di
Sandro Mezzadra
I
momenti conflittuali e “insurrezionali” continuano a riprodursi all’interno
delle lotte e dei movimenti sociali, ma essi non trovano nessun tipo di
feedback all’interno delle istanze governative e “costituzionali”. È urgente
lanciare una campagna costituente per trasformare forze e istituzioni
esistenti, crearne di nuove, incanalare lotte e “indignazione” sociali verso
l’obiettivo di “costruire un’altra Europa”. Bisogna reinventare radicalmente lo
spazio europeo le sue istituzioni e la sua cittadinanza sulla base di una nuova
coniugazione di libertà e uguaglianza. È necessario ricostruire un nuovo orizzonte
politico su scala continentale dentro il quale la sinistra europea possa rifondarsi:
non è possibile immaginare una ricostruzione dei sistemi di welfare a livello
europeo secondo il modello del welfare state “storico”
Étienne
Balibar ha perfettamente ragione: dobbiamo “porre da subito il
problema di una rifondazione dell’Unione, in vista della costruzione
di un’altra Europa”. Dovremmo essergli grati per aver messo in corsivo sia
“da subito” sia “rifondazione”. Si deve agire ora, e quest’azione non può
dare per scontata né l’esistenza delle forze politiche da mobilitare, né le
coalizioni sociali capaci di sostenere una simile mobilitazione, né le energie
intellettuali da attivare, né i canali e le strutture istituzionali da assumere
come riferimento.
Serve,
su ciascuno di questi livelli, una campagna costituente, che sappia
trasformare forze e istituzioni esistenti, crearne di nuove, incanalare lotte e
“indignazione” sociali verso l’obiettivo di “costruire un’altra Europa”,
producendo al tempo stesso nuovi linguaggi politici e immaginari culturali. Una campagna
costituente, dicevo: non una campagna per un’“assemblea costituente”, per la
quale mancano attualmente tutte le condizioni. Penso a un progetto di durata
decennale, in grado di reinventare radicalmente lo spazio europeo, la sua
posizione in un mondo tumultuosamente in trasformazione, le sue istituzioni e
la sua cittadinanza sulla base di una nuova coniugazione di libertà e
uguaglianza. E’ necessario aggiungere che una simile reinvenzione non può che
essere allo stesso tempo una reinvenzione della sinistra in Europa? Se la
sinistra ha un futuro in questa parte del mondo, sono convinto che questo
futuro non possa che essere costruito su scala continentale.
Dovremmo
essere consapevoli della dimensione globale delle sfide di fronte a cui ci
troviamo oggi in Europa.
È evidente che la messa in discussione di consolidate gerarchie spaziali e
l’affermazione di nuove geografie dello sviluppo e dell’accumulazione
capitalistica figurano in primo piano tra le tendenze che sottendono l’attuale
crisi economica globale. Nuovi regionalismi e nuovi modelli di multilateralismo
stanno prendendo forma in molte parti del pianeta, una sorta di “deriva dei
continenti” (per riprendere l’immagine geologica impiegata da Russell Banks nel
famoso romanzo omonimo del 1985) sta ridisegnando il mondo. All’interno di
questi processi, l’Europa è sempre più “provincializzata”, anche se non
necessariamente nel senso suggerito da Dipesh Chakrabarty nel suo importante
libro del 2000.
Di
per sé, non è un male. Tutt’altro. Ma per cogliere e interpretare politicamente
le opportunità connesse a questa provincializzazione dell’Europa abbiamo
bisogno di una scala continentale di azione politica e di governo. Abbiamo
bisogno di un’Europa politica. Al di fuori di quest’ultima, la prospettiva è
quella di un’Europa ridotta a qualche isola di benessere e ricchezza in un mare
di povertà e privazione: cosa che abbiamo già iniziato a sperimentare nel Sud
del nostro continente. Inoltre solo su scala continentale è possibile
immaginare la costruzione di un rapporto di forza favorevole con il capitale
finanziario, il cui dominio all’interno del capitalismo contemporaneo è alla
radice della crisi di ogni mediazione politica (ovvero della democrazia) oggi
così evidente in Europa.
Non
è questo il luogo per analizzare a fondo le implicazioni dello sguardo
“geopolitico” sulla questione europea (il che significherebbe in particolare
discutere su basi completamente nuove il problema delle relazioni tra Europa e
Stati Uniti). Ma è importante tenere a mente la pertinenza degli argomenti qui
appena evocati per qualsiasi indagine critica sull’attuale situazione europea.
Nel seguito di questo breve intervento, in ogni caso, voglio concentrarmi su
qualcos’altro. Parlare di una campagna costituente significa prendere in
considerazione la necessità di una rottura allo scopo di aprire la
via a un’“altra Europa”.
Penso
sia importante essere consapevoli, in questo senso di quanto profonda sia la rottura
che è già stata prodotta all’interno della stessa struttura delle istituzioni
europee nel contesto della crisi globale. Faccio parte di coloro che a partire
dalla metà degli anni Novanta hanno cercato di lavorare “dentro e contro” la
cittadinanza europea in formazione, soprattutto per quel che riguarda i
movimenti e le lotte dei migranti. Non si tratta certamente di liquidare in
modo sbrigativo quell’esperienza, che è stata anche accompagnata da importanti
dibattiti teorici, nel tentativo di sfidare i limiti e i confini della
concezione tradizionale della cittadinanza. Al tempo stesso, non si può evitare
di fare un bilancio delle radicali trasformazioni che negli ultimi anni hanno
investito la cittadinanza europea. Sia dal punto di vista dell’“appartenenza”
che dal punto di vista dell’architettura istituzionale – per richiamare i due
punti di vista prevalenti negli studi sull’argomento – ci troviamo di fronte a
con una profonda crisi della cittadinanza europea.
Per
dirla brutalmente, questo concetto è stato spogliato di qualsiasi significato
“positivo” e “progressivo” agli occhi di una vasta maggioranza della
popolazione europea, e in particolare in Paesi come la Grecia, la Spagna,
l’Italia essa ha finito per essere ampiamente identificata con la continuità
delle politiche di austerity e con il loro carattere “punitivo”. Allo
stesso tempo, come molti giuristi hanno notato, l’intero progetto di
“integrazione attraverso il diritto”, tratto distintivo dell’integrazione
europea nel suo complesso, si è trovato di fronte ai propri limiti e alle
proprie contraddizioni degli ultimi anni. L’equilibrio tra un
sovra-nazionalismo giuridico e i processi politici di negoziazione, alla base
di quel progetto, è stato destabilizzato: la processualità giuridica è stata sempre
più nettamente caratterizzata da una dinamica autonoma, collegandosi in modi
inediti con gli apparati burocratici europei e con una molteplicità di gruppi
d’interesse.
Ne
è emersa la cristallizzazione di un nuovo “assemblaggio” di potere capace di
dettare standard e norme che restringono sempre di più il campo d’azione di
qualsivoglia politica ( “europea” non meno che “nazionale”). Con il Fiscal
Compact e con il Meccanismo Europeo di Stabilità, la camicia di forza della
stabilità monetaria, i programmi di disciplina fiscale e la continuità dell’austerity si
sono ulteriormente rafforzati, consolidando la posizione (e l’indipendenza)
della Banca Centrale Europea al centro di questo “assemblaggio” di potere.
È
difficile immaginare un’altra Europa politica senza porre l’accento sulla
necessità di strappare questa camicia di forza e di spezzare questo
“assemblaggio” di potere. “Default democratico” (Giandomenico Majone), “crisi
di legittimità” (Fritz Scharpf), ulteriore rafforzamento della natura
“elitaria” e “post-democratica” dell’UE (Wofgang Streeck) sono alcune delle
formule che circolano nei dibattiti sulla crisi europea nel tentativo di
cogliere le implicazioni della rottura a cui si è fatto cenno – della
soluzione di continuità che si è prodotta all’interno del processo di
integrazione.
Se
nel concetto moderno di democrazia, per riprendere i termini proposti in un
celebre saggio di Étienne Balibar, è iscritta una dialettica tra la dimensione
“insurrezionale” e la dimensione “costituzionale” della politica, si deve
riconoscere che oggi in Europa (sia a livello nazionale sia a livello di UE)
questa dialettica sembra essere interrotta. Quel che ne consegue è una divisione che
attraversa gli stessi concetti di politica e democrazia. I loro momenti
conflittuali e “insurrezionali” continuano a riprodursi all’interno delle lotte
e dei movimenti sociali, ma essi non trovano nessun tipo di feedback all’interno
delle istanze governative e “costituzionali”. Quello che rimane a livello
nazionale della “democrazia conflittuale” (citando nuovamente una formula di
Balibar) su cui si è fondato lo sviluppo dello Stato sociale democratico è al
momento in fase di smantellamento o comunque sotto attacco, mentre a livello
europeo non c’è nessun tentativo di compensare questa “perdita” con
l’edificazione di nuovi sistemi di welfare su scala continentale.
Anche quanti avevano che il Trattato di Maastricht avrebbe posto le basi per
uno “scambio” di questo genere sono oggi costretti a ricredersi.
Inutile
dire che questo tema dovrebbe essere prioritario nella “campagna costituente”
che si tratta di avviare. E non è possibile immaginare una ricostruzione dei
sistemi di welfare a livello europeo secondo il modello del welfare state “storico”,
quale lo abbiamo conosciuto in Europa occidentale dopo la seconda guerra
mondiale. Troppe cose sono cambiate, e radicalmente, nella struttura del
capitalismo e nella composizione di ciò che, con un concetto marxiano, possiamo
chiamare il “lavoro vivo” contemporaneo. Basti pensare ai dibattiti sulla
precarietà, sulle nuove caratteristiche delle migrazioni o, per limitarci a un
unico ulteriore esempio, sulle trasformazioni della struttura famigliare e dei
rapporti tra i generi. Attorno a queste e altre questioni si sono sviluppati
con straordinaria continuità movimenti e lotte sociali in tutto il continente:
nessuna campagna per un’“altra Europa” è immaginabile senza un’intensificazione
e un sempre maggiore coordinamento di queste lotte e di questi movimenti.
“Non
essere stata in grado di definire e di promuovere una solidarietà europea è la
ragione del fallimento della sinistra in Europa”, scrive Bo Strath commentando
l’articolo di Balibar (cfr. http://www.opendemocracy.net/bo-str%C3%A5th/social-europe-must-be-political-europe).
Non potrei essere più d’accordo. Vorrei tuttavia aggiungere che questo
“fallimento” è a sua volta legato alla miopia della sinistra di fronte alle
profonde trasformazioni subite dal lavoro, nonché alle rivendicazioni emergenti
da una composizione sociale anch’essa profondamente innovata. L’Europa può
avere un senso solo se la si costruisce come uno spazio all’interno del quale
queste rivendicazioni possano essere articolate in un progetto politico capace
di essere al contempo radicale ed efficace. Solo se diviene uno spazio in cui la
lotta contro la povertà, lo sfruttamento e la discriminazione ha più
possibilità di successo, in cui è più facile distruggere la paura inoculata e
disseminata dalla crisi all’interno del tessuto sociale. Lottare contro il
“ritorno dei nazionalismi” e l’ascesa di nuove forme di fascismo in Europa
significa prima di tutto lottare per sradicare questa paura.
Quando
parlo di una “campagna costituente” non penso a un’unica campagna organizzata
centralmente. Ciò di cui abbiamo bisogno è in primo luogo forgiare uno “spirito
costituente” attraverso una molteplicità d’iniziative, articolate su diversi
livelli e capaci di investire diversi luoghi e forum (dalla mobilitazione di
piazza al Parlamento europeo). Ecco perché, ottimisticamente forse, scrivevo di
un progetto di durata decennale. Mi rendo perfettamente conto che le
prospettive per un progetto del genere in questo preciso momento non appaiono
particolarmente incoraggianti. Esso dipende, per citare ancora l’articolo di
Balibar da cui ho preso le mosse, da “molte condizioni, tutte difficili e il
cui adempimento è improbabile”. E’ un monito essenziale rispetto alla
difficoltà del compito che ci spetta: ma nulla dice (e Balibar lo sottolinea)
contro la realistica necessità di farsene collettivamente carico. In
fin dei conti potremmo concludere ricordando, con un po’ di necessaria ironia,
le parole di Max Weber, uno che di “realismo politico” se ne intendeva: “è
senz’altro vero che non si raggiungerebbe il possibile se nel mondo non si
tentasse sempre di nuovo l’impossibile”.