FORME DI OPPRESSIONE DEL XXI
SECOLO
Come guardare alle miserie oppressive e repressive del presente senza cadere nella nostalgia del passato, senza attaccarsi a supposte verità dogmatiche, senza ricorrere a modelli di lettura oramai obsoleti? Quali approcci sarebbero più adeguati al fine di analizzare le forme di oppressione conseguite dalle innovazioni introdotte nel corso dell’ultimo cinquantennio nell’organizzazione produttiva capitalistica? Come smascherare, in particolare nell’ultimo trentennio, la commistione dagli effetti deleteri tra nuove forme di capitalismo estrattivo e il dilagare di misure repressive dissimulate in termini di salvaguardia e sicurezza?
Nel corso del Novecento le acute riflessioni di pensatrici quali Rosa Luxemburg (1871-1919) riguardo al letale connubio capitalismo-crisi-catastrofe, Simone Weil (1909-1943) a proposito dell’oppressione, e non solo sociale, e Hannah Arendt (1906-1975) sui regimi totalitari hanno gettato luce da angolazioni diverse sulla condizione umana, ma ancora oggi continuano a restare circoscritte in ambiti ristretti o come prerogativa di studi specialistici o come concezioni e pratiche di donne per donne. Consiglio pertanto a quante/i hanno letto o leggeranno il volume Sfruttamento e dominio nel capitalismo del XXI secolo a cura di Toni Casano e Antonio Minaldi (Multimage, 2023), sul quale mi soffermerò, la lettura di alcune opere di queste pensatrici, in particolare del saggio del 1934 di Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale (Adelphi, 1983), dal quale traggo alcuni spunti che ritengo necessari a definire il mio posizionamento.
Nella storia dell’umanità il dato che appare in tutta la sua evidenza consiste nella sostituzione dei mezzi ai fini, ovvero nel sacrificio della « vita umana in sé e negli altri per cose che costituiscono solo dei mezzi per vivere meglio » in una corsa folla e sanguinosa al potere, che rende tutti gli esseri umani, oppressori e oppressi, « il puro zimbello degli strumenti di dominio che essi stessi hanno fabbricato », riducendo così « l’umanità vivente a essere cosa fra le cose inerti » (Riflessioni…, p. 54). Oggi si rivela quanto mai impellente l’analisi dell’esistenza sociale sulla base dei rapporti tra esseri umani e natura determinati dalla produzione mettendo al centro il problema del potere: urge lo studio delle azioni e delle reazioni « che si producono perpetuamente tra l’organizzazione del potere e i procedimenti della produzione; poiché, se il potere dipende dalle condizioni materiali di vita, esso non cessa mai di trasformare queste stesse condizioni (ibidem, p. 57) », come scriveva Simone Weil quasi novant’anni fa.
È vero, abbiamo assistito nel corso della storia all’alleggerimento del giogo delle necessità dettate dalla natura, ma è altrettanto vero che abbiamo constatato sulla nostra pelle l’appesantimento del giogo dell’oppressione sociale che lo ha inevitabilmente “compensato”. Questo bilanciamento è un’evidenza: quanto più abbiamo creduto di aver raggiunto un dominio vasto e pieno sulle forze della natura, tanto più soccombiamo sotto il peso della società stessa. In altre parole, ci troviamo da un lato a essere soggiogati come sempre dai meccanismi ciechi e immutabili della lotta per il potere e, dall’altro, a brancolare quasi senza via di scampo in balìa delle forze della natura nella nuova forma che esse vestono “grazie” al progresso tecnico e tecnologico al quale ci sottomettiamo in modo fatalistico. Che fare dunque nell’odierno contesto dell’egemonia neoliberista?
I curatori del libro Sfruttamento e dominio nel capitalismo del XXI secolo si propongono di rilanciare il metodo di analisi critica sulla scia di quello di ricerca e azione e, aggiungerei, passione di Raniero Panzieri (1921-1964), fondatore della rivista “Quaderni rossi” (1961-1966). Si tratta, scrivono nell’Introduzione, di indagare sia i mutamenti del capitalismo in atto tra discontinuità e continuità con il passato sia il processo di soggettivazione all’opera nel lavoro vivo che non si piega all’ordine determinato dalle innovazioni nell’organizzazione del sistema produttivo. A questo riguardo suscitano interesse alcuni saggi compresi nella terza sezione dal titolo “Il capitalismo della produzione immateriale”.
Con l’imporsi della flessibilità e della dematerializzazione del lavoro nell’era del digitale assistiamo all’assottigliarsi dei lavori salariati e all’accrescersi e stabilizzarsi della condizione di precarietà che coinvolge oggi tanto la sfera del lavoro manuale quanto quella del lavoro intellettuale, sicché accanto al termine proletariato abbiamo visto apparire quello di cognitariato, un neologismo che indica i precari dei lavori immateriali, ovvero i proletari della conoscenza. Su questo cerca di mettere ordine il saggio di Toni Casano, « Il cognitariato tra lavoro fisico e lavoro mentale », nel tentativo di districare i fili di una matassa ingarbugliatissima. Casano sostiene da una parte che nonostante la desalarizzazione « il lavoro tout court […] continuerà ad essere l’oggetto del desiderio fondamentale dell’accumulazione capitalistica », ma dall’altra rileva che « nella contemporanea società iper-industrializzata […] si è determinato uno sfruttamento del tempo-vita quasi totalizzante, senza risparmiare alcun interstizio dello spazio relazionale umano » e coglie nel segno là dove individua nell’ « agire comunicativo-riproduttivo-formativo la linfa vitale del biocapitalismo cognitivo: trasformare tout court il complesso delle relazioni umane in merce-lavoro, una fonte inesauribile consumata a costo zero, posta a fondamento della sussunzione vitale », nozione che ormai sostituisce quella marxiana di sussunzione reale, data la messa in valore della vita stessa di ogni soggetto oramai sottomessa a una espropriazione sconfinata e catturata in flussi che risultano sempre più incontrollabili a noi comuni mortali.
L’economista Andrea Fumagalli nel suo saggio « Valorizzazione e sussunzione nel capitalismo delle piattaforme: il nodo della distribuzione del reddito » volge la sua analisi alle tre direzioni innescate dalle innovazioni apportate dalle biotecnologie nell’ambito della decifrazione e alterazione del DNA, dalle tecnologie algoritmiche nella gestione, manipolazione e organizzazione di una mole crescente di dati, e dalle tecnologie ibride umano-macchiniche nei processi di apprendimento semautomatico delle macchine cosiddette intelligenti. Con queste tre tendenze di sviluppo « fra loro sinergiche» e che « si alimentano a vicenda », scrive Fumagalli, si è favorito un nuovo paradigma tecnologico, e quindi lo sviluppo del modello organizzativo piattaforma « in tutti i settori strategici dell’accumulazione contemporanea, non solo nell’ambito dei servizi avanzati legati alla produzione simbolica, relazionale, pubblicitaria, design, ecc. ma anche nelle attività manifatturiere più tradizionali e nella logistica ». Modalità organizzativa che porta Fumagalli a interrogarsi su quale lavoro? e quale salario? per poi dedurne un aumento dell’assoggettamento del lavoratore, della lavoratrice ai tempi del processo produttivo e una crescente diffusione di nuovi modi di remunerare e di prestazioni lavorative gratuite e di una precarizzazione del reddito.
Il sociologo Francesco Maria Pezzulli tematizza « La produzione di soggettività nell’università neoliberale » e traccia la storia di questa istituzione a partire dalla riforma Ruberti – che tra il 1989 e il 1993 ne stravolge l’impianto normativo rendendo gli atenei unità aziendali da valutare « in base alle performance, anche finanziarie, che riescono a mantenere nel tempo », sulla base di indicatori standard – per poi soffermarsi sulle riforme successive di Berlinguer, Moratti e Gelmini, evidenziando a ogni tappa le reazioni del movimento studentesco, dalla Pantera all’Onda anomala, e le pesanti ricadute su professori e studenti. Il modello organizzativo aziendalistico ha reso agli studenti indigesta l’università « come un virus che all’entusiasmo sostituisce la depressione, alla passione l’indifferenza, al desiderio la sazietà o la nausea » – osserva Pezzulli, anche se chiude il suo scritto con un accenno di fiducia in una possibile inversione di rotta.
L’ultimo testo della sezione “Il capitalismo della produzione immateriale” rimette al centro il tema del lavoro con l’intento di « comprenderne le trasformazioni, capire attraverso quali meccanismi si genera l’estrazione del plusvalore e come le nuove tecnologie intervengano modificando tempi e modi della produzione ma anche composizioni sociali e comportamenti », dichiara Sergio Riggio nel suo scritto « Il lavoro oltre il lavoro ». L’analisi si fonda su due pilastri di Marx, «la caduta tendenziale del saggio di profitto e la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione », e attraversa le fasi di trasformazione del capitalismo digitale tra la fine del Novecento e l’oggi cogliendone via via le differenze fino agli ateliers della produzione, per il cui funzionamento sono elementi necessari e indispensabili le facoltà e le abilità umane attinenti all’ambito della conoscenza e del linguaggio, alla sfera della socialità, agli stati emotivi. La diffusione di forme atipiche di lavoro non ha però provocato il venir meno del lavoro salariato, osserva Riggio evidenziando il paradosso, ma «la gestione della sua crisi è diventato il tratto distintivo del neoliberismo » dopo il 2007/2008. La parte più problematica e interessante dello scritto riguarda a mio giudizio la riproposizione delle distinzioni tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e tra lavoro cognitivo e lavoro operaio: « All’interno dei bacini di forza lavoro la composizione tecnica, ormai etnica, è cangiante e mutevole e va dai superspecializzati ai facchini, agli operai del data entry [inserimento dati], agli operai old style da destinare alle catene di montaggio. E mutevoli sono anche nel numero in quanto soggetti alla flessibilità della domanda, così i salari si riducono e i diritti pure, variabili dipendenti delle world factory disseminate là dove l’approvigionamento delle materie prime, la logistica, e il costo del lavoro sono più convenienti ».
C’è una questione che attraversa tutti gli scritti, e non solo quelli della sezione che ho provato ad illustrare, e che Riggio ben riassume nelle sue conclusioni. Essa riguarda « una nuova rappresentazione politica del Lavoro, dei suoi bisogni e interessi, dalla sua dimensione operaia di fabbrica e artigiana, passando dal lavoro manuale non operaio, da quello della conoscenza, allargando il perimetro alle forme di lavoro giuridicamente autonomo ma economicamente dipendente […] a garanzia del valore fondante che al lavoro deve riconoscere qualunque progetto o idea di società futura ». Non sarebbe allora auspicabile mettersi in ascolto del differente rapporto con il lavoro che hanno da sempre le donne e del differente senso che vi danno? Si potrebbe per esempio cominciare con la lettura del volume del Gruppo Lavoro della Libreria delle donne di Milano, Dalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo, a cura di Giordana Masotto (Moretti&Vitali, 2022), che offre degli strumenti adeguati a stare nel presente « senza cedere al richiamo della performance competitiva ».
Se non vogliamo soffocare nelle miserie del presente o esporci alle insidie di un nichilismo fomentato dalla cattura dell’umano da parte di un capitalismo rapace che fa incetta di tutto, proprio tutto, in vista del profitto, se scegliamo di non assoggettarci ai poteri del capitalismo della sorveglianza esercitati mediante le biotecnologie, le tecnologie algoritmiche e le tecnologie ibride umano-macchiniche, se desideriamo che in ogni donna, in ogni uomo non si mortifichi l’espressione creativa, occorre a mio parere uscire dalla logica alienante e reificante forza lavoro-merce-profitto e riscoprire il valore del lavoro in sé, in quanto pratica indispensabile al fiorire della vita. Teniamo presente che « più l’economia del mercato ci colonizza tempi, corpi e immaginario, più diventa impellente ancorarci alla vita. Decontaminare lo sguardo per capire che cosa è vita » (Giordana Masotto, «Primum vivere, gutes Leben, buen vivir», marzo 2014).