli ultimi vent’anni diversi paesi ex-comunisti
dell’Europa orientale hanno dovuto applicare per entrare nel club europeo dei
paesi ‘ricchi’.
In
maniera assolutamente coerente, dopo essere stata obbligata dalla sentenza
della Corte costituzionale a riammettere nei suoi stabilimenti i delegati della
Fiom-Cgil, la Fiat ha posto come condizione preliminare una legge generale
sulla rappresentanza sindacale. Se i rapporti di forza dentro e fuori
la fabbrica rischiano di essere determinanti, una legge generale può sempre
neutralizzarne gli effetti. La sinistra italiana sembra ancora ipnotizzata
dai pifferai che suonano la melodia del capitalismo molecolare e creativo
sedendo indifferentemente alle tavole rotonde confindustriali, sindacali o di
qualche partito più o meno rifondato. Nel corso degli ultimi vent’anni, la vera
trasformazione italiana è consistita nel processo di smantellamento ideologico
e materiale di qualsiasi elemento di parziale autonomia del lavoro rispetto al
capitale: un percorso garantito anche dal silenzio dei molti intellettuali
rintanati nelle università che pure non disdegnano qualche raccolta firme per
la salvezza della democrazia. Per questo anche i sussulti ribellisti tendono ad
acquisire carattere morale più che politico.
L’illusione
che uno sciopero generale o più modestamente una manifestazione nazionale
possano, come per incanto, svegliarci dal torpore è assai diffusa. Ma il
violento processo di proletarizzazione che interessa ampie fasce del mondo del
lavoro non è certo una condizione sufficiente per l’emergere di una risposta.
È infatti fin troppo facile prevedere che per uscire dalla crisi politica e
dalla sua gestione non servirà granché agitare la Costituzione o cercare di
costruire un nuovo partito per le prossime elezioni che verranno. A meno che
qualcuno non creda ancora nella necessità di una convergenza nel nome
dell’interesse generale del paese. È invece dall’espressione di un punto di
vista parziale, come le lotte della logistica per quanto territorialmente
limitate sembrano indicarci, che forse è possibile ripartire. Mettendo
in discussione ritmi, carichi di lavoro e bassi salari, i lavoratori migranti hanno
contestato sul campo il mantra dell’assenza di alternativa. Forse
anche i lavoratori di altri comparti potrebbero raccogliere tali indicazioni,
magari non in vista di un autunno caldo, ma almeno per iniziare a invertire la
rotta.