martedì 22 novembre 2022

GIUSTIZIA E DEMOCRAZIA

 - Annibale C. Raineri -

   DALLA FORMA-DENARO ALLA GIUSTIZIA COME ECCEDENZA 

il saggio che pubblichiamo è stato presentato il 29 ottobre 2022 al “Festival delle filosofie” di Palermo nell’incontro dedicato a “Giustizia e democrazia”      


0. Questione

Cosa si presenta innanzi ai nostri occhi? A fronte dei principi di uguaglianza che regolano la vita delle democrazie, l’ingiustizia si mostra in tutta la forza di realtà dominante le relazioni sociali e la condizione degli individui. Giovanni si è soffermato su questo punto mostrandoci ciò che è necessario vedere. Ma anche limitatamente al tema della democrazia, cioè del potere del popolo, la situazione non è meno contraddittoria: a fronte dei principi che regolano la sovranità nell’ordine democratico, la disparità nella capacità di esercizio del potere è abissale. Lo stesso aumento dell’astensionismo, fenomeno comune a tutto l’occidente democratico, non è causa ma piuttosto effetto della percezione di impotenza dei singoli nel determinare i reali indirizzi del potere sovrano. Il fatto che l’astensionismo sia di gran lunga maggiore fra gli strati subalterni conferma questa interpretazione. E d’altra parte come non considerare, in tema di esercizio della sovranità attraverso il voto, quanto pesi nella formazione della opinione la distribuzione ineguale della istruzione (e quindi nella capacità di leggere adeguatamente i messaggi politici) o, ancor più, il controllo oligopolistico, pubblico e privato, dei mezzi di comunicazione e la forma di messaggio pubblicitario che ha assunto la comunicazione politica?

Ragionare intorno al tema del rapporto fra democrazia e giustizia significa interrogarsi su questa antinomia fra i principi che regolano la sovranità e l’esercizio della giustizia nelle società che si autodefiniscono democratiche e la condizione di ingiustizia in esse largamente maggioritaria. Significa chiedersi se questa divaricazione sia un mero accidente, superabile nel tempo, o se esso non attenga piuttosto alla struttura elementare della democrazia e della forma che in essa assume l’esercizio della giustizia. Naturalmente si tratta di questioni enormi sulla quale mi limiterò ad accennare ai punti che, soggettivamente, più mi premono. Dovremo chiederci: Cosa è democrazia? Cosa in essa è esercizio della giustizia? Quali le loro strutture elementari? Quale il fondamento reale di tali strutture e che rapporto con la ingiustizia reale? Ed infine: è pensabile un’altra direzione dell’esser giusto nell’esercizio della giustizia?

1. Democrazia

Democrazia è termine troppo ampio, ambiguo se non equivoco. In senso ampio ha designato ogni regime politico non autoritario o dispotico, ma oggi, cancellato l’universo simbolico novecentesco con le sue antinomie e problematizzazioni, esso sembra aver acquisito un significato univoco. È quello dettato dalla pressione che l’attuale guerra in Europa è tornata ad imporre: la democrazia (liberale, l’unica che abbia realtà effettuale) contrapposta alle diverse forme del dispotismo: autocrazia (Russia) comunismo (Cina), teocrazia (Iran). Sottolineo unica (democrazia), diverse (dispotismo).

1.a. Democrazia è sovranità del popolo nelle forme della legge, quindi non il popolo in quanto tale o come realtà sociologica o storica, ma popolo in quanto legalmente costituito. Popolo è l’insieme dei cittadini, quindi soggetto di esercizio della sovranità è il cittadino in quanto essere giuridico nelle condizioni formali di esercitare tale sovranità1.

Per associare al ragionamento una rappresentazione, proviamo a ricordare dove, in via primaria, esercitiamo il nostro potere sovrano. Il nucleo duro, il punto elementare (nel senso di principio, Aristotele), in cui si esercita in democrazia il potere sovrano, è l’atto elettorale. In che condizione ci troviamo nella cabina elettorale? Siamo non soltanto soli, ma isolati, nel segreto di un luogo dove nessuno può vederci, e quindi liberi di decidere con indipendenza di giudizio. Chiamo democratica quella società in cui l’esercizio della sovranità popolare avviene nelle condizioni di libertà (autonomia-indipendenza) ed uguaglianza dei cittadini nella forma della legge, ed in forza di legge, cioè garantite dall’esercizio della forza, dal dominio della forza (della legge), cioè ancora della violenza legittima. Sottolineo: in forma ed in forza.



1.b Che significa che il cittadino che esercita la sovranità è un soggetto libero ed uguale, secondo la natura universalistica della legge? Significa che si fa astrazione dalla concretezza del suo essere sessuato, con determinate fedi e credenze, con un corpo determinato (ad es. il colore della pelle), con una determinata collocazione socio-culturale (di classe, etnica), inserito in un determinato tessuto di relazioni. Vorrei essere chiaro intorno a questo punto, utilizzando semplificazioni da “Prima repubblica”: un cittadino nel voto, l’atto con cui esercita la sua sovranità, poteva essere influenzato dalla sua condizione sociale (un operaio di una grande fabbrica del nord avrebbe votato comunista), dal suo orientamento sessuale (un gay un tempo avrebbe votato Partito radicale), dalla fede religiosa (un cattolico Democrazia Cristiana). Ma queste collocazioni sociali, questi orientamenti sessuali, queste appartenenze religiose, nel condizionare l’opinione politica dell’elettore, rientravano nella sua dimensione privata, nel suo essere concreto, ma egli votava non in quanto operaio, gay, cattolico, ma in quanto cittadino. Egli era, nell’atto di votare, puramente e semplicemente cittadino, senz’altra determinazione. Cittadino in generale. È questo l’universalismo della forma democratica della sovranità2.

1.c La legittimità ad esercitare il potere sovrano, per delega dell’insieme astratto ed indifferenziato dei cittadini, è conseguente alla misurabilità del consenso conseguito. Tale misurabilità implica l’uniformità qualitativa del consenso espresso: una testa un voto, ma un voto vale quanto l’altro. Qualitativamente indifferenti, vanno contati: 1,1,1,1….

1.d Riassumendo. Democrazia è una forma sociale di esercizio del potere sovrano che implica/presuppone l’essere astratto del soggetto e l’essere misurabile della sua azione.

2. Giustizia

La democrazia si autorappresenta come il risultato di un processo storico volto alla eliminazione dell’arbitrio del Signore rispetto all’esercizio della sovranità. Analogamente anche per la giustizia sembra potersi delineare un percorso volto all’abolizione tendenziale dell’arbitrio di fronte all’ingiustizia, cioè dell’arbitrio nella risoluzione dei conflitti fra individui, fra gruppi, o in generale fra l’individuo (o un gruppo) e l’intera comunità. Eliminare l’arbitrio nella decisione di chi detiene legittimamente il potere di (ri)condurre tale relazione ad una condizione di “giustezza”, sembra possibile unicamente riconducendo l’esercizio della giustizia all’ambito del diritto. È questa l’operazione che fa la democrazia. Come è possibile l’eliminazione (tendenziale) dell’arbitrio? cioè come sono possibili giudizi oggettivi intorno all’esser giusto di qualcosa? Affinché ciò sia possibile è necessario (questo il paradigma democratico) che la giustizia abbia misura “oggettiva”, che ciò che è oggetto del giudizio di giustezza sia comparabile, quindi misurabile rispetto a parametri di equivalenza o di proporzionalità (es. nella giustizia penale: proporzionalità fra reato e pena). Il giudizio consisterà nel sussumere la singolarità dell’evento o della situazione fattuale dentro una codificazione universale (la fattispecie). Ciò presuppone che il soggetto che compie l’azione oggetto di giudizio, e specialmente il soggetto giudicante sia un soggetto astratto, privato della sua concretezza corporea-individuale e relazionale.

3. Forma-denaro

Da cosa deriva la forza di questo modello, tal che esso si presenti oggi come l’unico modello sociale da contrapporre all’arbitrio di un potere senza legge? Vi è nella realtà qualcosa che fa esistere realmente dei soggetti astratti, così da dar forza sociale all’astrazione giuridica del soggetto titolare della sovranità politica e del soggetto che, per superare la condizione sentita come ingiusta, reclama innanzi allo Stato la soddisfazione di un diritto sancito dalla norma universale?

Abbiamo visto l’isomorfismo tra l’esercizio democratico della sovranità e il diritto alla eliminazione della condizione di ingiustizia, individuando tale isomorfismo 1) nell’esistenza reale, cioè socialmente efficace, di un soggetto astratto (ed in questo senso libero ed indipendente), che esercita la sua capacità di azione in modo che da tale esercizio risulti “oggettivamente”, cioè a posteriori, la volontà comune (sovranità) ed il bene comune (giustizia) secondo criteri universali, e conseguentemente 2) nella misurabilità delle azioni secondo parametri universalistici.

3.a Da dove proviene tale capacità di astrazione reale? Questa fonte l’abbiamo danti gli occhi ogni istante della nostra vita. Ogni volta che guardiamo una vetrina, accanto all’immagine della merce vi è apposto un numero, un valore meramente quantitativo: il prezzo, l’equivalente in denaro del valore. Nel mercato si confrontano merci comparabili in quanto si fa astrazione, nella unità di misura della equivalenza di valore, della loro determinatezza qualitativa, del loro esser differenti. Ma tale comparazione di cose è nient’altro che la forma sociale del rapporto fra soggetti che, in questa determinata forma sociale, esistono unicamente come soggetti astratti, eguali perché astratti, legati l’uno all’altro nella forma della libertà e dell’indipendenza (sottolineo: legati nella forma dell’indipendenza). Questa forma specifica di legame sociale li costituisce come individui, soggetti astratti, cioè – nella loro esistenza sociale – privati del loro essere differenti, corporei e relazionali. È la penetrazione della forma-valore, attraverso la figura del denaro, in tutti gli ambiti della vita a partire dalla conquista dei processi produttivi (capitalismo), che rende possibile e socialmente ovvia una cosa così strana come un “soggetto astratto”, un uomo incorporeo e a-relato, che rende naturale una astrazione reale, secondo la lingua di Marx e del neomarxismo3.

3.b Possiamo adesso comprendere come sia possibile, anzi necessario, il paradosso dal quale ha preso le mosse questo mio intervento: la coesistenza fra l’uguaglianza e la libertà dei soggetti nel duplice ordine della sovranità politica (democrazia) e del diritto alla giustizia da un lato, e le evidenti condizioni di diseguaglianza e ingiustizia così palesemente davanti agli occhi di ognuno di noi dall’altro.

Il lungo processo storico, carico di violenza, con cui la forma-denaro si è imposta come l’unica (tendenzialmente) forma della sintesi sociale, producendo come soggetto della sfera pubblica (tanto politica che economica) il soggetto astratto, ha ricacciato nell’ombra – e reso socialmente ininfluenti – le condizioni concrete di esistenza dei singoli esseri umani. Tali condizioni vengono espunte dallo scambio sociale sia rispetto all’esercizio della sovranità che rispetto alla pretesa di giustizia. La concretezza delle condizioni di ingiustizia diviene a tali fini (sovranità e giustizia) irrilevante. Ma essa, ovviamente, continua a segnare le vite degli esseri umani e la loro effettiva disparità di godimento del potere sociale. È questa la grande lezione di Marx: nelle nostre società l’uguaglianza è la forma della disuguaglianza, la libertà è la forma del dominio.

Mi preme sottolineare un altro aspetto di questa «uguaglianza come forma della disuguaglianza»: sotto l’apparenza di universo sociale in cui si svolge la concorrenza fra esseri liberi, in realtà la scena che sottostà a quella apparenza è la guerra. Guerra per l’acquisizione di quote del mercato, o la conquista di nuovi mercati. Non appena appare la crisi, la guerra diviene nuovamente evidente, ma essa è la vera dimensione dei rapporti fra gli uomini che sottostà all’apparenza della libertà. Le parole ci dicono molto, se le prendiamo sul serio: pensate quante volte si usa l’espressione «guerra dei mercati» per giustificare scelte politiche «di emergenza». Ma pensiamo anche a ciò che da ultimo accade in Ucraina, alla determinazione a vincere e non ad ottenere la pace, per comprendere come la guerra è non solo l’essenza degli imperi autocratici, ma anche delle civiltà democratiche, a partire dall’antica Atene, su cui la “guerra del Peloponneso” ha molto da dirci intorno alla sua verità4.

4. Un’altra giustizia

Possiamo immaginare un’altra idea della giustizia, al di fuori dello formalizzazione democratica e della uguaglianza dell’astratto individuo proprietario?

4.a Marx non amava dire nulla di positivo intorno alla sua immagine della società comunistica. Vi sono tuttavia due piccoli accenni, l’uno nei materiali dai quali Engels ricaverà il terzo libro de Il capitale, l’altro nella Critica al Programma di Gotha. Sono niente più che due frammenti, dai quali però, leggendoli sinotticamente (anche a rischio di forzarli, ma non credo), si possono ricavare elementi per un prospettiva di ricerca. In ambedue Marx fa riferimento ad una prima ed una seconda fase del comunismo. Sebbene sia stato già soppresso il dominio di una classe sull’altra, la prima fase del comunismo sarebbe ancora segnata dalla necessità, ed in essa la libertà potrebbe consistere unicamente nella razionalità strumentale (con linguaggio novecentesco) di calcolo per regolare il ricambio organico con la natura. Si tratta quindi di una razionalità vincolata alla necessità. A questa regolazione razionale delle necessità del lavoro corrisponde una distribuzione legata ad un sistema di equivalenza fra lavoro erogato e compenso ricevuto. Ma essendo le condizioni di ciascuno differenti come differenti sono gli esseri umani, il diritto derivante da una eguale misura «è un diritto diseguale…esso è perciò, per il suo contenuto, un diritto alla disuguaglianza, come ogni diritto». Attenzione all’espressione di Marx: ogni diritto è diritto alla disuguaglianza.

Solo successivamente, con un ulteriore sviluppo, «la società può scrivere sulle sue bandiere: ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni»5. Cosa significa questa frase? Significa che in un tal tipo (ipotetico) di società vige un’altra razionalità della giustizia, per la quale nello scambio fra il dare e l’avere – che regola i rapporti fra l’individuo e il gruppo – non vi è calcolo contabile ma, diremmo oggi, relazione simbolica. La giustizia esce così da ogni criterio astratto di misurabilità e apre al mondo della libertà (non più della necessità): «lo sviluppo delle capacità umane che è fine a se stesso, il vero regno della libertà». Non mi interessa in questa sede discutere la teoria marxiana delle fasi storiche, mi interessa notare come Marx evidenzi l’esistenza di due diverse razionalità di giustizia: l’una derivante dal vincolo della necessità e che implica l’uguaglianza e la commisurazione (l’uguale misura), l’altra che deriva dal un legame di libertà emancipatosi dalla misura perché assume la differenza e non l’uguaglianza come principio ispiratore6.

4.b Fra i tanti racconti che Luca mette in bocca a Gesù, che mi affascinano, ce n’è uno il cui inizio mi lascia perplesso, quello conosciuto come Parabola del figliol prodigo. Non mi piace per questa figura del padre che resta lì, fermo, non va a cercare il figlio che potrebbe star soffrendo. Lo immagino sulla porta di casa col suo sguardo giudicante ed immobile. Eppure l’epilogo di questo racconto ci dice qualcosa su ciò che stiamo interrogando. Il figlio, dopo aver sperperato con una vita dissoluta la parte di proprietà che gli spettava, torna dal padre appesantito dal senso di colpa per le scelte compiute.

«“Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. (…) Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno (…) (indignato disse), al padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”»7. Certo l’azione del padre è animata dal forte sentimento di compassione, ma in essa vediamo in azione un preciso senso di giustizia, una precisa razionalità di giustizia. Il senso di giustizia che muove il padre alla fine del racconto è legato alla relazione fra due esseri singolari e concreti e alla contingenza della separazione e della riconciliazione (sottolineo relazione singolare e contingenza) in opposizione al senso di giustizia rivendicata dal figlio maggiore, proprio di una dimensione astratta e misurabile. Attenzione, il figlio maggiore non è malvagio, egli semplicemente rivendica un diritto, il diritto alla sua giusta parte. L’una prospettiva di giustizia è ingiusta con i parametri dell’altra, e reciprocamente.

Il racconto di Luca ci offre un altro elemento: l’atto di giustizia del padre è la celebrazione di una festa. Una festa non è semplicemente la modalità di espressione della gioia per l’avvenuta riconciliazione, per la ricucitura della lacerazione. È un’azione corale. Essa esprime, nella forma della coralità gioiosa, la dimensione comunitaria necessaria alla realizzazione di questa forma di giustizia. La giustizia che qui è messa in opera non è un fatto privato, ma un evento comunitario, come comunitaria era la relazione lacerata che, con quell’atto di giustizia, viene ricucita.

Due giustizie, due razionalità, come in Marx, ma in Luca l’elemento comunitario presente in Marx si specifica come dimensione relazionale, singolare e contingente. Proprio il momento della festa8, che è interruzione del continuum dell’ordine sociale, ci fa comprendere come la logica della giustizia-senza-misura è una logica che sovverte l’ordine della giustizia-secondo-misura, l’ordine della giustizia delle equivalenze e del diritto su di essa fondato.

È questo ciò che impariamo dal pensiero della differenza sessuale. La critica femminista all’universalità astratta del soggetto, cioè all’universalizzazione neutra del soggetto maschile, non ci consegna infatti l’immagine dell’essere umano come individualità, ma piuttosto come essere in relazione, ancorché segnato nel suo essere singolare-corporeo dalla differenza sessuale. Questo spostamento non è (soltanto) un fatto teorico, è l’esperienza di una pratica in cui la libertà non è né una condizione futura da attendere né un diritto da rivendicare, ma la realtà in atto conseguente alla pratica della relazione fra donne che fonda l’autorità femminile. È l’esperienza di una “pratica politica”, nel linguaggio del femminismo della differenza, che può metterci sulla buona strada in riferimento alla questione della giustizia con la quale ci stiamo confrontando.

A questo punto del cammino che stiamo conducendo, mi sento di dire che non c’è giustizia se non in riferimento ad una esistenza singolare, ad un concreto tessuto di relazioni, alla contingenza dell’essere-in-comunità.


5.b Inverto la prospettiva marxiana9: l’altra giustizia, quella senza-misura, senza contabilità del dare/avere, non è primariamente un fine da raggiungere (es. l’ultima fase del comunismo), lo è anche, ma è anzitutto e primariamente il fondamento reale del nostro essere-in-comune. Solo grazie a questo esser-già può costituirsi come termine ad quem di un agire secondo giustizia. Trovo ispirazione per questa inversione nel cristianesimo («Il Regno è già qui», si tratta “solo” di saperlo vedere) e nel movimento delle donne, nella coscienza, da esso fatta emergere, che la vita umana ha continuato a fluire, nonostante tutto, e a realizzarsi come essere-in-comune, non grazie alla sintesi sociale del denaro-capitale ma grazie alle pratiche primariamente femminili di generazione e di cura che, invisibili nella scena pubblica, hanno trasmesso la capacità di legame, ripeto nonostante tutto.

6. Obbligo

Quale forma di coscienza può promuovere una tale inversione?

Fra il dicembre del ’42 e l’aprile del ’43 a Londra, Simone Weil è incaricata di esaminare i materiali provenienti dagli ambienti della resistenza francese, come lavoro “istruttorio” affinché le Commissioni Nazionali istituite da De Gaulle potessero gettare le basi della nuova Francia. Simone Weil non si limita ad elaborare tale materiale, ma, riflettendo su di esso, elabora una serie di scritti in cui indica ciò che secondo lei è necessario affinché tale opera possa realizzarsi. Si tratta dei testi conclusivi della sua lunga riflessione politica. Il punto centrale di tale riflessione è che occorra prendere le distanze dalla tradizione politica europea la quale, a partire dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, pone come principio assoluto il concetto di diritto. La nozione di diritto, nella nostra tradizione giuridica, scrive, è «legata a quella di spartizione, di scambio, di quantità. Essa ha qualcosa di commerciale. Evoca un tono di rivendicazione; e quando questo tono è adottato, vuol dire che la forza non è lontana, dietro di esso, per confermarlo, altrimenti è ridicolo».

In evidente opposizione alla rivoluzione francese, il testo fondamentale in questo gruppo di scritti è indicato dalla stessa Weil col titolo di Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano.

Non quindi i diritti dell’individuo astratto (il cittadino o la persona), ma i doveri nei confronti dell’essere umano, nella sua singolarità concreta. Questo il fondamento. L’inizio del Preludio pone da subito i termini della questione: «La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto, che le è relativa e subordinata. Un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui esso corrisponde; l’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa (…) Un uomo, che fosse solo nell’universo, non avrebbe nessun diritto, ma avrebbe degli obblighi».

Non contabilità dare/avere, ma obbligo incondizionato nei confronti dell’altro, ciascuno, che ci interpella con la sua semplice presenza, dovere nei confronti dell’altro che mi appella con la sua domanda di giustizia: «Perché mi fai questo?» «Perché mi accade questo?» A questo ci chiama Simone Weil.

7. Essere in debito

7.a L’atto iniziale di questa nuova coscienza è la consapevolezza di essere in debito. Essere-in-debito, perché non mi sono dato la vita da solo, perché non vi è maggior menzogna del soggetto moderno, il soggetto che si autofonda, si autocostituisce. Essere-in-debito perché non sono nato da solo, ma sono nato da una donna che mi ha donato la vita. Perché la vita ed il vivere sono l’effetto di un dono ripetuto nel tempo, finché la vita dura, affinché la vita duri.

Questa dimensione del dono gratuito che non attende il ritorno speculare, è quell’invisibile fondamento dell’esser-comune che da sempre ha fondato l’esser-in-comune degli umani, perché scaturisce dalla relazione asimmetrica della posizione materna, che struttura, nella sua asimmetria, il prendersi-cura

di; scaturigine del legame sociale: relazione con l’altro orientata alla trascendenza che è immanente al suo essere parlante. (Come vedete non sto parlando di Dio, ma di una struttura antropologica).

L’incommensurabilità dell’aver-avuto è la grazia, la gratuità del dare, un’altra realtà rispetto al sistema della logica di potenza, al dominio della forza (violenza) che si manifesta nella legge della macchina sociale e nella sua gravità (pesantezza); la libertà che si incarna nella gratuità del dono, fondamento, attraverso il sentimento di una gratitudine originaria, del legame sociale.

Solo la coscienza dell’essere in debito, e non la posizione del titolare di diritto, può aprire ad una prospettiva di giustizia incompatibile con il dominio della forma-denaro del capitale come medium della sintesi sociale, e della sua controfigura giuridico-statuale. Solo questa dimensione apre ad un’idea di giustizia come libertà incondizionata.

7.b Questo spostamento di prospettiva, proprio in quanto è connesso alla libertà del dono e alla tensione verso l’altro (trascendenza), implica l’allontanamento dalla sfera del dominio della forza, ovvero della violenza come fondamento dell’ordinamento sociale, strutturalmente implicato tanto nel principio di sovranità democratica quanto nella sussunzione della giustizia nel diritto (e di cui le guerre imperialistiche sono solo la manifestazione più esplicita, e ancora ricordo come il modo in cui l’Occidente si sta opponendo all’aggressione russa dell’’Ucraina, cercando non la pace, ma la vittoria, sia coerente con questo dato strutturale).

Questa diversa idea di giustizia si muove nella prospettiva di una progressiva azione pacificatrice che disarticola la struttura violenta delle società. Qualcosa comincia a penetrare perfino nell’ambito così lontano della giustizia penale e della esecuzione della pena. Sono i percorsi della giustizia riparativa o, come preferisco dire, della giustizia rigeneratrice. Non mi interessa entrare in questioni tecniche, sulle quali ho sempre una qualche riserva perché tentano l’impossibile di conciliare gli opposti del dominio della forza (diritto) e della libertà o obbligo verso l’altro. Mi interessa però fare riferimento alla possibilità di una giustizia che si generi nell’incontro e muova verso l’incontro. Rimando ad un libro straordinario, che mi ha colpito profondamente, perché esso mostra che il miracolo esiste, ma miracolo è ciò che più profondamente sta al centro del cuore degli uomini: Il libro dell’incontro, edito meritoriamente da Il saggiatore nel 2015, «racconta dell’incontro avvenuto, nell’arco di oltre sette anni, tra alcune vittime (e loro familiari) e alcuni responsabili della lotta armata che ha segnato l’Italia negli anni settanta e ottanta del secolo scorso. (…) Il nostro proposito era, ed è tuttora, quello di compiere un tragitto insieme, noi mediatori “nel mezzo”, tra persone che avevano subito un male terribile e chi quel male lo aveva causato, tutti uniti da qualcosa di tanto misterioso, e per molti versi inspiegabile, quanto forte, ineludibile, decisivo: la domanda, o la ricerca di giustizia. (…) Nessuna vetta è stata conquistata, nessun traguardo è stato tagliato. Ma il tragitto compiuto assieme da questo gruppo, nato in sostanza in modo spontaneo, ci ha da subito rapiti dai mondi che abitavamo, ci ha ri-direzionati, ci ha radicalmente trasformati. (…) questo cammino, come il lettore scoprirà, si è – letteralmente – “imposto”. (…) una piccola, grande, speranza divenuta per noi un fatto tangibile e concreto: è possibile, nonostante tutto, cercare assieme la giustizia, ed è cercandola assieme che, forse, la si può almeno un poco avvicinare»10.

Un’altra idea di giustizia, un altro fare giustizia, che trasforma non solo il “colpevole” ma anche la “vittima”.

8. Eccedenza.

Vorrei concludere spostando ulteriormente il piano del discorso: Cosa pensiamo quando diciamo: «Quegli è un uomo giusto»? quando ad un nome proprio apponiamo l’espressione «è un uomo giusto»? O meglio, cosa sentiamo? Proviamo a ripetere questa espressione rivolta ad un singolo, determinato, essere umano, a qualcuno di cui abbiamo conoscenza, e ascoltiamo, sentiamo cosa risuona in quel suono: «è un uomo giusto». Dico «risuona» con proprietà, perché nell’esser-giusto è implicata una tensione verso quell’armonia che dalla composizione di certi suoni ci penetra nell’anima.

Sentimento di armonia dell’esser-giusti, desiderio di armonia nel fare giustizia. Desiderio, potenza vitale di ogni essere umano, priva di oggetto, perché ciò cui tende non si trova in nessun oggetto concreto, ma lo trascende. Spinta verso ciò che trascende, ed insieme verso l’altro cui si rivolge e non può non rivolgersi, perché desiderio è sempre tensione verso l’altro che diviene parola comune.

Eccedenza è il buco del desiderio, l’essere assente che muove il soggetto, il Bene (non la sua idea!) al di là di ogni oggetto. Buco nel simbolico, l’Altro del dicibile che muove ogni dire. Ecco perché il Bene come causa dell’obbligo in Simone Weil è libertà e non colpa, come invece lo è nel cattolicesimo e nell’ebraismo.

In questa diversa dimensione dell’esser-giusto c’è qualcosa che eccede qualsiasi ordine sociale, che eccede il codice dello scambio intorno a ciò che mi spetta per diritto ed in esso trova misura e proporzione. Noi sentiamo che c’è più giustizia in quel «Portate qui il vestito più bello … prendente il vitello grasso… mangiamo e facciamo festa... » che non nel calcolo di quanto spetti all’uno e all’altro, perché sentiamo che in quella frase qualcosa dell’esser-giusto di un uomo si è manifestata, e che ciò sarebbe stato impossibile se essa in anticipo fosse stata sottoposta al giudizio di parità dei diritti comunque codificati.

Questo esser-giusto non ha propriamente misura, non ha proporzione. Esso non procede da un codice sociale e per ciò non può divenire attuale grazie all’esercizio della forza legittima, perché, pur manifestandosi attraverso lo scambio (simbolico), attiene ad un piano dell’essere che lo precede e lo eccede ad un tempo. È quel venire da dentro che si manifesta in una parola o in una azione senza mai saturarsi in esse, ma senza le quali (parola ed azione) non avrebbe realtà, effettualità (Wirklichkeit). Ed infatti l’esser-giusto, per se stesso preme verso il suo divenir-effettuale attraverso l’azione, ma rimanendo trattenuto al di qua di essa.

Nello spazio determinato dalla tensione fra la giustizia come norma e l’esser giusto ad essa irriducibile, si apre la possibilità di un’azione orientata alla giustizia, purché di quella tensione e di quella irriducibilità si abbia consapevolezza.






0. Questione

Cosa si presenta innanzi ai nostri occhi? A fronte dei principi di uguaglianza che regolano la vita delle democrazie, l’ingiustizia si mostra in tutta la forza di realtà dominante le relazioni sociali e la condizione degli individui. Giovanni si è soffermato su questo punto mostrandoci ciò che è necessario vedere. Ma anche limitatamente al tema della democrazia, cioè del potere del popolo, la situazione non è meno contraddittoria: a fronte dei principi che regolano la sovranità nell’ordine democratico, la disparità nella capacità di esercizio del potere è abissale. Lo stesso aumento dell’astensionismo, fenomeno comune a tutto l’occidente democratico, non è causa ma piuttosto effetto della percezione di impotenza dei singoli nel determinare i reali indirizzi del potere sovrano. Il fatto che l’astensionismo sia di gran lunga maggiore fra gli strati subalterni conferma questa interpretazione. E d’altra parte come non considerare, in tema di esercizio della sovranità attraverso il voto, quanto pesi nella formazione della opinione la distribuzione ineguale della istruzione (e quindi nella capacità di leggere adeguatamente i messaggi politici) o, ancor più, il controllo oligopolistico, pubblico e privato, dei mezzi di comunicazione e la forma di messaggio pubblicitario che ha assunto la comunicazione politica?

Ragionare intorno al tema del rapporto fra democrazia e giustizia significa interrogarsi su questa antinomia fra i principi che regolano la sovranità e l’esercizio della giustizia nelle società che si autodefiniscono democratiche e la condizione di ingiustizia in esse largamente maggioritaria. Significa chiedersi se questa divaricazione sia un mero accidente, superabile nel tempo, o se esso non attenga piuttosto alla struttura elementare della democrazia e della forma che in essa assume l’esercizio della giustizia. Naturalmente si tratta di questioni enormi sulla quale mi limiterò ad accennare ai punti che, soggettivamente, più mi premono. Dovremo chiederci: Cosa è democrazia? Cosa in essa è esercizio della giustizia? Quali le loro strutture elementari? Quale il fondamento reale di tali strutture e che rapporto con la ingiustizia reale? Ed infine: è pensabile un’altra direzione dell’esser giusto nell’esercizio della giustizia?

1. Democrazia

Democrazia è termine troppo ampio, ambiguo se non equivoco. In senso ampio ha designato ogni regime politico non autoritario o dispotico, ma oggi, cancellato l’universo simbolico novecentesco con le sue antinomie e problematizzazioni, esso sembra aver acquisito un significato univoco. È quello dettato dalla pressione che l’attuale guerra in Europa è tornata ad imporre: la democrazia (liberale, l’unica che abbia realtà effettuale) contrapposta alle diverse forme del dispotismo: autocrazia (Russia) comunismo (Cina), teocrazia (Iran). Sottolineo unica (democrazia), diverse (dispotismo).

1.a. Democrazia è sovranità del popolo nelle forme della legge, quindi non il popolo in quanto tale o come realtà sociologica o storica, ma popolo in quanto legalmente costituito. Popolo è l’insieme dei cittadini, quindi soggetto di esercizio della sovranità è il cittadino in quanto essere giuridico nelle condizioni formali di esercitare tale sovranità1.

Per associare al ragionamento una rappresentazione, proviamo a ricordare dove, in via primaria, esercitiamo il nostro potere sovrano. Il nucleo duro, il punto elementare (nel senso di principio, Aristotele), in cui si esercita in democrazia il potere sovrano, è l’atto elettorale. In che condizione ci troviamo nella cabina elettorale? Siamo non soltanto soli, ma isolati, nel segreto di un luogo dove nessuno può vederci, e quindi liberi di decidere con indipendenza di giudizio. Chiamo democratica quella società in cui l’esercizio della sovranità popolare avviene nelle condizioni di libertà (autonomia-indipendenza) ed uguaglianza dei cittadini nella forma della legge, ed in forza di legge, cioè garantite dall’esercizio della forza, dal dominio della forza (della legge), cioè ancora della violenza legittima. Sottolineo: in forma ed in forza.



1.b Che significa che il cittadino che esercita la sovranità è un soggetto libero ed uguale, secondo la natura universalistica della legge? Significa che si fa astrazione dalla concretezza del suo essere sessuato, con determinate fedi e credenze, con un corpo determinato (ad es. il colore della pelle), con una determinata collocazione socio-culturale (di classe, etnica), inserito in un determinato tessuto di relazioni. Vorrei essere chiaro intorno a questo punto, utilizzando semplificazioni da “Prima repubblica”: un cittadino nel voto, l’atto con cui esercita la sua sovranità, poteva essere influenzato dalla sua condizione sociale (un operaio di una grande fabbrica del nord avrebbe votato comunista), dal suo orientamento sessuale (un gay un tempo avrebbe votato Partito radicale), dalla fede religiosa (un cattolico Democrazia Cristiana). Ma queste collocazioni sociali, questi orientamenti sessuali, queste appartenenze religiose, nel condizionare l’opinione politica dell’elettore, rientravano nella sua dimensione privata, nel suo essere concreto, ma egli votava non in quanto operaio, gay, cattolico, ma in quanto cittadino. Egli era, nell’atto di votare, puramente e semplicemente cittadino, senz’altra determinazione. Cittadino in generale. È questo l’universalismo della forma democratica della sovranità2.

1.c La legittimità ad esercitare il potere sovrano, per delega dell’insieme astratto ed indifferenziato dei cittadini, è conseguente alla misurabilità del consenso conseguito. Tale misurabilità implica l’uniformità qualitativa del consenso espresso: una testa un voto, ma un voto vale quanto l’altro. Qualitativamente indifferenti, vanno contati: 1,1,1,1….

1.d Riassumendo. Democrazia è una forma sociale di esercizio del potere sovrano che implica/presuppone l’essere astratto del soggetto e l’essere misurabile della sua azione.

2. Giustizia

La democrazia si autorappresenta come il risultato di un processo storico volto alla eliminazione dell’arbitrio del Signore rispetto all’esercizio della sovranità. Analogamente anche per la giustizia sembra potersi delineare un percorso volto all’abolizione tendenziale dell’arbitrio di fronte all’ingiustizia, cioè dell’arbitrio nella risoluzione dei conflitti fra individui, fra gruppi, o in generale fra l’individuo (o un gruppo) e l’intera comunità. Eliminare l’arbitrio nella decisione di chi detiene legittimamente il potere di (ri)condurre tale relazione ad una condizione di “giustezza”, sembra possibile unicamente riconducendo l’esercizio della giustizia all’ambito del diritto. È questa l’operazione che fa la democrazia. Come è possibile l’eliminazione (tendenziale) dell’arbitrio? cioè come sono possibili giudizi oggettivi intorno all’esser giusto di qualcosa? Affinché ciò sia possibile è necessario (questo il paradigma democratico) che la giustizia abbia misura “oggettiva”, che ciò che è oggetto del giudizio di giustezza sia comparabile, quindi misurabile rispetto a parametri di equivalenza o di proporzionalità (es. nella giustizia penale: proporzionalità fra reato e pena). Il giudizio consisterà nel sussumere la singolarità dell’evento o della situazione fattuale dentro una codificazione universale (la fattispecie). Ciò presuppone che il soggetto che compie l’azione oggetto di giudizio, e specialmente il soggetto giudicante sia un soggetto astratto, privato della sua concretezza corporea-individuale e relazionale.

3. Forma-denaro

Da cosa deriva la forza di questo modello, tal che esso si presenti oggi come l’unico modello sociale da contrapporre all’arbitrio di un potere senza legge? Vi è nella realtà qualcosa che fa esistere realmente dei soggetti astratti, così da dar forza sociale all’astrazione giuridica del soggetto titolare della sovranità politica e del soggetto che, per superare la condizione sentita come ingiusta, reclama innanzi allo Stato la soddisfazione di un diritto sancito dalla norma universale?

Abbiamo visto l’isomorfismo tra l’esercizio democratico della sovranità e il diritto alla eliminazione della condizione di ingiustizia, individuando tale isomorfismo 1) nell’esistenza reale, cioè socialmente efficace, di un soggetto astratto (ed in questo senso libero ed indipendente), che esercita la sua capacità di azione in modo che da tale esercizio risulti “oggettivamente”, cioè a posteriori, la volontà comune (sovranità) ed il bene comune (giustizia) secondo criteri universali, e conseguentemente 2) nella misurabilità delle azioni secondo parametri universalistici.

3.a Da dove proviene tale capacità di astrazione reale? Questa fonte l’abbiamo danti gli occhi ogni istante della nostra vita. Ogni volta che guardiamo una vetrina, accanto all’immagine della merce vi è apposto un numero, un valore meramente quantitativo: il prezzo, l’equivalente in denaro del valore. Nel mercato si confrontano merci comparabili in quanto si fa astrazione, nella unità di misura della equivalenza di valore, della loro determinatezza qualitativa, del loro esser differenti. Ma tale comparazione di cose è nient’altro che la forma sociale del rapporto fra soggetti che, in questa determinata forma sociale, esistono unicamente come soggetti astratti, eguali perché astratti, legati l’uno all’altro nella forma della libertà e dell’indipendenza (sottolineo: legati nella forma dell’indipendenza). Questa forma specifica di legame sociale li costituisce come individui, soggetti astratti, cioè – nella loro esistenza sociale – privati del loro essere differenti, corporei e relazionali. È la penetrazione della forma-valore, attraverso la figura del denaro, in tutti gli ambiti della vita a partire dalla conquista dei processi produttivi (capitalismo), che rende possibile e socialmente ovvia una cosa così strana come un “soggetto astratto”, un uomo incorporeo e a-relato, che rende naturale una astrazione reale, secondo la lingua di Marx e del neomarxismo3.

3.b Possiamo adesso comprendere come sia possibile, anzi necessario, il paradosso dal quale ha preso le mosse questo mio intervento: la coesistenza fra l’uguaglianza e la libertà dei soggetti nel duplice ordine della sovranità politica (democrazia) e del diritto alla giustizia da un lato, e le evidenti condizioni di diseguaglianza e ingiustizia così palesemente davanti agli occhi di ognuno di noi dall’altro.

Il lungo processo storico, carico di violenza, con cui la forma-denaro si è imposta come l’unica (tendenzialmente) forma della sintesi sociale, producendo come soggetto della sfera pubblica (tanto politica che economica) il soggetto astratto, ha ricacciato nell’ombra – e reso socialmente ininfluenti – le condizioni concrete di esistenza dei singoli esseri umani. Tali condizioni vengono espunte dallo scambio sociale sia rispetto all’esercizio della sovranità che rispetto alla pretesa di giustizia. La concretezza delle condizioni di ingiustizia diviene a tali fini (sovranità e giustizia) irrilevante. Ma essa, ovviamente, continua a segnare le vite degli esseri umani e la loro effettiva disparità di godimento del potere sociale. È questa la grande lezione di Marx: nelle nostre società l’uguaglianza è la forma della disuguaglianza, la libertà è la forma del dominio.

Mi preme sottolineare un altro aspetto di questa «uguaglianza come forma della disuguaglianza»: sotto l’apparenza di universo sociale in cui si svolge la concorrenza fra esseri liberi, in realtà la scena che sottostà a quella apparenza è la guerra. Guerra per l’acquisizione di quote del mercato, o la conquista di nuovi mercati. Non appena appare la crisi, la guerra diviene nuovamente evidente, ma essa è la vera dimensione dei rapporti fra gli uomini che sottostà all’apparenza della libertà. Le parole ci dicono molto, se le prendiamo sul serio: pensate quante volte si usa l’espressione «guerra dei mercati» per giustificare scelte politiche «di emergenza». Ma pensiamo anche a ciò che da ultimo accade in Ucraina, alla determinazione a vincere e non ad ottenere la pace, per comprendere come la guerra è non solo l’essenza degli imperi autocratici, ma anche delle civiltà democratiche, a partire dall’antica Atene, su cui la “guerra del Peloponneso” ha molto da dirci intorno alla sua verità4.

4. Un’altra giustizia

Possiamo immaginare un’altra idea della giustizia, al di fuori dello formalizzazione democratica e della uguaglianza dell’astratto individuo proprietario?

4.a Marx non amava dire nulla di positivo intorno alla sua immagine della società comunistica. Vi sono tuttavia due piccoli accenni, l’uno nei materiali dai quali Engels ricaverà il terzo libro de Il capitale, l’altro nella Critica al Programma di Gotha. Sono niente più che due frammenti, dai quali però, leggendoli sinotticamente (anche a rischio di forzarli, ma non credo), si possono ricavare elementi per un prospettiva di ricerca. In ambedue Marx fa riferimento ad una prima ed una seconda fase del comunismo. Sebbene sia stato già soppresso il dominio di una classe sull’altra, la prima fase del comunismo sarebbe ancora segnata dalla necessità, ed in essa la libertà potrebbe consistere unicamente nella razionalità strumentale (con linguaggio novecentesco) di calcolo per regolare il ricambio organico con la natura. Si tratta quindi di una razionalità vincolata alla necessità. A questa regolazione razionale delle necessità del lavoro corrisponde una distribuzione legata ad un sistema di equivalenza fra lavoro erogato e compenso ricevuto. Ma essendo le condizioni di ciascuno differenti come differenti sono gli esseri umani, il diritto derivante da una eguale misura «è un diritto diseguale…esso è perciò, per il suo contenuto, un diritto alla disuguaglianza, come ogni diritto». Attenzione all’espressione di Marx: ogni diritto è diritto alla disuguaglianza.

Solo successivamente, con un ulteriore sviluppo, «la società può scrivere sulle sue bandiere: ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni»5. Cosa significa questa frase? Significa che in un tal tipo (ipotetico) di società vige un’altra razionalità della giustizia, per la quale nello scambio fra il dare e l’avere – che regola i rapporti fra l’individuo e il gruppo – non vi è calcolo contabile ma, diremmo oggi, relazione simbolica. La giustizia esce così da ogni criterio astratto di misurabilità e apre al mondo della libertà (non più della necessità): «lo sviluppo delle capacità umane che è fine a se stesso, il vero regno della libertà». Non mi interessa in questa sede discutere la teoria marxiana delle fasi storiche, mi interessa notare come Marx evidenzi l’esistenza di due diverse razionalità di giustizia: l’una derivante dal vincolo della necessità e che implica l’uguaglianza e la commisurazione (l’uguale misura), l’altra che deriva dal un legame di libertà emancipatosi dalla misura perché assume la differenza e non l’uguaglianza come principio ispiratore6.

4.b Fra i tanti racconti che Luca mette in bocca a Gesù, che mi affascinano, ce n’è uno il cui inizio mi lascia perplesso, quello conosciuto come Parabola del figliol prodigo. Non mi piace per questa figura del padre che resta lì, fermo, non va a cercare il figlio che potrebbe star soffrendo. Lo immagino sulla porta di casa col suo sguardo giudicante ed immobile. Eppure l’epilogo di questo racconto ci dice qualcosa su ciò che stiamo interrogando. Il figlio, dopo aver sperperato con una vita dissoluta la parte di proprietà che gli spettava, torna dal padre appesantito dal senso di colpa per le scelte compiute.

«“Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. (…) Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno (…) (indignato disse), al padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”»7. Certo l’azione del padre è animata dal forte sentimento di compassione, ma in essa vediamo in azione un preciso senso di giustizia, una precisa razionalità di giustizia. Il senso di giustizia che muove il padre alla fine del racconto è legato alla relazione fra due esseri singolari e concreti e alla contingenza della separazione e della riconciliazione (sottolineo relazione singolare e contingenza) in opposizione al senso di giustizia rivendicata dal figlio maggiore, proprio di una dimensione astratta e misurabile. Attenzione, il figlio maggiore non è malvagio, egli semplicemente rivendica un diritto, il diritto alla sua giusta parte. L’una prospettiva di giustizia è ingiusta con i parametri dell’altra, e reciprocamente.

Il racconto di Luca ci offre un altro elemento: l’atto di giustizia del padre è la celebrazione di una festa. Una festa non è semplicemente la modalità di espressione della gioia per l’avvenuta riconciliazione, per la ricucitura della lacerazione. È un’azione corale. Essa esprime, nella forma della coralità gioiosa, la dimensione comunitaria necessaria alla realizzazione di questa forma di giustizia. La giustizia che qui è messa in opera non è un fatto privato, ma un evento comunitario, come comunitaria era la relazione lacerata che, con quell’atto di giustizia, viene ricucita.

Due giustizie, due razionalità, come in Marx, ma in Luca l’elemento comunitario presente in Marx si specifica come dimensione relazionale, singolare e contingente. Proprio il momento della festa8, che è interruzione del continuum dell’ordine sociale, ci fa comprendere come la logica della giustizia-senza-misura è una logica che sovverte l’ordine della giustizia-secondo-misura, l’ordine della giustizia delle equivalenze e del diritto su di essa fondato.

È questo ciò che impariamo dal pensiero della differenza sessuale. La critica femminista all’universalità astratta del soggetto, cioè all’universalizzazione neutra del soggetto maschile, non ci consegna infatti l’immagine dell’essere umano come individualità, ma piuttosto come essere in relazione, ancorché segnato nel suo essere singolare-corporeo dalla differenza sessuale. Questo spostamento non è (soltanto) un fatto teorico, è l’esperienza di una pratica in cui la libertà non è né una condizione futura da attendere né un diritto da rivendicare, ma la realtà in atto conseguente alla pratica della relazione fra donne che fonda l’autorità femminile. È l’esperienza di una “pratica politica”, nel linguaggio del femminismo della differenza, che può metterci sulla buona strada in riferimento alla questione della giustizia con la quale ci stiamo confrontando.

A questo punto del cammino che stiamo conducendo, mi sento di dire che non c’è giustizia se non in riferimento ad una esistenza singolare, ad un concreto tessuto di relazioni, alla contingenza dell’essere-in-comunità.


5.b Inverto la prospettiva marxiana9: l’altra giustizia, quella senza-misura, senza contabilità del dare/avere, non è primariamente un fine da raggiungere (es. l’ultima fase del comunismo), lo è anche, ma è anzitutto e primariamente il fondamento reale del nostro essere-in-comune. Solo grazie a questo esser-già può costituirsi come termine ad quem di un agire secondo giustizia. Trovo ispirazione per questa inversione nel cristianesimo («Il Regno è già qui», si tratta “solo” di saperlo vedere) e nel movimento delle donne, nella coscienza, da esso fatta emergere, che la vita umana ha continuato a fluire, nonostante tutto, e a realizzarsi come essere-in-comune, non grazie alla sintesi sociale del denaro-capitale ma grazie alle pratiche primariamente femminili di generazione e di cura che, invisibili nella scena pubblica, hanno trasmesso la capacità di legame, ripeto nonostante tutto.

6. Obbligo

Quale forma di coscienza può promuovere una tale inversione?

Fra il dicembre del ’42 e l’aprile del ’43 a Londra, Simone Weil è incaricata di esaminare i materiali provenienti dagli ambienti della resistenza francese, come lavoro “istruttorio” affinché le Commissioni Nazionali istituite da De Gaulle potessero gettare le basi della nuova Francia. Simone Weil non si limita ad elaborare tale materiale, ma, riflettendo su di esso, elabora una serie di scritti in cui indica ciò che secondo lei è necessario affinché tale opera possa realizzarsi. Si tratta dei testi conclusivi della sua lunga riflessione politica. Il punto centrale di tale riflessione è che occorra prendere le distanze dalla tradizione politica europea la quale, a partire dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, pone come principio assoluto il concetto di diritto. La nozione di diritto, nella nostra tradizione giuridica, scrive, è «legata a quella di spartizione, di scambio, di quantità. Essa ha qualcosa di commerciale. Evoca un tono di rivendicazione; e quando questo tono è adottato, vuol dire che la forza non è lontana, dietro di esso, per confermarlo, altrimenti è ridicolo».

In evidente opposizione alla rivoluzione francese, il testo fondamentale in questo gruppo di scritti è indicato dalla stessa Weil col titolo di Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano.

Non quindi i diritti dell’individuo astratto (il cittadino o la persona), ma i doveri nei confronti dell’essere umano, nella sua singolarità concreta. Questo il fondamento. L’inizio del Preludio pone da subito i termini della questione: «La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto, che le è relativa e subordinata. Un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui esso corrisponde; l’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa (…) Un uomo, che fosse solo nell’universo, non avrebbe nessun diritto, ma avrebbe degli obblighi».

Non contabilità dare/avere, ma obbligo incondizionato nei confronti dell’altro, ciascuno, che ci interpella con la sua semplice presenza, dovere nei confronti dell’altro che mi appella con la sua domanda di giustizia: «Perché mi fai questo?» «Perché mi accade questo?» A questo ci chiama Simone Weil.

7. Essere in debito

7.a L’atto iniziale di questa nuova coscienza è la consapevolezza di essere in debito. Essere-in-debito, perché non mi sono dato la vita da solo, perché non vi è maggior menzogna del soggetto moderno, il soggetto che si autofonda, si autocostituisce. Essere-in-debito perché non sono nato da solo, ma sono nato da una donna che mi ha donato la vita. Perché la vita ed il vivere sono l’effetto di un dono ripetuto nel tempo, finché la vita dura, affinché la vita duri.

Questa dimensione del dono gratuito che non attende il ritorno speculare, è quell’invisibile fondamento dell’esser-comune che da sempre ha fondato l’esser-in-comune degli umani, perché scaturisce dalla relazione asimmetrica della posizione materna, che struttura, nella sua asimmetria, il prendersi-cura

di; scaturigine del legame sociale: relazione con l’altro orientata alla trascendenza che è immanente al suo essere parlante. (Come vedete non sto parlando di Dio, ma di una struttura antropologica).

L’incommensurabilità dell’aver-avuto è la grazia, la gratuità del dare, un’altra realtà rispetto al sistema della logica di potenza, al dominio della forza (violenza) che si manifesta nella legge della macchina sociale e nella sua gravità (pesantezza); la libertà che si incarna nella gratuità del dono, fondamento, attraverso il sentimento di una gratitudine originaria, del legame sociale.

Solo la coscienza dell’essere in debito, e non la posizione del titolare di diritto, può aprire ad una prospettiva di giustizia incompatibile con il dominio della forma-denaro del capitale come medium della sintesi sociale, e della sua controfigura giuridico-statuale. Solo questa dimensione apre ad un’idea di giustizia come libertà incondizionata.

7.b Questo spostamento di prospettiva, proprio in quanto è connesso alla libertà del dono e alla tensione verso l’altro (trascendenza), implica l’allontanamento dalla sfera del dominio della forza, ovvero della violenza come fondamento dell’ordinamento sociale, strutturalmente implicato tanto nel principio di sovranità democratica quanto nella sussunzione della giustizia nel diritto (e di cui le guerre imperialistiche sono solo la manifestazione più esplicita, e ancora ricordo come il modo in cui l’Occidente si sta opponendo all’aggressione russa dell’’Ucraina, cercando non la pace, ma la vittoria, sia coerente con questo dato strutturale).

Questa diversa idea di giustizia si muove nella prospettiva di una progressiva azione pacificatrice che disarticola la struttura violenta delle società. Qualcosa comincia a penetrare perfino nell’ambito così lontano della giustizia penale e della esecuzione della pena. Sono i percorsi della giustizia riparativa o, come preferisco dire, della giustizia rigeneratrice. Non mi interessa entrare in questioni tecniche, sulle quali ho sempre una qualche riserva perché tentano l’impossibile di conciliare gli opposti del dominio della forza (diritto) e della libertà o obbligo verso l’altro. Mi interessa però fare riferimento alla possibilità di una giustizia che si generi nell’incontro e muova verso l’incontro. Rimando ad un libro straordinario, che mi ha colpito profondamente, perché esso mostra che il miracolo esiste, ma miracolo è ciò che più profondamente sta al centro del cuore degli uomini: Il libro dell’incontro, edito meritoriamente da Il saggiatore nel 2015, «racconta dell’incontro avvenuto, nell’arco di oltre sette anni, tra alcune vittime (e loro familiari) e alcuni responsabili della lotta armata che ha segnato l’Italia negli anni settanta e ottanta del secolo scorso. (…) Il nostro proposito era, ed è tuttora, quello di compiere un tragitto insieme, noi mediatori “nel mezzo”, tra persone che avevano subito un male terribile e chi quel male lo aveva causato, tutti uniti da qualcosa di tanto misterioso, e per molti versi inspiegabile, quanto forte, ineludibile, decisivo: la domanda, o la ricerca di giustizia. (…) Nessuna vetta è stata conquistata, nessun traguardo è stato tagliato. Ma il tragitto compiuto assieme da questo gruppo, nato in sostanza in modo spontaneo, ci ha da subito rapiti dai mondi che abitavamo, ci ha ri-direzionati, ci ha radicalmente trasformati. (…) questo cammino, come il lettore scoprirà, si è – letteralmente – “imposto”. (…) una piccola, grande, speranza divenuta per noi un fatto tangibile e concreto: è possibile, nonostante tutto, cercare assieme la giustizia, ed è cercandola assieme che, forse, la si può almeno un poco avvicinare»10.

Un’altra idea di giustizia, un altro fare giustizia, che trasforma non solo il “colpevole” ma anche la “vittima”.

8. Eccedenza.

Vorrei concludere spostando ulteriormente il piano del discorso: Cosa pensiamo quando diciamo: «Quegli è un uomo giusto»? quando ad un nome proprio apponiamo l’espressione «è un uomo giusto»? O meglio, cosa sentiamo? Proviamo a ripetere questa espressione rivolta ad un singolo, determinato, essere umano, a qualcuno di cui abbiamo conoscenza, e ascoltiamo, sentiamo cosa risuona in quel suono: «è un uomo giusto». Dico «risuona» con proprietà, perché nell’esser-giusto è implicata una tensione verso quell’armonia che dalla composizione di certi suoni ci penetra nell’anima.

Sentimento di armonia dell’esser-giusti, desiderio di armonia nel fare giustizia. Desiderio, potenza vitale di ogni essere umano, priva di oggetto, perché ciò cui tende non si trova in nessun oggetto concreto, ma lo trascende. Spinta verso ciò che trascende, ed insieme verso l’altro cui si rivolge e non può non rivolgersi, perché desiderio è sempre tensione verso l’altro che diviene parola comune.

Eccedenza è il buco del desiderio, l’essere assente che muove il soggetto, il Bene (non la sua idea!) al di là di ogni oggetto. Buco nel simbolico, l’Altro del dicibile che muove ogni dire. Ecco perché il Bene come causa dell’obbligo in Simone Weil è libertà e non colpa, come invece lo è nel cattolicesimo e nell’ebraismo.

In questa diversa dimensione dell’esser-giusto c’è qualcosa che eccede qualsiasi ordine sociale, che eccede il codice dello scambio intorno a ciò che mi spetta per diritto ed in esso trova misura e proporzione. Noi sentiamo che c’è più giustizia in quel «Portate qui il vestito più bello … prendente il vitello grasso… mangiamo e facciamo festa... » che non nel calcolo di quanto spetti all’uno e all’altro, perché sentiamo che in quella frase qualcosa dell’esser-giusto di un uomo si è manifestata, e che ciò sarebbe stato impossibile se essa in anticipo fosse stata sottoposta al giudizio di parità dei diritti comunque codificati.

Questo esser-giusto non ha propriamente misura, non ha proporzione. Esso non procede da un codice sociale e per ciò non può divenire attuale grazie all’esercizio della forza legittima, perché, pur manifestandosi attraverso lo scambio (simbolico), attiene ad un piano dell’essere che lo precede e lo eccede ad un tempo. È quel venire da dentro che si manifesta in una parola o in una azione senza mai saturarsi in esse, ma senza le quali (parola ed azione) non avrebbe realtà, effettualità (Wirklichkeit). Ed infatti l’esser-giusto, per se stesso preme verso il suo divenir-effettuale attraverso l’azione, ma rimanendo trattenuto al di qua di essa.

Nello spazio determinato dalla tensione fra la giustizia come norma e l’esser giusto ad essa irriducibile, si apre la possibilità di un’azione orientata alla giustizia, purché di quella tensione e di quella irriducibilità si abbia consapevolezza.


TESTI DI RIFERIMENTO

Karl Marx, La sacra famiglia

Karl Marx, Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico

Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica

Karl Marx, Il capitale

Karl Marx, Critica al Progamma di Gotha

Alfred Sohn-Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale

Luigi Cavallaro, Giurisprudenza. Politiche del desiderio ed economia del godimento nell’Italia contemporanea, Quodlibet 2015

Luisa Muraro, Tre lezioni sulla differenza sessuale

Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere diritti

Simone Weil, La persona umana e il sacro

Simone Weil, La prima radice

Simone Weil, Manifesto per la soppressione dei partiti politici

Roberto Esposito, Communitas

Jaques Derrida, Forza di legge

Jaques Derrida, «Justices»

Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto



note

1 So bene che, a seguito della crisi di civiltà che ha raggiunto il culmine con la seconda guerra 

2 Ne consegue il divieto del vincolo di mandato: se il rappresentante, nell’esercizio della potestà che gli deriva dall’esser stato eletto, non rappresenta i suoi elettori ma il popolo in generale, nella sua unità indistinta ed indifferenziata (l’insieme dei cittadini in quanto enti astratti), egli non è vincolato alle opinioni di chi lo ha eletto, ma esercita il potere che gli deriva in piena libertà, indipendenza ed autonomia.

3 In altre parole: è il lungo processo storico, iniziato nel seicento, attraverso cui la forma denaro si è imposta come il (tendenzialmente unico) soggetto della sintesi sociale, ad aver generato la figura dei soggetti astratti che si incontrano negli scambi materiali e simbolici (e quindi anche cognitivi) della vita sociale. Il capitale nella forma-denaro costituisce il soggetto trascendentale rispetto al quale i singoli individui costituiscono gli io empirici. Oltre ai testi marxiani, cfr. Adorno Parole chiave e Alfred Sohn-Rethel Lavoro intellettuale e lavoro manuale. 

4 L’espressione «mercato politico» ha quindi un valore non meramente fenomenologico (le parole dicono, al di là delle intenzioni soggettive: l’«offerta dei partiti», la forma pubblicitaria della comunicazione politica, etc.). Essa rimanda all’isomorfismo fra mercato economico e politica in democrazia (come si è venuta configurando): come la libera concorrenza e lo scambio di equivalenti sono la forma con cui si realizza la guerra (feroce quanto occorre) di appropriazione della natura da parte e fra i più forti, così il “mercato elettorale”, cioè la libera concorrenza per l’acquisizione del consenso, è la forma con cui si realizza la guerra per l’appropriazione del potere legittimo. Quanto in tali conflitti (economici e politici), in tali guerre, i singoli siano oggetto e non soggetto mi sembra sia sotto gli occhi di tutti. 

5 Questa frase in realtà non era altro che un motto presente ampiamente nel socialismo ottocentesco, e d’altra parte corrisponde ad una idea di comunismo che ha nel primo cristianesimo una sua statuizione. Nella prima comunità cristiana: «Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno» (Atti degli apostoli, 4,34-35).

6 Elementi in una direzione simile a quella prospettata da Marx si sono intravisti nella nostra società a seguito della pressione dei grandi movimenti di massa degli anni settanta. In continuità con la costituzione repubblicana, l’ideale dello stato sociale, con l’erogazione universale e pubblica dei servizi ritenuti essenziali, aveva questa prospettiva. Quando allora si diceva che il servizio sanitario nazionale avrebbe dovuto rivolgersi non solo ai proletari ma anche ed egualmente ad Agnelli (e da questo si sarebbe misurata la sua effettività), si faceva riferimento non solo alla qualità sanitaria del servizio, ma anche al fatto che tale servizio dovesse essere gratuito anche per il ricco “padrone” Agnelli, contribuendo Agnelli al “bene comune” attraverso la fiscalità generale e non attraverso il pagamento di un “prezzo”. Quell’idea di stato sociale, cioè, era più simile al comunismo marxiano che non il successivo criterio monetaristico introdotto anche nei servizi pubblici. Quel diverso universalismo si associava, ed era preceduto, da una produzione normativa che forzava (ed infrangeva) i principi di astrazione e generalità proprie dello stato di diritto, assumendo la disimmetria delle condizioni di vita e prospettando azioni volte a tutelare le posizioni più deboli (l’esempio più eloquente è il c. d. “diritto del lavoro”). Ne conseguiva il superamento della rigida divisione dei poteri e la trasformazione della norma in senso de-giurisdicizzato, in cui il formalismo kelseniano si legava alle politiche keynesiane, ed in generale alla struttura del c. d. stato sociale (cfr. L. Cavallaro, Giurisprudenza, in particolare il primo capitolo). Mi preme sottolineare il fatto che si tratta di due razionalità opposte, la cui coesistenza instabile non sembra poter durare a lungo, come mostra la storia occidentale a partire dagli anni ottanta.

7 Luca 15

8 «So che ci sono tra di voi giovani che vogliono fondare delle comunità, è di moda oggi. Che non dimentichino che non fonderanno se non sanno festeggiare. Perché la comunità viva, occorrerà saper lavorare. Ma se sapete lavorare e non sapete fare nient’altro, se siete come uccelli senza ali e senza voce, allora la vostra comuni
tà diventerà talmente pesante che cadrà» scrive Lanza del Vasto (L’Arca aveva una vigna per vela, p. 234. E fare festa significa, nell’Arca, anzitutto danzare insieme. Senza festa non c’è comunità possibile. «Se non posso ballare non è la mia rivoluzione» sentenzia l’anarchica russa Emma Goldman. La festa è elemento presente in ogni (vera) rivoluzione, quando si guardi ad esse ponendo lo sguardo sotto la superficie delle dinamiche politiche.

9 In realtà si tratta di una inversione rispetto alla linea maggioritaria del marxismo, essendo la posizione di Marx più complessa, ove si legga in modo unitario il suo laboratorio intellettuale ed esistenziale, a partire dagli scritti filosofici giovanili fino alle ricerche dell’ultimissima fase.

10 Dal Prologo. Sottolineature mie.



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Illustrazione del voto delegato. Gli elettori a sinistra della linea blu votano per delega. Gli elettori a destra della linea blu votano direttamente. I numeri indicano la quantità di elettori rappresentati da ciascun delegato, con il delegato incluso nel conteggio