Alcuni frammenti controcorrente del sociologo della conricerca -Romano Alquati-
[...] L'Industria forse è nata nelle piantagioni o in certi segmenti della circolazione, poi però, storicamente, lo sviluppo più massiccio e vistoso del «Modo industriale» è stato realizzato nel Secondario, in passato considerato, appunto, «industriale» per antonomasia. Nella fase Classica dell'epoca capitalistica l'industrializzazione e il «Modo industriale» sono rimasti abbastanza a lungo limitati alla «fabbrica», sia nel significato peculiare di luogo funzionale della produzione «specifica» del Capitale che do a questa parola chiave in questo modello,[1] sia in quello del senso comune. Per quanto concerne la Forma di tale «Modo», il settore strategico era il metalmeccanico, per varie ragioni; fra le quali l'ancora alta intensità di lavoro nell'elevata complessità dei suoi beni, intermedi e finali, che hanno cambiato le condizioni di lavoro di tutti gli altri settori e la vita di tutti e in cui erano concentrate, articolate e combinate masse enormi di operai e lavoratori di diverso profilo, provenienza e capacità, socializzati nella cooperazione, nel conflitto e nella lotta. Qui in periodi diversi e successivi si è mossa l'avanguardia storica della lotta di classe operaia, in modi anche molto politicizzati. [In precedenza ndr] Ho schematicamente considerato la razionalizzazione e organizzazione scientifica della fabbricazione di massa nelle aziende metalmeccaniche, e il rapporto fra scienza, tecnologia e macchinario nella meccanizzazione spinta ad alti livelli di automatismo, come condizione lavorativa e base di lotta («per se stessi», come era corretto dire...) per milioni di lavoratori in situazione proletaria. É stato comunque nel Centro di ieri, nella fabbricazione di beni tangibili, che, dispiegandosi e affinandosi, si è palesato agli occhi o nell'esperienza dei più il «Modo industriale»; e da lì ieri è stata lanciata la stagione classica delle lotte di classe. Adesso le cose cambiano abbastanza, e in vari sensi. [...] la neo-fabbrichizzazione oggi si è estesa molto, in tutti i settori, anche in quelli di produzione di servizi, di merci intangibili, psichiche e intellettuali, divorandosi una parte del suo vecchio contesto e incorporandosela, e riducendo il mondo esterno ... [...] La fabbrichizzazione è stata spesso anticipata dall'(iper)Industrializzazione di molte attività, e una volta fabbrichizzate e quindi diventate luoghi di produzione di Sovrappiù, [dunque ndr] imprese, molte aziende sono state industrializzate e iper-industrializzate, diventando «Fabbriche effettive»[2].
Ciò è avvenuto anche grazie alla crescita di domanda, alla standardizzazione di prodotti vecchi e nuovi, a nuove tecnologie, all’informatica, al rivoluzionamento delle comunicazioni che ha superato la spazialità, a nuove risorse dell'organizzazione scientifica, allo sviluppo della conoscenza scientifica applicabile, eccetera; e poi anche a cambiamenti nella cultura, nel costume, nella concezione e nelle condizioni della vita, nel reddito, ecc.; cambiamenti spinti e acquisiti anche dalle precedenti lotte della classe operaia e dai movimenti sociali che le avevano affiancate e seguite. La Neo-fabbrica, intesa sempre come luogo funzionale della Produzione di Capitale, si è diffusa nel Terziario (e Quaternario), in quanto contenitore dell'Azienda, di processi attivi utili, particolarmente significativi, ed è diventata sede di lavoro prevalentemente psichico e intellettuale (anche per la standardizzazione che le alte scale hanno consentito ovunque). Uscendo dal Secondario, la Meta-fabbrica si è portata appresso il «Modo industriale» ulteriormente affinato e dispiegato, nella sua nuova maniera che chiamo «iper-industriale», secondo le caratteristiche tecnologiche e tecniche di settori che fabbricano prevalentemente beni intangibili come merci, analogamente al grande comparto Terziario.
[...] come sappiamo, questo «Modo» di lavoro e di attività è uscito e straripato oltre la produzione specifica del Capitale, separandosi ormai dalla stessa impresa, trasformando e industrializzando il contesto di quest'ultima, invadendo anche il sistema Esterno[3], sussumendo quindi attività di produttività molto indiretta, attività riproduttive, improduttive e financo distruttive; e in esse si richiede risparmio di capitale, di lavoro e di attività prima ancora della loro sussunzione diretta al Capitale stesso. Però, al contempo, intrecciato con questi cambiamenti e oltre essi, il mutamento soggettivo, di costume e di maniera di vivere (ben oltre il consumismo precedente) ha dislocato la conflittualità, uscita a sua volta dagli stabilimenti.
Iper-industriale. Dunque, questo affinarsi e dispiegarsi del Modo industriale uscito dalla produzione dei manufatti che pure si estende molto a sua volta, andando oltre la fabbricazione dei beni tangibili, mi induce a respingere la denominazione «post-industriale» che molti oggi danno al lavoro, alla società e al periodo attuale, e mi suggerisce piuttosto di chiamare «Iper-industriale» questa che considero una nuova fase e una nuova determinazione del «Modo industriale» stesso. Dirò che l'iper-industriale è un sub-modo, e così qualche volta lo chiamerò. Non è (infatti ndr) solo questione di nomi. Nell'Iper-industriale si accentuano, si approfondiscono, divengono più evidenti, visibili, e talora anche vistose, e si diffondono ovunque, le caratteristiche del «Modo industriale» che già si erano venute manifestando nella fase precedente, Classica, che ho accennato dianzi (da qualcuno distinta nei tre periodi della manifattura, grande industria e grande impresa «fordista»), malgrado si siano verificate importanti novità nei suoi dintorni. Dunque assumo come Iper-industriale il «Modo industriale» di lavorare e di agire proprio della Fase neo-moderna dell'Epoca capitalistica. Nell'ipoteticità di tutto quanto ho detto finora, pongo quindi l’ipotesi che oggi noi non assistiamo all'avvento del «post-industriale» ma a un nuovo determinarsi dell'industriale. Quindi respingo l'affermazione sensazionalistica secondo la quale oggi il modo di lavorare e di agire è radicalmente cambiato rispetto a quello della fase industriale classica.
[...] La cosiddetta società postindustriale di cui ha parlato per primo Touraine, qualificandola fra l’altro come «società programmata», è un fenomeno macroscopico che parte però da molto lontano e non concerne tanto o solo il modo di lavorare, e comunque mi sembra consista proprio nell'estensione a tutte o quasi le Attività del sistema, nostro odierno, del «Modo di lavoro industriale». Come respingo le definizioni settoriali di Industriale altrettanto respingo le definizioni settoriali di post, neo e iper industriale, innanzitutto la definizione derivata da Daniel Bell del «post-industriale» come settore in cui prevalgono i Servizi; scarto quest'ultima proprio per la ovvia ragione che i Servizi e il Terziario si espandono (Iper)industrializzandosi! L'industria come «Modo» cresce e si affina proprio con e nella crescita del Terziario e dei Servizi. Quella del post-industriale è un'ideologia, e come tale è importante. Altrettanto si può dire del «post-moderno»: infatti affermando che la Fase attuale continua e affina quella moderna «classica» non dico che allora il «Post-moderno» non esiste; bensì che è la cultura esplicita della Neomodernità già in embrione nella Modernità classica; e il «post-modernismo» è un'ideologia importante. [...] Pertanto è sociologicamente assai reale e significativo. Altrettanto, ma diversamente, è significativa l'ideologia post-industrialista.
[testo tratto da Dispense di Sociologia Industriale, Volume III, Tomo 2, Il Segnalibro, Torino, 1989, pagg. 9-12]
[Definisco ndr] «Industria» una maniera organizzativa trasversale del lavorare in reti, pure telematiche, sia distribuite sia a forma di piramidi di comando centrale, di rapporti psichici e neo-artigianali, in cui questo lavoro cooperante è pre-scomposto e ridistribuito mediante un piano informatizzato (e digitalizzato, ecc.) che lo pre-reintegra segnicamente secondo una razionalità scientifica flessibile e rivolta al risparmio di capacità-umana-vivente, tempo e capitale, e tesa all’innovazione risparmiatrice. Quindi procede [...] per alte scale di standardizzazione, in maniera pianificata e programmata in continua rettifica (mediante controllo in tempo reale), e sboccante nello sviluppo qualitativo del macchinario intangibile, verso nuovi e più potenti sistemi uomo-macchina.
[...] Non c’è ancora all’inizio del nuovo millennio il post-industriale. Non siamo ancora giunti a dopo l’industria! Bensì, al contrario, ho già ripetuto che ritengo che nell'attuale fase adesso appena iniziata della civiltà-capitalistica si abbia «solo» un affinamento dell'industrialità stessa (che si mischia con certo neo-artigianesco): nel solco e nella traiettoria dell’industrialità classica. [...] L’idea di post-industrialità, che respingo, mi pare che oggi più che dalle nuove tecnologie e dall’impercepibilità, che pure contano molto, potrebbe essere originata e amplificata per chi ce l’ha, in base a certi settori, ad esempio da fenomeni (da approfondire) come l’importante inatteso ritorno d’artigianesco all’interno dell’iper-industrialità stessa, e così pure il ritorno non meno inaspettato, e paradossale se non scandaloso, d’altre modalità ritenute a torto proto-capitalistiche di agire-lavorare, che si sposano bene con le tecnologie odierne anche più nuove e avanzate (il lavoro formalmente autonomo, innanzi tutto, e la servitù, la schiavitù ecc.), e poi dalle reti telematiche e dalla digitalità degli algoritmi che rappresentano i processi. Ma anche da certe nuove tecnologie, delle quali le più importanti sono le biotecnologie (e le nano-tecnologie). E soprattutto dal primato dei servizi e dell’intangibile. [...] La mia ipotesi è che la caratteristica più vistosa dell'agire-umano iperindustriale sia la sua «psichicità»; ossia che questo sia diventato tanto astratto e mentale da avere perso la gran parte della sua ieri prevalente «muscolarità»; e da impegnare sempre più quasi solo la sfera affettivo/emotiva e quella cognitiva/intellettuale del lavorante. Inoltre, poiché associata a ciò, la caratteristica di sviluppare le attività invisibili, impercepibili. E quindi poi pure le biotecnologie e le nanotecnologie che hanno a che fare ancora con la tangibilità: una tangibilità pure cellulare, molecolare, atomica e subatomica: infinitesimale. Ma sempre restando nel solco dell'industrialità prima definita e affinandola.
Mentre la maniera più tipica dell’industrialità classica è stata il cosiddetto «taylorismo classico», quella più tipica dell’iper-industrialità è forse finora, e siamo solo ai suoi inizi, il cosiddetto «toyotismo», o meglio il «taylorismo-toyotista». Nel quale appunto il taylorismo come paradigma, che (ripeto, ha il suo clou nell’applicazione della scienza all’organizzazione dell’agire/lavorare) si rinnova nella sub-maniera toyotista d’agire/lavorare e nella one best way scientifica, come si stanno riproponendo oggi. Questo ricorrere indica proprio il nucleo essenziale e definitorio di questa «maniera» che si scompone, in una pluralità di sub-sub-maniere incluse, interne. La «sub-maniera toyotista» ipotizzo che si basi su una riorganizzazione, la quale fra l’altro rilancia la comunicazione (e telecomunicazione) nella cooperazione (in équipe e in tele-équipe). E si attua in un certo ri-allargamento delle mansioni che fa un poco appello ad una certa creatività, e quindi ridà un poco di discrezionalità, di complessità e autocontrollo all’attore/lavoratore-umano. Così, alzando la qualità dell’agire/lavorare, rivalorizza la formazione. La quale ridiventa pure un pochino endogena, però nella permanenza del prevalere di quella classica ed esogena-scientifica, in cui ci sono momenti importanti di pluri-standardizzazione (le quali intercombinate preparano l’avvento di un nuovo macchinario flessibile). Onde in sintesi nei suoi contenuti l’iper-industriale, come ho già ripetuto, si qualifica come il più volte suddetto ritorno di momenti artigianeschi, ma dentro un alto livello di mezzificazione e automatismo del macchinario sviluppatissimo (mediante scienza) e di mercificazione della capacità riallargata e così almeno un poco de-impoverita: sulla base di un’ulteriore scientifizzazione (a sua volta più flessibile e neo-paradigmica) soprattutto dell’organizzazione dell’agire. Dove però l’attore/lavoratore-umano (un poco più capace, almeno all’inizio, sia singolarmente sia collettivamente) rimane quanto mai subalterno ai mezzi, alla tecnologia scientifica, e anche al macchinario (scientifico per sua natura), magari più «amichevole» in specie nell’interfaccia, eppure ancora ostile, quand’anche nell’ambivalenza[4]. Nel cui sviluppo e moltiplicazione tutto sempre più sbocca. Il che, come ho già detto, implica sì anche il superamento di certi momenti del fordismo, ma al contempo un incremento di certi altri. Quindi affermo che siamo sempre nel solco del taylorismo come maniera più tipica dell’industrialità dell’agire-lavorizzato-umano e peculiare forma dell’organizzazione scientifica: taylorismo-toyotista, organizzazione scientifica toyotista del lavorare e del cooperare.
[...] In queste brevi note è già affiorata più volte la prima grande questione sulla quale sempre io m’interrogo pure qui: c’è ambivalenza nell’industria? (e nell’iper-industria?). Ho appena risposto ipoteticamente di sì. Ho detto prima che la mia ipotesi è che, magari con alcune correzioni, almeno ai livelli di realtà bassi, questa maniera potrebbe forse ricollegarsi, ricondursi, anche a fini diversi dai meta-fini del capitalismo che finora essa ha prevalentemente servito, pure secondo altri modelli, non solo di sviluppo… (perfino) contraddicendoli. E ho affermato che le condizioni perché questo avvenga siano piuttosto soggettive. Bisogna dunque guardare parecchio ai fini: industrialità e fini. Certo fino ad oggi l’iper-industrialità è stata notevolmente funzionale agli scopi capitalistici, la maniera industriale s’è sviluppata benissimo nella «fabbrica di capitale» e nel «modo capitalistico», e viceversa. Si è raramente verificata finora l’ipotesi di alcuni che la tecnologia e con questa l’industrialità in fondo siano in contrasto col capitalismo, e che il capitalista collettivo abbia preferito soluzioni in contrasto col progresso tecnico e tecnicamente regressive; anche se talvolta in condizioni d’emergenza «politica», più che economica, l’ha fatto[5]. Così crescendo dentro la fabbrica l’industrialità come noi la conosciamo ed esperiamo (pur sviluppandosi rapidamente ed evolvendo) ha subito o accettato [...] una curvatura su questi fini capitalistici che ci fa apparire molto arduo il suo raddrizzamento, per curvarla su dei fini diversi. Eppure ipotizzo non solo questo sia tuttora possibile, ma quando certi grandi e significativi movimenti di lotta sul terreno dell’industrialità ci sono stati, ai livelli bassi e poi finanche medio bassi[6], cambiamenti sottostanti significativi nell’industrialità, al suo interno, ci sono stati; e alcuni tengono tuttora. Ed io ipotizzo che potenzialità di ciò esistano ancora. Però nego subito che si tratti di rovesciare la composizione tecnica in composizione politica, la professionalità più o meno esecutiva in consapevolezza o anche coscienza politica, come fanno ad esempio i molto tardivi scopritori del General Intellect … Le condizioni di questo ipotizzo siano soprattutto soggettive. Ma c’è uno spazio qui pel «vero» riformismo. Sebbene esso raramente si sia avventurato da queste parti e oggi, se esso esiste, ancora non si fa certo vedere qui intorno: a modificare nella sua qualità, spesso negativa per noi, una maniera d’attività-lavorativa che, con la sua ambivalenza almeno potenziale, va proprio dappertutto! [...] L’industrialità finora dando soprattutto potenza al lavoro trasversale e alla capacità dei lavoranti non si è curata tanto della ricchezza della capacità umana, ma anzi l’ha piuttosto ridotta; così ha molto contribuito a che il saldo di lungo periodo nella qualità della nostra capacità e forza-attiva dal «nostro» punto di vista sia relativamente negativo. Si tratta però di capire meglio cosa significa questo «nostro»[7]; e come valutano l’andamento gli iper-proletari. Nondimeno ipotizzo: abbiamo potenziamento nell’impoverimento: nell’ipotesi ulteriore che il primo giovi più al padrone collettivo, e combattere il secondo serva più a noi. Questo per me è uno dei criteri decisivi di valutazione; ed è evidente che in questo nodo c’è moltissimo da approfondire.
[Nella società industriale d’oggi, Torino, 2000]
Note
[1] (ndr) «La Fabbrica», nel modello di Alquati, è concettualizza come «luogo funzionale» della valorizzazione (è un’astrazione, non lo stabilimento manifatturiero). Più precisamente, «intendo la Fabbrica come il rapporto sociale in cui si produce il “sovrappiù specifico” (ossia, capitalistico ndr) e il luogo funzionale di tale rapporto [...] Fabbrica è sempre, in questo testo, il rapporto sociale di Produzione del Sovrappiù specifico che incrementa il Capitale».
[2] (ndr) L’espressione «fabbrichizzazione effettiva» combina il concetto appena esposto di fabbrica con quello di «sussunzione effettiva», prossimo alla categoria marxiana di sussunzione reale, laddove viceversa Alquati utilizza il concetto di «sussunzione sostanziale» per denominare un processo prossimo alla sussunzione formale di Marx. Ai nostri fini, è rilevante soprattutto il rapporto tra fabbrichizzazione (e sussunzione) effettiva e industrializzazione, poiché nella proposta di Alquati il secondo termine costituisce la specifica maniera organizzativa con cui la macro-parte capitalistica ha storicamente operato ai fini di dare la «sua forma» alla produzione, dunque l’organizzazione peculiare con cui si è realizzata la «fabbrichizzazione» che, logicamente precede e gerarchicamente si pone ad un livello superiore all’industrializzazione, determinandone l’evoluzione.
[3] (ndr) Numerose espressioni rinviano ai concetti che danno forma al Modello di società complessiva proposto da Alquati nelle dispense da cui sono estratte queste citazioni. Per quanto una certa consuetudine con le categorie da egli utilizzate sia necessaria per la piena comprensione dei suoi argomenti, la loro ricostruzione richiederebbe uno spazio eccedente le finalità di questo contributo. Basti qui considerare, banalizzando non poco, che la società capitalistica per Alquati è organizzata in livelli gerarchicamente ordinati. Al vertice è la dimensione del dominio, sovrastante il livello meta, articolato in due strati, la valorizzazione e l’accumulazione, che è anche il livello specifico del capitalismo (il dominio nel capitalismo si fonda infatti sull’accumulazione di capitale). Sotto questi, il livello intermedio delle attività utili e differenti, di cerniera tra l’azione sociale «micro» e i processi più astratti e sovrastanti. Il livello intermedio è costituito da ambiti (sottosistemi) differenti, in cui Alquati distingue un sottosistema «Interno», ossia la sfera produttiva di merci – tangibili o immateriali che esse siano – per il consumo, dai sottosistemi «Esterni» i) della riproduzione o consumo riproduttivo, ii) del consumo distruttivo, iii) della politica. Quando di seguito si parla di attività distruttiva si riferisce dunque ai consumi non riproduttivi (non legati cioè alla riproduzione di capacità umana, come ad esempio la formazione); per velocità, è utile impiegare rispettivamente le espressioni di attività riproduttive e di consumo.
[4] (nda) Questo paradosso di mezzi ed in specie di macchinario (come d’altronde di capacità-umana) ostile e nondimeno ancora ambivalente è una delle questioni più importanti da approfondire, sciogliendo il nodo in una direzione almeno un poco determinata, fluidamente, dinamicamente, apertamente e molteplicemente progettata. Ipotizzo che gli attori quali tendenziale capitale-umano, la capacità-umana-merce, sono per lui solo vincolo a questo fine di sviluppo ed accumulazione del capitale-mezzi ed in specie del macchinario ed è riprodotta e trasformata solo perché ed in quanto è indispensabile a conseguire questo scopo capitalistico. Il capitale-umano stesso è pel sistema nei suoi livelli bassi un vincolo innanzitutto allo sviluppo ed accumulazione di mezzi e macchinario come capitale. Ma il macchinario odierno, l’iper-macchinario!
[5] (nda) Il che ricorda il grande dogma dei marxisti ortodossi che recita che le forze produttive (intese in una loro data ma oscura maniera) sono in conflitto coi rapporti di produzione (intesi a loro volta in una maniera data e altrettanto oscura). Però non ci viene (quasi) mai detto chiaramente come li intendono loro.
[6] (ndr) Le espressioni rinviano sempre al richiamato modello gerarchicamente stratificato per «livelli di realtà»; i livelli bassi e medio-bassi, per velocità, coincidono con la dimensione dell’azione sociale, dunque con la sfera «micro» dei rapporti sociali e produttivi.
[7] (nda) Oltre alla problematicità della questione del «punto di vista».