martedì 22 ottobre 2024

LE CONDIZIONI DEL NOSTRO VIVERE

 - Collettivo Effimera -

 Report sull’incontro del 5 ottobre 2024 

Nell’introduzione all’incontro è stato posto l’accento sul linguaggio, sulla forma della comunicazione, sui percorsi materiali da seguire per riaccendere il contatto, per mappare il disagio, la speranza, la ricerca, l’esigenza di lottare/resistere/contrattaccare/contestare/rifiutare

Abbiamo intitolato “Le condizioni del nostro vivere” l’incontro di Effimera che si è svolto preso il CSOA Cox 18, sabato 5 ottobre 2024. Di questo abbiamo parlato, in modo libero, ciascuno e ciascuna portando il proprio punto vista, le proprie esperienze, senza interventi preparati e senza un ordine prestabilito, una sorta di brainstorming, per discutere e confrontarci tra noi.

Questo è stato il primo obiettivo dell’iniziativa: ricominciare a parlarci, come si dice in presenza. Non è cosa scontata come può apparire: molti interventi hanno sottolineato come le relazioni con gli altri/e, decidere di uscire di casa e ritrovarsi, corpo a corpo, viso a viso, sia sempre più difficile. Da un lato perché la comunicazione è, in modo pervasivo, mediata da piattaforme sociali che tendono a svuotarla, a condizionarla e a falsificarla nella sua spontaneità e immediatezza, dall’altro perché siamo condizionati da una serie di processi repressivi. La guerra, le guerre, quelle militari ma anche quelle sociali, ci controllano in modo crescente, ci inibiscono, ci riducono al silenzio.

Nell’introduzione all’incontro si è posto l’accento sul linguaggio, sulla forma della comunicazione, sui percorsi materiali da seguire per riaccendere il contatto, per mappare il disagio, la speranza, la ricerca, l’esigenza di lottare/resistere/contrattaccare/contestare/rifiutare. Ovvero: individuare strumenti adeguati.

Incontrarsi in un luogo reale per parlarsi è dunque, già di per sé, importante e intendiamo proseguire in questo percorso, il cui fine è quello di provare a costruire una lettura condivisa dei problemi che il presente deve affrontare. Rompere il silenzio generato dall’imposizione della paura. Vincere finalmente la rassegnazione.

In un primo intervento è emersa la sollecitazione ad uscire dalla miseria del quotidiano in cui cerca di chiuderci il potere dominante; non è ovviamente la vita del singolo soggetto ad essere “misera” ma il processo di espropriazione con lo scopo di costruire una sintesi rinnovatrice. E qui si è aperta la discussione che ha posto la guerra al centro di gran parte degli intervenuti.

Siamo a poco più dal 7 ottobre, l’evento che ha creato le condizioni perché Israele potesse accelerare la conquista della Palestina, allargando il conflitto al Libano e all’intero Medio Oriente, tra espropriazioni di terre e politiche di apartheid e di morte per realizzare la Grande Israele. Siamo anche a due anni e mezzo dall’invasione dell’esercito russo in Ucraina per conquistare le regioni del Donbass, dopo l’annessione della Crimea nel 2014 e il fallimento del protocollo di Minsk. La guerra dilaga, si estende, si ferma, viene quasi invocata mettendo a tacere ogni voce che tenti di riportare la ragione o di sostenere, magari timidamente, la tregua. Pochi giorni dopo abbiamo letto degli attacchi alle caserme dell’ONU con reazioni poco più che accennate nella vecchia Europa e un tacito sostegno USA nel timore di perdere qualche voto alle vicine elezioni. Anche a Taiwan soffiano venti di guerra.

Guerre che si aggiungono a guerre e oggi rischiano di avere proporzioni globali, evocando scenari catastrofici. Non saremo più come prima, si disse erroneamente durante il Covid. In effetti ci pare che tutto sia peggiorato, come qualcuno, tra noi, temeva.

Per di più, l’Italia è alle prese con uno dei governi più retrivi e reazionari della storia repubblicana, tra politiche razziste, securitarie e liberticide, cancellazione del welfare e asservimento ai poteri forti dell’apparato militare, industriale, algoritmico. In luogo di ridurre la forbice fra ricchi e poveri le nuove leggi aumentano il divario, puniscono i miserabili, liberano i potenti da ogni processo.

Vite sempre più povere e ricattabili rendono difficile l’esercizio del conflitto e del dissenso. Una bolla cognitiva e mediatica nasconde la realtà delle condizioni materiali e favoleggia di primati economici inesistenti, mentre le forze di opposizioni (la cosiddetta “sinistra”) sono complici di scelte economiche e sociali che, già da anni, hanno favorito la situazione di precarietà e di smantellamento della sicurezza sociale, con un allontanamento di ogni consenso popolare e sempre più anche delle classi medie. Diventa difficile capire che cosa sia oggi una sinistra e perfino se esista ancora. I Verdi tedeschi e il PD italiano sono fra i più scatenati (con poche eccezioni interne) nel chiedere guerra e pure sacrifici.

Sulla base di queste premesse, gli interventi della giornata di sabato hanno sottolineato la necessità di creare uno spazio di discussione e di comunicazione che riempia un vuoto di pensiero e proposizione che finisce per vincolare le nostre vite. Sia chiaro: non partiamo da zero da un punto di vista teorico e politico così come non mancano momenti di insorgenza e di autorganizzazione che continuano a ispirarci. Ma non è possibile negare che il momento sia grave e cupo, dunque si sente l’urgenza di riaggiornare gli strumenti che abbiamo a disposizione.  Il problema degli strumenti è politico, di sostanza e non solo di forma.

In ordine sparso, abbiamo ragionato di comunicazione sociale, ovvero di come recuperare una pratica di comunicazione e di networking in grado di mettere in connessione le diverse realtà che capaci di sviluppare momenti di resistenza e di conflitto. Il piano territoriale è sicuramente un ambito fondamentale per sviluppare e estendere le lotte per il “diritto all’abitare” nella “Milano da sogno” di Sala: una città che vive di continui eventi per una piccola élite, che espelle la popolazione in ghetti della periferia, che amplia l’area di speculazione e gentrification oramai all’intero teritorio comunale. Disuguaglianze economiche, impossibilità per le giovani generazioni di viverci, opportunità solo per chi dispone di redditi elevati. Di fatto Milano sta sperimentando una sorta di apartheid economico: un esperimento che potrebbe fare scuola per favorire una sorta di “divisione in classi” del territorio. Sul tema, sono presenti in città dei comitati che cercano di opporsi. È stato citato il progetto di gentrification del quartiere intorno a Viale Certosa e a Viale Espinasse. E pure degli interventi sull’area destinata all’evento olimpionico invernale ormai prossimo all’arrivo.

Ci siamo interrogati su quale forma dare a questa mappatura, a questa inchiesta collettiva, ai contributi che arriveranno, che verranno scritti, a quelli che raccoglieremo negli incontri che dedicheremo al progetto: c’è il grande problema di chi detiene le forme della comunicazione, mentre il precariato vive dentro la guerra che rappresenta anche il motore di una gigantesca circolazione di manodopera. Questo meccanismo può generare anche spaccature all’interno della classe precaria e questo rappresenta un ulteriore problema.

Si è insistito sulle urgenze esistenziali, su un vuoto umano e affettivo che si interpone alla creazione di nuovi cicli di lotte, mentre la vita si appiattisce sulle modalità più grezze e triviali e una parte dei bisogni diversi dell’umanità, con il loro differente, variegato, immaginario, non viene intercettato. Accanto a chi lotta per la sopravvivenza, il nostro mondo, l’Occidente, sta andando a picco. Tutti colgono un dato: il potere stesso non si rende conto, o sembra non rendersi conto, di questo declino dell’occidente, e al declino oppone arroganza, dunque e ancora una volta, solo guerra.

Si è sottolineato che è necessario evitare di “parlare per altri” o, peggio, “di altri”: qualsiasi analisi sulle condizioni date deve essere diretta e sincera non pretendere di “mediare” le parole altrui. Si tratta di parlare di noi stessi in una città costruita per qualcuno che non siamo noi, di una realtà urbana che ci mette di fronte alla miseria del vivere e a forme di depressione collettiva. La narrazione deve coinvolgere, bisogna dunque, si è detto, “parlare con altri”, riunificare, abbattere la separazione. Rimettere in discussione le narrazioni del potere che vuole, per esempio, che i giovani siano sempre contenti di andarsene e viaggiare, di essere per forza nomadi, mentre esiste una felicità del mettere radici che viene negata. La mappatura che dobbiamo costruire dovrebbe rivelare questi meccanismi e affermare, tra le altre cose, che la bellezza di una città sta nei legami che nel tempo ci rimangono, non nella sua gentrificazione neoliberista. Rivendichiamo non l’identità nazionale del passato, ma il meticciato del presente.

Qualcuno ha anche aggiunto che forse è il caso di chiudere con la grande epopea degli anni Settanta e da lì con la pretesa di spiegare come funziona il mondo. Esiste certamente l’inadeguatezza dello stare in questo tempo e vale anche per chi non sperimenta direttamente la precarietà e potrebbe dirsi parte di una “aristocrazia operaia”. Tuttavia difficile è il rapporto con le nuove generazioni e va ammesso che non c’è tensione verso la realtà militante perché questa non sembra dare strumenti adeguati a rispondere alle contraddizioni del presente.

Eppure, non sono mancate le voci di chi ancora si impegna nelle lotte, per esempio degli operatori sociali o contro i nuovi “modelli” urbani che scompongono le vite. Così si è ricordato il “fare comunità” della Valle di Susa (da poco è mancato Alberto Perino, storico leader): “Abbiamo spento la televisione e siamo andati al presidio”. Dunque è importante continuare a impegnarsi nei movimenti e a costruire momenti conviviali cosicché non tutto venga strappato.

Un’altra parola chiave emersa è stata “solidarietà”. E anche ricerca di nuove forme di “sobrietà” e nuove forme di “valore”, oltre il consumo, oltre il mercato, oltre la misura del denaro che è l’unica conosciuta dalla società capitalista. Certamente la solidarietà si contrappone alla guerra, dunque è un elemento dell’antitesi rispetto all’esistenza messa a valore che contraddistingue la condizione precaria quale elemento negativo.

Non è mancato anche un racconto diretto dalla Palestina, poiché un compagno è stato recentemente in Cisgiordania e ci ha riportato l’immagine di una comunità resistente, nonostante tutto. La Palestina rappresenta la massima espressione delle contraddizioni contemporanee. È la versione più distopica di ciò che noi viviamo da questa parte della linea, in Occidente. Il colonialismo di insediamento che lì viene praticato, l’utilizzo sempre più sofisticato dell’intelligenza artificiale a fini bellici, la costruzione di muri, ci parlano di un lungo processo di addomesticamento all’orrore e all’impotenza. Massima espressione della crisi psicotica del potere e massima espressione del capitalismo della sorveglianza. Anche questo è parte dello scenario che va ricostruito all’interno della mappatura. Possiamo chiederci come mai, proprio in Palestina, nonostante le stragi, i demografi registrano più nascite che morti, a differenza dell’Italia in cui le morti superano le nascite; è una contraddizione dei tempi moderni, la passione più forte della paura.

Così come dovremo domandarci qual è la soggettività sulla quale stiamo indagando, quali i sui profili? E da lì costruire piste di ricerca comuni. Cercare anche di capire quanto noi siamo condizionati nei nostri percorsi: cosicché si dovrebbe avere la capacità di disambiguare il 7 ottobre e le azioni di Hamas. Andare alla sostanza dunque, comprendere che cosa significa qui e ora la guerra, l’effetto e la conseguenza del macello in atto.

Inutile dire che questi quadri sono solo una piccola parte di sensibilità, vissuti, storie molto sfaccettate. Perplessità hanno generato, in alcune partecipanti, certe visioni troppo fosche e così si è inserita nel dibattito la voce di chi vede, per esempio, una Milano diversa, con negozi e mercati popolari dove i prezzi sono abbordabili, una Milano poco conosciuta ma che respira e si allarga attraverso il passaparola. E chi ha sottolineato la possibile dirompenza di un progetto di mense popolari dove mangiare a poco prezzo ma dove soprattutto stare insieme. Esiste già, insomma, l’abbozzo di un underground che forse rappresenta uno degli appigli di cui siamo in cerca.

Se l’impotenza ci fa stare male, impariamo a rispettare l’Altro e le altre forme di vita, cerchiamo di condannare ogni forma di suprematismo e di alterigia bianca e di acquisire anticorpi e insegnamenti che possono venire dal movimento delle donne: la donna da sempre nomade ha uno sguardo differente. Anche questo aspetto è stato aggiunto al dibattito. Forse la “rivoluzione” non è sufficiente. Forse dovemmo liberarci di una certa idea di potere e del suo concetto di umanità, forse guardare al negativo della natura umana così come è stata costruita dal capitalismo patriarcale.

Insomma, va sviscerato, indagato, denunciato, ricostruito nei suoi vari aspetti un modello socio-economico che mostra oggi il suo volto peggiore con la guerra e la crisi permanente. Le donne hanno compreso quale tipo di contraddizione questo implicasse per le vite. Le vite non valgono solo da un punto di vista capitalistico. Oggi tanto più che la vita è messa al lavoro e la riproduzione sociale è il fulcro dell’accumulazione contemporanea con tutto quello che questo elemento fondamentale implica: non c’è cura per le esistenze poiché esse vengono tritate dentro le maglie di sistemi di produzione (piattaforme/guerra/sistemi di welfare privatizzato) che succhiano e sparano, integrano o espellono.

Qui l’incontro termina. Come vedete, non c’è conclusione. Né potrebbe esserci. SI tratta di proseguire, di approfondire, di incontrarci ancora. Chiunque voglia dare un contributo alla nostra “ricerca”, può cominciare a scriverci a: effimera2020@gmail.com.

A presto, per un nuovo appuntamento!

 

Immagine in apertura: Silvia Camporesi, Spiaggia libera, Cesenatico, 2020, I Courtesy Fondazione Palazzo Magnani 

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