- Fulvio Vassallo Paleologo -
Un porto
sicuro più lontano possibile \ Verso la violazione delle Convenzioni
internazionali \ Il falso umanitarismo e la minaccia di sequestri e sanzioni
\Violazione dei diritti umani le responsabilità dei paesi democratici \ La
finta zona SAR libica e la criminalizzare e delle ONG \ La
giurisdizione extrateritoriale in acque internazionali degli Stati costieri \ Sovranità
nazionale, competenza SAR e responsabilità degli Stati costieri\La violazione del divieto di respingimenti
collettivi su delega degli Stati europei \ Le
decisioni dei Tribunali italiani che accertano una diffusa situazione di abusi
ai danni dei migranti in Libia \ I profili di responsabilità penale
internazionale
Un porto sicuro più lontano possibile \ Verso la violazione delle Convenzioni internazionali \ Il falso umanitarismo e la minaccia di sequestri e sanzioni \Violazione dei diritti umani le responsabilità dei paesi democratici \ La finta zona SAR libica e la criminalizzare e delle ONG \ La giurisdizione extrateritoriale in acque internazionali degli Stati costieri \ Sovranità nazionale, competenza SAR e responsabilità degli Stati costieri\La violazione del divieto di respingimenti collettivi su delega degli Stati europei \ Le decisioni dei Tribunali italiani che accertano una diffusa situazione di abusi ai danni dei migranti in Libia \ I profili di responsabilità penale internazionale
1. Un porto sicuro più lontano possibile
Dopo lunghi giorni di attesa nel mare in burrasca, giorni nei quali è stata sistematicamente negata l’indicazione di un porto sicuro di sbarco, mentre sulle scelte del governo italiano restavano accesi i riflettori a livello europeo, due navi delle ONG hanno finalmente ricevuto dal ministro dell’interno, tramite il Centro IMRCC della Guardia costiera di Roma, che coordina le attività di soccorso, l’indicazione di un porto sicuro di sbarco. A Salermo è arrivata la nave di MSF Geo Barents, a Bari lo sbarco più drammatico dalla Humanity 1. Dopo una attesa tanto lunga, questa volta le operazioni di sbarco sono state molto sollecite e secondo quanto comunicato da Sergio Scandura corrispondente da Catania di Radio Radicale, la Humanity1 ha già lasciato l’ormeggio del porto di Bari, sembra sia diretta in Spagna per la manutenzione invernale, come la Louse Michel che era stata autorizzata ad ormeggiare a Lampedusa, mentre sembra vicina anche la partenza della Geo Barents di MSF da Salerno.
Sembrerbbe però che Ministero dell’interno non abbia assegnato davvero un Place of safety(POS), come avrebbe dovuto in base alle Convenzioni internazionali, ma soltanto un porto di destinazione(POD) perche’,in continuità con i precedenti governi, si continua a qualificare le attivita’ di salvataggio in acque internazionali operate dalle Ong come “eventi di immigrazione illegale” e non come attivita’ SAR (Search and Rescue). In questo modo anche in futuro, nei porti di attracco, le Capitanerie di porto potranno procedere a fermi amministrativi e la Guardia di finanza potrà notificare sequestri ed avvisi di reato. Come già successo in passato.
Il Viminale ha spedito a nord le due navi delle Ong, che si trovavano vicine ai porti di Catania e Siracusa, costringendole a risalire il Tirreno e lo Ionio, dentro burrasche con venti oltre i trenta nodi ed onde alte. Sono state 40 ore di inferno per naufraghi ed equipaggi, dopo che si è negato l’ingresso nel “porto sicuro più vicino”, che poteva essere assegnato giorni prima, come prescritto dalle Convenzioni internazionali e dal Regolamento europeo Frontex n.656 del 2014 che le richiama e le rende vincolanti per tutti gli Stati membri.
Secondo quanto comunicato dal Ministero dell’interno, la tardiva assegnazione di un porto di sbarco sarebbe avvenuta per le avverse condizioni meteo e per non fornire “pretesti” alle ONG di dichiarare lo stato di necessità ed ottenere quindi il porto di sbarco sicuro più vicino, quindi in Sicilia. In realtà il governo italiano ha soltanto adempiuto ad un obbligo che gli deriva dal diritto internazionale e dal diritto dell’Unione Europea, come nelle scorse settimane, a ridosso del caso SoS Mediterraneé/Ocean Viking, avevano ricordato con critiche durissime sia la Commissione europea che diversi governi europei (Norvegia, Francia e Germania).
Si è appreso dall’ANSA che fonti ministeriali sono intervenute per motivare il via libera dato alle tre Ong: queste ultime, infatti,“ne avrebbero tratto un pretesto per dichiarare lo stato di emergenza a bordo e avrebbero così fatto ingresso nei porti della Sicilia, i cui centri di accoglienza sono già congestionati di presenze, rimanendo peraltro in prossimità dei loro scenari operativi”, La replica a queste posizioni del Viminale che contestano alle ONG di utilizzare “pretesti” per portare a compimento, con lo sbarco a terra, operazioni di salvataggio compiute nel pieno rispetto del diritto internazionale non si è fatta attendere.
“Vogliamo ricordare alle autorità che assegnare dei porti sicuri per salvarsi non è un’azione gentile nei nostri confronti, ma un dovere delle autorità e un diritto delle persone perché secondo la legge le operazioni di salvataggio terminano solo quando tutti i passeggeri possono essere sbarcati in un porto sicuro”. Lo ha detto Lukas, il portavoce dell’equipaggio della nave Humanity1. Come si e’ detto, ancora una volta sembra che il Viminale abbia assegnato soltanto un POD ( porto di destinazione) e non un POS ( porto di sbarco sicuro) continuando a negare la natura di evento di soccorso dei salvataggi operati dalle navi delle ONG, che si è rifiutato di coordinare, almeno fino a quando queste sono rimaste in acque internazionali.
2. Sull’immigrazione “tireremo dritto” ...verso la violazione delle Convenzioni internazionali
“Nessun dietrofront sull’immigrazione” ha dichiarato il ministro Piantedosi, ma l’intera strategia costruita all’indomani delle elezioni (e già anticipata in campagna elettorale) appare ancora una volta destinata a fallire sotto i colpi degli altri Stati dell’Unione europea che non intendono perdonare all’Italia il mancato rispetto degli obblighi di soccorso e sbarco nel porto sicuro più vicino, sanciti dal Diritto internazionale e richiamati dalle Direttive e dai Regolamenti europei. La distanza maggiore si riscontra sull’atteggiamento politico e diremmo “culturale” verso le ONG, richiamate nei piani europei sui salvataggi in mare come attori complementari delle attività di ricerca e soccorso che gli Stati costieri sono obbligati a coordinare non appena avuta notizia di persone in pericolo in alto mare.
Secondo il governo italiano invece “Le azioni delle Ong, spesso rischiose e provocatorie, favoriscono in molti casi l’ingresso in Italia di migranti economici, che non hanno alcun diritto a entrare e rimanere in Italia. È questo a prescindere dai dichiarati intenti umanitari”. Chi insiste su queste accuse infamanti dimentica che la giurisprudenza italiana, fino alla Corte di Cassazione, ha smentito, dal 2018 ad oggi, queste illazioni che sono state alla base della campagna propagandistica dei partiti di destra negli ultimi anni, ma che non hanno mai trovato una conferma in una sola sentenza di condanna da parte della magistratura.
Secondo il Viminale, le navi, delle ONG “fanno pattugliamento sistematico, portano in acque italiane migranti raccolti in acque di altri Paesi. Raccolgono in mare persone che hanno pagato uno scafista, dunque un criminale, per entrare illegalmente in Italia”. Alcune Ong “finiscono per rappresentare, anche loro malgrado, un elemento chiave della filiera che ingrossa l’immigrazione irregolare in Italia”. Sono queste le considerazioni che si ritrovano nei provvedimenti di fermo amministrativo adottati dalle Capitanerie di Porto, e nelle iniziative di carattere penale che le forze di polizia sollecitano alla magistratura sulla base di notizie di reato precofezionate. Denunce che finora non hanno avuto seguito con sentenze di condanna. Perche’,anche in base all’art.10 ter del Testo Unico all’immigrazione 286/98, l’ingresso “per ragioni di soccorso” non costituisce comunque un ingresso irregolare.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha demolito due dei capisaldi delle motivazioni con cui le Capitanerie di Porto su evidente indirizzo ministeriale, e con l’ausilio di una specifica squadretta di ispettori, avevano ordinato il fermo amministrativo per diversi mesi, a partire dal 2020, delle navi Sea Watch 3 e Sea Watch 4, e poi di tutte le altre umanitarie, arrivando nel 2021 a bloccarne in porto anche sei contemporaneamente. Nel caso della Sea Watch 4 la nave era rimasta bloccata nel porto di Palermo addirittura per sei mesi, e poteva ripartire soltanto nel mese di marzo del 2021. Per la Corte di giustizia di Lussemburgo, dopo l’ingresso della nave soccorritrice in porto e lo sbarco dei naufraghi, lo Stato italiano “può sottoporla a un’ispezione diretta a controllare il rispetto delle norme di sicurezza in mare. A tal fine, occorre però che tale Stato dimostri, in maniera concreta e circostanziata, l’esistenza di indizi seri di un pericolo per la salute, la sicurezza, le condizioni di lavoro a bordo o l’ambiente”.
Per i giudici europei, e secondo la logica del diritto, non disgiunta da un minimo di umanità, non possono essere considerati “passeggeri” i naufraghi che vengono soccorsi in mare, e le navi delle ONG non possono essere costrette a dotarsi di ulteriori certificazioni dello Stato che è obbligato a garantire il porto di sbarco (POS), certificazioni che in passato le autorità italiane hanno invece richiesto a loro discrezione, nel tentativo (non riuscito) di giustificare i provvedimenti di fermo amministrativo. Nel caso dell’Italia queste certificazioni non sono peraltro previste neppure dai registri del naviglio civile ed erano frutto di richieste arbitrarie da parte delle autorità amministrative.
3. Dietro la facciata del falso umanitarismo la minaccia di sanzioni e sequestri
Nella maggioranza di governo, in questi giorni le tensioni interne si sono stemperate in dichiarazioni di facciata. Il neo-ministro delle infrastrutture Matteo Salvini, di fronte al fallimento della sua tesi difensiva nel processo di Palermo, la competenza ad indicare il POS a carico dello Stato di bandiera della nave soccorritrice, la cui violazione si tradurrebbe anche in un comportamento illecito delle ONG, si affida ad una dchiarazione che non dice nulla :”Sono orgoglioso di quello che il governo sta facendo in sede europea, visto che sono ripresi i collocamenti che erano fermi da troppo tempo. Sono orgoglioso di quello che sta facendo il ministro Piantedosi”. Ma Salvini riesce a comprendere che l’Unione Europea ha respinto tutte le più recenti proposte italiane, dalla Direttiva Piantedosi all’ennesimo accordo con i paesi del sud Europa (Malta, Cipro e Grecia) che la Spagna non ha voluto sottoscrivere?
il Viminale ha annunciato di essere “già al lavoro per presentare nuove norme per garantire la sicurezza delle frontiere e stroncare la tratta degli esseri umani che arricchisce gli scafisti e non solo. Dobbiamo arrivare a un sistema di ingressi regolari, nell’interesse degli stessi aventi diritto”.
E’ tuttavia sempre più difficile pensare ad “ingressi regolari”dalla Libia, paese nel quale non si riconosce la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, e si praticano torture ed estorsioni sistematiche ai danni dei migranti, con la complicità dei governi locali finanziati, per quanto riguarda il governo di Tripoli, dall’Italia e dall’Unione Europea. I corridoi umanitari, che molti utilizzano come alibi per le politiche di sbarramento, non possono essere l’unica risposta alla domanda di salvezza e di fuga che arriva dal frammentato territorio libico.Vanno bloccati accordi e finanziamenti che avvantaggiano gruppi armati e referenti politici che si contendono il territorio libico utilizzando come bersaglio di sfruttamento e di estorsione le persone migranti prive di un qualsasi titolo di soggiorno valido in Libia, una situazione che implica la detenzione amministrativa nei campi lager ed il rischio di respingimento o di espulsione verso paesi che non rispettano i diritti umani.
Gli accordi bilaterali intercorsi nel 2017,come il Memorandum d’intesa tra Italia e Libia del 2 febbraio 2017, e la istituzione di una fittizia zona SAR “libica”, e poi il Decreto sicurezza bis n.53 del 2019, ancora vigente, hanno costituito gli schermi formali dietro i quali si è nascosta la sostanziale delega delle attività di intercettazione in acque internazionali alle autorità libiche. La zona di ricerca e salvataggio SAR attribuita alla Libia nel 2018 si sta rivelando sempre di più come una zona di morte, Spetterebbe alle Nazioni Unite, che pure definiscono con l’UNHCR la Libia come un paese “non sicuro”, verso cui non devono essere effettuati respingimenti, intervenire sull’IMO (Organizzazione internazionale del mare) con sede a Londra, che pure risulta essere organizzazione delle stesse Nazioni Unite, per porre fine alla finzione della cosiddetta zona SAR (di ricerca e salvataggio) libica, di una Libia che non esiste come entità territoriale unica, con organi di governo centrale e con autorità marittime di coordinamento unificati. Non si può consentire che gli interventi della sedicente Guardia Costiera Libica, che altri definiscono di “salvataggio”, si concludano con vittime in mare e con la scomparsa dei naufraghi riportati a terra, non appena sbarcati in porto. Perché di fatto queste persone, ricondotte in Libia con modalità spesso violente, sono di nuovo cedute alle stesse milizie e alle stesse bande di trafficanti da cui sono fuggiti. E questo i governi europei non possono ignorarlo. Nel caso italiano i nostri servizi di informazione sono ben presenti in Libia da anni, avranno pur comunicato qualcosa alle autorità politiche da cui dipendono.
Le prime dichiarazioni rilasciate dall’equipaggio della Humanity 1 dopo lo sbarco dei naufraghi a Bari sono agghiaccianti e non riguardano soltanto i corpi martoriati delle persone che sono riusciti a portare in salvo ma ricordano anche la sorte di quelli che non sono riusciti a salvare perchè una motovedetta libica è arrivata prima ed ha operato l’ennesimo sequestro di persona camuffato da operazione di contrasto dell’immigrazione “illegale”. Secondo quanto dichiarato dal portavoce di Humanity 1, “negli ultimi giorni il nostro equipaggio ha nuovamente constatato nuovamente che persone in cerca di protezione sono state costrette in acqua, brutalmente picchiate a bordo (tra cui una donna incinta) o riportate illegalmente in #Libia. Chiediamo la fine immediata del sostegno dell’Ue alla cosiddetta Guardia costiera libica!”. Ed è questa la ragione principale per la quale le ONG devono essere spazzate via dal Mediterraneo centrale, perchè in troppe occasioni sono state testimoni scomodi delle intercettazioni violente operate dai guardiacoste libici,assistiti e finanziati dall’Italia e dall’Unione Europea.
4. Gli Stati nascondono le proprie responsabilità per gli accordi con paesi che non rispettano i diritti umani
Come ha dichiarato Matteo de Bellis, ricercatore presso Amnesty International, in una dichiarazione rilasciata a VICE News:“Gli europei non possono incaricare una nave di soccorso di sbarcare in Libia – è illegale – quindi hanno creato un sistema in base al quale gran parte del coordinamento dei respingimenti viene svolto dagli europei , con risorse europee, ma usando i libici come una cortina fumogena legale. È accettabile che gli stati dell’UE ingannino il diritto internazionale e rimandino le persone alla tortura senza essere responsabili? “
Le politiche di complicità con i trafficanti libici proseguono intanto senza neppure una parola per il rispetto dei diritti umani o per sollecitare l’arresto dei trafficanti che il governo di Tripoli lascia ancora liberi di trattare le persone come merce, da vendere al migliore offerente. Rimangono in vigore, anzi si vogliono inasprire, accordi bilaterali illegali, come rimangono illegali le modalità di respingimento collettivo “su delega” in acque internazionali e le condizioni disumane di internamento dei migranti riportati in Libia.
Per sostenere che dalla Libia arrivano “migranti economici”, e dunque per qualificare come attività di favoreggiamento dell’immigrazione “illegale” le attività delle ONG, I governi, con i media loro vicini, fanno scomparire le informazioni sui fatti reali che avvengono nel Mediterraneo e nelle regioni nordafricane. Non c’è più traccia dell’importante Dossier della Guardia costiera italiana, pubblicato nel 2018, che documentava le importanti attività di ricerca e soccorso effettuate in sinergia con le ONG dalle autorità italiane, dal 2014 al 2017, nel Mediterraneo centrale. I comunicati ufficiali dei ministeri, della Marina militare e della Guardia costiera, dettagliatissimi quando si riferisce del “fermo amministrativo” delle navi delle ONG, sono del tutto lacunosi quando si tratta di dichiarare cosa è successo nelle operazioni di ricerca e soccorso in alto mare, nelle acque internazionali.
Sembrano pure scomparsi dall’attenzione dei media e dalle scelte comunicative ed operative delle autorità di governo i numerosi rapporti informativi delle Nazioni Unite del Consiglio d’Europa e delle principali agenzie umanitarie che danno conferma dei legami che intercorrono tra i torturatori libici nel centri di detenzione e le unità delle milizie che controllano la sedicente Guardia costiera libica, sostenuta generosamente dale autorità italiane ed europee. Sembra che le uniche fonti internazionali che conviene richiamare siano i rapporti di Frontex, nei passaggi, magari poi smentiti, nei quali si allude al cd. Pull Facror (fattore di attrazione) esercitato dalle ONG, e di probabili collusioni degli operatori umanitari con scafisti e trafficanti.
Secondo un recente Rapporto di Esperti delle Nazioni Unite ““I civili in Libia, inclusi migranti e richiedenti asilo, continuano a subire violazioni del diritto internazionale umanitario diffuso e del diritto internazionale dei diritti umani e abusi dei diritti umani. I gruppi terroristici designati sono rimasti attivi in Libia, sebbene con attività ridotte. I loro atti di violenza continuano ad avere un effetto dirompente sulla stabilità e sulla sicurezza del Paese”. Come riporta l’agenzia NOVA, “Il rapporto finale del Gruppo di esperti sulla Libia ha cercato di fare luce sulla rete di contrabbando di carburante e di esseri umani nella città di Zawiya, dominata dalla cosiddetta Brigata al Nasr, una milizia che ancora oggi è ben presente nei luoghi da cui partono i barconi verso l’Europa anche per le robuste coperture che riceve dal governo di Tripoli, come ricompensa del contributo fornito alla difesa della capitale, quando il generale Haftar nel 2020 era quasi giunto ad occuparla.
5. La finzione della zona SAR libica per ritirare gli assetti di soccorso e criminalizzare le ONG
La zona di ricerca e salvataggio SAR attribuita alla Libia nel 2018, dopo la stipula del Memorandum d’intesa Gentiloni-Minniti del 2017 si sta rivelando sempre di più come una zona di morte, E spetterebbe alle Nazioni Unite, che pure definiscono con l’UNHCR la Libia come un paese “non sicuro”, verso cui non devono essere effettuati respingimenti, intervenire sull’IMO (Organizzazione internazionale del mare) con sede a Londra, che pure risulta essere organizzazione delle stesse Nazioni Unite, per porre fine alla finzione della cosiddetta zona SAR (di ricerca e salvataggio) libica, di una Libia che non esiste come entità territoriale unica, con organi di governo centrale e con autorità marittime di coordinamento unificati. Non si può consentire che gli interventi della sedicente Guardia Costiera Libica, che altri definiscono di “salvataggio”, si concludano con vittime in mare e con la scomparsa dei naufraghi non appena sbarcati in porto. Perché di fatto queste persone, ricondotte a terra con modalità spesso violente, sono di nuovo cedute alle stesse milizie e alle stesse bande di trafficanti da cui sono fuggiti. Come non si può ignorare che la Libia non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, né dà effettiva attuazione ad analoghi strumenti convenzionali previsti a livello regionale in Africa (OUA).
Il trasferimento delle responsabilità di coordinamento delle operazioni di ricerca e salvataggio ad un’altra autorità SAR, come avviene con la indicazione delle autorità libiche come responsabili degli interventi di “soccorso”, di fatto vere e e proprie intercettazioni, dovrebbe tenere conto delle esigenze di garantire comunque un intervento di salvataggio quanto più tempestivo possibile, e il rispetto del divieto di sbarco in un porto non sicuro. Altrimenti sarebbe molto semplice per gli stati liberarsi dei propri obblighi di ricerca e salvataggio a discapito delle persone che vanno soccorse in acque internazionali. Per questa ragione non è consentito ricorrere al consueto espediente di trasferire la responsabilità SAR sui guardiacoste libici coordinati da un centro “congiunto” (JRRC) che sembra dipendere dalle attività di tracciamento operate dagli europei o sulla Centrale di coordinamento (MRCC) del paese di bandiera della nave soccorritrice, distante magari migliaia di chilometri dall’area dei soccorsi. Se uno Stato riceve notizia di un evento di soccorso e non ci sono altre autorità che intervengono, non si può escludere che questo Stato eserciti un controllo effettivo sulla vita delle persone, e quindi che su questa attività di controllo deve esserci una giurisdizione ed un possibile giudizio di responsabilità. Deve essere in ogni caso rispettato il divieto di non respingimento affermato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Altrimenti si alimenterebbe solo la legge del più forte e si legittimerebbero tutte le pratiche di abbandono in mare. Che già hanno prodotto troppi morti e dispersi.
6, La giurisdizione extrateritoriale in acque internazionali degli Stati costieri.
La sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo, nel caso Hirsi deciso nel 2012, affermava la responsabilità dello Stato anche quando i suoi agenti operino al di fuori delle acque territoriali, quando le persone vittime dei respingimenti si trovino sotto “l’esclusivo controllo” di autorità riferibili allo stesso Stato. Quanto abbiamo rilevato in tema di ripartizione delle zone SAR e di sistemi elettronici di controllo delle frontiere ci permette di individuare precise responsabilità, prima esclusive e poi concorrenti, degli Stati che collaborano attivamente con la sedicente Guardia costiera “libica” al fine di intercettare in mare riportare a terra il maggior numero di persone in fuga dalla Libia. E quando parliamo di queste responsabilità facciamo riferimento alla commissione di crimini contro l’umanità, dei quali si sta già occupando il Tribunale Penale internazionale, o di altri reati perseguibili a livello nazionale. Per eludere queste responsabilità non sarà possibile trasformare gli eventi di soccorso in “attività migratorie illegali” e criminalizzare l’operato di quelle Organizzazioni non governative che sono rimaste le uniche possibilità di salvezza per chi intraprende la rotta del Mediterraneo centrale, la rotta migratoria pù pericolosa del mondo.
La Corte di Strasburgo ha ritenuto altresì, proprio a partire dal caso Hirsi, che “ gli Stati non possono aggirare gli obblighi della CEDU stipulando accordi con Stati terzi, ma al contrario, devono assicurarsi della compatibilità con la CEDU di tutti gli altri obblighi assunti per non esporsi al rischio di condanne per inadempimento da parte della Corte, in particolare rispetto ai divieti di respingimento derivanti dagli articoli 3 e 4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU“. Ad avviso della Corte, né il fatto che i migranti ‘respinti’ avessero mancato di richiedere espressamente asilo , né la natura delle operazioni che avevano determinato il pushback verso la Libia (salvataggio in mare o lotta contro il traffico di persone) (ivi, par. 134) possono esimere l’Italia dal garantire il rispetto del principio di non refoulement di cui all’art. 3 CEDU.
In considerazione dei sistemi integrati di controllo elettronico che sono stati attivati nel Mediterraneo centrale con il ricorso a mezzi aerei, con o senza equipaggio, si possono quindi profilare peculiari profili di responsabilità che derivano dalla giurisdizione europea e nazionale che va riconosciuta qualora le persone si trovino, sia pure temporaneamente sotto il controllo effettivo di autorità nazionali o europee. Non si può accettare una sospensione a tempo indeterminato di qualsiasi esercizio della giurisdizione delle persone che si trovano in acque internazionali. Ipotesi che potrebbe configurare anche una vera e propria omissione di soccorso.
E anche se le imbarcazioni cariche di migranti si trovano in quella che si pretende essere la zona SAR “libica”, se il controllo su di loro, anche in vista di successivi interventi della sedicente Guardia costiera libica, è esercitato da autorità italiane o di altri paesi europei, non si può escludere che le persone a bordo ricadano immediatamente sotto la giurisdizione di questi paesi anche se si trovano in acque internazionali. Non si può certo sostenere che le stesse autorità nazionali ignorino la sorte dei migranti trattenuti in Libia contro la loro volontà o quanto accade alle persone che sono intercettate in mare, spesso più un sequestro che un evento di soccorso, e riportate a terra.
7. Sovranità nazionale, competenza SAR e responsabilità degli Stati costieri
Si deve quindi affrontare il tema della responsabilità, non solo politiche, non solo di singoli stati europei, ma anche dei vertici delle operazioni di Frontex e quindi degli apparati politici, amministrativi e militari nazionali, quando tengono sotto controllo, attraverso sistemi elettronici imbarcazioni cariche di migranti che navigano in acque internazionali, nel tempo che precede la loro “presa in carico” da parte delle autorità libiche, se non il loro definitivo abbandono. Anche al fine di rilevare la eventuale giurisdizione europea o italiana, quando le persone che sono a bordo di queste imbarcazioni che sono ancora nella zona SAR libica, ma vengono monitorate da autorità europee, vengono segnalate alle motovedette libiche che dopo averle intercettate in acque internazionali le riconducono a terra. Con le gravissime conseguenze ( fino alla scomparsa) che ancora di recente vengono documentate da diversi rapporti internazionali. Di converso tutte le azioni di soccorso in mare si dovranno configurare come attività di ricerca e soccorso di persone che si trovano in un evidente stato di necessità non solo quando rimangono abbandonate in mare per giorni, ma già prima della loro fuga dalla Libia, che,in assenza di canali legali di evacuazione, piuttosto che una libera scelta, rimane l’unico spiraglio aperto per salvare la vita e sottrarsi alle violenze subite nei centri di detenzione, formali ed informali, controllati dalle milizie libiche, Come ammettono anche le Nazioni Unite, infatti, nessuno sa, o può garantire, cosa succede alle persone intercettate i mare e riportate con l’uso della forza a terra dalle motovedette libiche fornite ed assistite dalle autorità italiane ed europee
Il trasferimento delle responsabilità di coordinamento delle operazioni di ricerca e salvataggio ad un’altra autorità SAR, come avviene con la indicazione delle autorità libiche come responsabili degli interventi di “soccorso”, di fatto vere e e proprie intercettazioni, deve tenere conto delle esigenze di garantire comunque un intervento di salvataggio quanto più tempestivo possibile, e il rispetto del divieto di sbarco in un porto non sicuro. Altrimenti sarebbe molto semplice per gli stati liberarsi dei propri obblighi di ricerca e salvataggio a discapito delle persone che vanno soccorse in acque internazionali. Per questa ragione non sarebbe consentito trasferire la responsabilità SAR sui guardiacoste libici coordinati da un centro “congiunto” (JRRC) che sembra dipendere dalle attività di tracciamento operate dagli europei o sulla Centrale di coordinamento (MRCC) del paese di bandiera della nave soccorritrice, distante magari migliaia di chilometri dall’area dei soccorsi. Se uno Stato riceve notizia di un evento di soccorso e non ci sono altre autorità che intervengono, non si può escludere che questo Stato eserciti un controllo effettivo sulla vita delle persone, e quindi che su questa attività di controllo deve esserci una giurisdizione ed un possibile giudizio di responsabilità. deve essere in ogni caso rispettato il divieto di non respingimento affermato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Altrimenti si alimenterebbe solo la legge del più forte e si legittimerebbero tutte le pratiche di abbandono in mare. Che già hanno prodotto troppi morti e dispersi.
Anche nei confronti della Tunisia deve applicarsi il divieto di respingimento collettivo, previsto dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dal Quarto Protocollo allegato alla CEDU (art.4), tanto per i naufraghi che non siano cittadini tunisini, alla luce del trattamento giuridico e materiale che riceverebbero in caso di rientro forzato in Tunisia. Quanto per i cittadini tunisini che manifestino la loro vlontà di chiedere in Europa una qualche forma di protezione, come potrebbe verificarsi per questioni legate all’opposizione politica ad un governo che diventa sempre più autocratico, o per l’appartenenza ad un gruppo sociale che può essere oggetto di discriminazione. Questo principio vale in ogni caso, in mare, ed a terra, dopo lo sbarco, e dovrà essere seguita bene la situazione dei naufraghi soccorsi dalla mave ONG Louis Michel, sbarcati pochi giorni fa a Lampedusa, che il governo italiano qualifica giù come migranti economici. Qualcuno al Viminale vuole seguire le procedure sommarie di rimpatrio forzato adottate dal governo francese dopo lo sbarco dei naufraghi della Ocean Viking a Tolone, un mese fa. Lo stesso divieto di respingimenti collettivi vale anche nei confronti dei cittadini egiziani, che arrivano da un paese che non rispetta neppure i diritti umani dei suoi cittadini. Tanto che i tribunali italiani riconoscono il diritto alla protezione umanitaria (oggi “speciale”) a cittadini egiziani ai quali le Commissioni territoriali che operano a ridosso delle Prefetture hanno negato lo status di protezione.
8. La violazione del divieto di respingimenti collettivi su delega degli Stati europei
Alla fine, la questione più rilevante rimane quella dei respingimenti in Libia “delegate” alle motovedette della sedicente Guardia costiera libica, e dei nuovi gruppi GASC, formati dalle milizie delle diverse città libiche, che estendono il loro controllo fino alle acque antistanti I principali porti. snodo di traffici di petrolio, di armi e di esseri umani. Che valenza possono avere oggi le estese zone SAR attribuite a Malta o alle autorità tripoline? Nessuna autorità nazionale può pensare che, collaborando con la sedicente Guardia costiera libica, o non rispondendo alle richieste di soccorso o di designazione di un porto di sbarco sicuro, o negando l’ingresso nelle acque territoriali, ovvero bloccando arbitrariamente navi certificate da autorità straniere, si possa evitare di assumere una qualsiasi responsabilità sul piano internazionale, una responsabilità che potrebbe essere rilevante anche sul piano del diritto interno. La sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo, nel caso Hirsi deciso nel 2012, affermava la responsabilità dello Stato anche quando i suoi agenti operino al di fuori delle acque territoriali, quando le persone vittime dei respingimenti si trovino sotto “l’esclusivo controllo” di autorità riferibili allo stesso Stato. Quanto abbiamo rilevato in tema di ripartizione delle zone SAR e di sistemi elettronici di controllo delle frontiere ci permette di individuare precise responsabilità, prima esclusive e poi concorrenti, degli Stati che collaborano attivamente con la sedicente Guardia costiera “libica” al fine di intercettare in mare riportare a terra il maggior numero di persone in fuga dalla Libia. E quando parliamo di queste responsabilità facciamo riferimento alla commissione di crimini contro l’umanità, dei quali si sta già occupando il Tribunale Penale internazionale, o di altri reati perseguibili a livello nazionale. Per eludere queste responsabilità non sarà possibile trasformare gli eventi di soccorso in “attività migratorie illegali” e criminalizzare l’operato di quelle Organizzazioni non governative che sono rimaste le uniche possibilità di salvezza per chi intraprende la rotta del Mediterraneo centrale, la rotta migratoria pù pericolosa del mondo.
Dopo la esemplare condanna dell’Italia sul caso Hirsi si può affermare che ricorre una giurisdizione della Corte Europea dei diritti dell’Uomo nei casi in cui anche al di fuori delle frontiere nazionali, autorità statali abbiano il controllo esclusivo su persone che non si trovano soggette alla giurisdizione di altro stato. Come avviene nei confronti dei migranti che si trovano su imbarcazioni ubicate in acque internazionali dopo la segnalazione inviata alla centrale di coordinamento della Guardia costiera italiana. Quanto rilevato sopra sulla finzione della zona SAR libica e sulle modalità di intervento delle motovedette libiche assistite dall’Italia con la missione Nauras, indice a ritenere che tale responsabilità persista anche dopo l’intervento delle stesse motovedette. L’applicazione extraterritoriale della Convenzione EDU nel suo complesso è stata configurata rispetto all’esercizio di autorità statale sul territorio di un altro Stato (sentenze del 7 luglio 2011 nei casi Aiskeini e altri c. Regno Unito e Al-Jedda c. Regno Unito), ma altresì in alto mare, indipendentemente dal fatto che gli individui di cui si tratta siano a bordo della nave dello Stato accusato (decisione dell’11 gennaio 2001 nel caso Xhavara c. Italia e Albania, relativo alla vicenda della nave albanese Kates I Rades, affondata, con 54 persone a bordo, dopo essere stata speronata da una nave militare italiana, la Sibilla; (si veda anche la sentenza del 29 marzo 2010 Medvedyev e altri c. Francia ).
La Corte di Strasburgo ha ritenuto altresì, proprio a partire dal caso Hirsi, che “ gli Stati non possono aggirare gli obblighi della CEDU stipulando accordi con Stati terzi, ma al contrario, devono assicurarsi della compatibilità con la CEDU di tutti gli altri obblighi assunti per non esporsi al rischio di condanne per inadempimento da parte della Corte, in particolare rispetto ai divieti di respingimento derivanti dagli articoli 3 e 4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU“. Ad avviso della Corte, né il fatto che i migranti ‘respinti’ avessero mancato di richiedere espressamente asilo , né la natura delle operazioni che avevano determinato il pushback verso la Libia (salvataggio in mare o lotta contro il traffico di persone) (ivi, par. 134) possono esimere l’Italia dal garantire il rispetto del principio di non refoulement di cui all’art. 3 CEDU.
La Corte osserva poi, riguardo del divieto di respingimenti collettivi ,che “se l’art. 4 Prot. 4 si applicasse solo alle espulsioni dal territorio degli Stati parte alla Convenzione, una componente significativa degli attuali fenomeni migratori non ricadrebbe sotto l’ambito di applicazione della disposizione nonostante che le condotte che essa intende proibire si realizzino ugualmente fuori del territorio e in particolare, come nel caso di specie, in alto mare … l’art. 4 pertanto sarebbe privo di effettività in pratica con riguardo a tali situazioni sebbene esse siano in costante crescita”.
Nel caso S.S and Others/Italy ancora all’esame della CEDU, relativo al ruolo avuto dalle autorità italiane nel respingimento collettivo violento da parte di una motovedetta libica donata e assistita dal nostro paese che, il 6 novembre 2017, sopraggiunta durante un azione di soccorso in acque internazionali operata dalla ONG Sea Watch, sono intervenuti l’UNHCR e diverse associazioni umanitarie. Secondo il Consiglio europeo dei rifugiati e degli esiliati (ECRE) e l’Associazione internazionale dei giuristi(ICJ), “alla luce dell’obbligo di salvataggio e della giurisprudenza della Corte e di altri organismi nternazionali per i diritti umani, … ex art articolo 1 CEDU, gli Stati stabiliscono la giurisdizione in alto mare quando loro agenti esercitano l’autorità in modo prossimo e con effetti prevedibili sui diritti sanciti dalla Convenzione. Tale autorità è particolarmente manifesta quando il potere delle autorità di emettere le decisioni e agire con effettti extraterritoriali si basa su obblighi giuridici internazionali. Infine, un vincolo giurisdizionale è istituito ogni volta che l’autorità di uno Stato, per i poteri derivanti dal diritto internazionale – e, in alto mare, secondo il diritto internazionale del mare -, impartisce istruzioni ad un terzo attore con effetto extraterritoriale“. Secondo l’atto di intervento delle associazioni, “alla luce del diritto internazionale dei diritti umani, diritto dei rifugiati e diritto marittimo, le parti contraenti hanno l’obbligo di assicurarsi che il coordinatore della missione di ricerca e soccorso (nelle operazioni SAR) non trasferisca il coordinamento all’autorità di un altro Stato, a meno che siano soddisfatti che l’altro Stato assicurerà soccorso, cure e sbarco nel pieno rispetto dell’obbligo di non esporre una persona ad un rischio di grave violazione dei diritti umani” Circostanze che nel caso dei diversi territori in cui oggi rimane divisa la Libia sembra davvero di potere escludere. Sulla base di una ricca rassegna di fonti giurisprudenziali le associazioni intervenienti affermano “che uno Stato può favorire o assistere una condotta illecita quando fornisce finanziamenti, formazione o qualsiasi altro supporto materiale, separatamente o cumulativamente, ad un altro Stato. Ciò può verificarsi quando lo scopo è quello di rafforzare la capacità di intercettare imbarcazioni nel territorio e acque internazionali e il respingimento di persone che cercano di lasciare un paese, incluse persone bisognose di protezione internazionale. Questo è particolarmente grave quando vengono rimpatriate in un territorio in cui sono notoriamente a rischio di gravi violazioni dei diritti umani”
9. Le decisioni dei Tribunali italiani che accertano una diffusa situazione di abusi ai danni dei migranti in Libia e le responsabilità delle autorità nazionali che non ne tengano conto
Per il Tribunale di Trapani con una sentenza confermata dalla Corte di Cassazione il 16 dicembre 2021, dopo il ribaltamento in grado di appello. si può sostenere “inconfutabilmente che tutti i soggetti imbarcati sulla Vos Talassa – non solo i due soggetti identificati, ma anche tutti gli altri concorrenti del reato (..) – stavano vedendo violato il loro diritto ad essere condotti in un luogo sicuro e, specularmente, che l’ordine impartito dalle autorità libiche alla Vos Thalassa fosse palesemente contrario alla Convenzione di Amburgo”
Per lo stesso Tribunale, “Il più volte menzionato memorandum [ sottoscritto da Italia e Libia del 2 febbraio 2017 ndr] è un accordo che, pur avendo ad oggetto una materia rientrante tra quelle per cui l’articolo 80 della Costituzione prescrive la previa autorizzazione parlamentare alla ratifica, è stato concluso in forma semplificata, ovverosia con il solo consenso espresso dal presidente del Consiglio italiano e dal Capo del Governo libico di riconciliazione nazionale, senza previa autorizzazione del Parlamento“. In definitiva ““Se si riflette un momento sul fatto che i 67 migranti imbarcati sulla Vos Thalassa avevano subito prima della partenza dal territorio libico le disumane condizioni sopra rappresentate, appare evidente come il ritorno in quei territori costituisse per loro una lesione gravissima di tutte le prospettive dei fondamentali diritti umani”
Per il Tribunale di Messina (Sentenza 28 maggio 2020) proprio nelle zone dalle quali partono la maggior parte dei migranti, nella fascia costiera da Sabratha a Zawia, i centri di detenzione sarebbero sotto il controllo delle stesse milizie che operano a bordo delle motovedette donate dall’Italia, che arivano ad operare in acque internazionali grazie agli accordi stipulati con il nostro paese e la continua assistenza tecnica ed operativa fornita dalla Marina militare italiana (Operazione Nauras della Missione Mare Sicuro). Il Giudice dell’Udienza preliminare di Messina accerta come a Zawiya “operava (e opera) un’associazione criminale che quotidianamente e indisturbatamente sequestra migranti provenienti da tutto il continente africano e, dopo averli privati della libertà e sottoposti a violenze e torture, costringe i parenti a pagare un riscatto che consentirà il rilascio e la possibilità di imbarcarsi per l’Europa”..
Non possono ricorrere dubbi sul trattamento riservato a tutti i migranti trattenuti nei centri di detenzione in Libia, come conferma la Corte di Assise di Milano con sentenza ormai confermata anche dalla Corte di Cassazione, che ha condannato un somalo, carceriere dei campi di detenzione di Bani Walid e Sabrata, in Tripolitania, giunto in Italia confondendosi tra le sue stesse vittime, accusato di stupri, torture e almeno tredici omicidi. Al di là del caso individuale dalla sentenza milanese emerge un quadro terrificante del trattamento riservato ai migranti nei centri di detenzione in Libia, ed oggi che le condizioni disumane non sono sostanzialmente cambiate, è proprio in questi centri che vengono riportate le persone intercettate in acque internazionali dalla sedicente Guardia costiera libica.
L’’ordinanza della Corte di Cassazione numero 23355 del 24 agosto 2021 ha accolto il ricorso contro la decisione che negava il riconoscimento di uno status di protezione «…per non aver considerato che il richiamato art. 2 lett h) bis del D.Lgs. 25/2008 (nella formulazione introdotta dal D.Lgs. 142/15) definisce quali persone vulnerabili quelle per le quali è accertato che hanno subito torture o altre forme gravi di violenza (v. pure l’art. 17 del D.Lgs 25/2008)», e rilevando ulteriormente che «…il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari costituisce una misura atipica e residuale volta ad abbracciare situazioni in cui non può disporsi l’espulsione e deve provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in condizioni di vulnerabilità, da valutare caso per caso, anche considerando le violenze subite nel paese di transito e di temporanea permanenza del richiedente, potenzialmente idonee, quali eventi in grado di ingenerare un forte grado di traumaticità, ad incidere sulla condizione di vulnerabilità della persona (v. Cass. n. 13096 del 2019)».
10. Profili di responsabilità penale internazionale (e non solo)
Come osserva puntualmente Flavia Pacella, con riferimento agli accordi di cooperazione con le autorità libiche volti a contrastare l’immigrazione via mare, potrebbero profilarsi specifici profili di responsabilità delle autorità italiane di fronte al Tribunale penale internazionale, in seguito alla stipula di accordi bilaterali, come il Memorandum d’intesa del 2017, in quanto “la conclusione degli accordi in parola potrebbe astrattamente integrare, sia sotto il profilo dell’actus reus che della mens rea, la particolare forma di responsabilità dell’agevolazione materiale exart. 25(3)(c) dello Statuto di Roma. Con riferimento al riparto di giurisdizione tra l’Italia e la Corte, si è fornito un quadro generale, sebbene necessariamente parziale, dei possibili scenari e della conseguente prevalenza dell’una o dell’altra giurisdizione nei diversi casi.” Secondo la stessa studiosa, “ è opportuno sottolineare che la cooperazione con la Libia potrebbe configurare anche la responsabilità internazionale dello Stato italiano. Il diritto internazionale consuetudinario prevede due condizioni cumulative affinché uno Stato sia internazionalmente responsabile per l’assistenza fornita ad un altro Stato nella commissione di un illecito: (i) che lo Stato c.d. assistente agisca con la consapevolezza delle circostanze dell’atto illecito posto in essere dallo Stato c.d. assistito e (ii) che l’atto sia, in astratto, internazionalmente illecito anche se commesso dallo Stato c.d. assistente. Nel caso di specie, come autorevolmente sostenuto altrove, entrambi tali requisiti sembrano essere prima facie soddisfatti.”.
Quando arriva una chiamata di soccorso ad una autorità nazionale, o quando viene intercettato, attraverso sistemi di tracciamento elettronico, un barcone in acque internazionali, prima che siano avviate attività di ricerca e soccorso da parte delle autorità libiche, o di altri paesi, si può affermare che le persone che si trovano a bordo dell’imbarcazione siano comunque sottoposte ad una giurisdizione, europea o nazionale che sia, ed è quella di chi è a conoscenza della loro esistenza, del fatto che sono in una condizione di distress che impone soccorsi immediati, che dunque vanno attivati anche se gli Stati competenti (Libia o Malta) non danno risposte o reagiscono tardivamente. E anche se si trovano in quella che si pretende essere la zona SAR “libica”, se il coordinamento su di loro, anche in vista di successivi interventi della sedicente Guardia costiera libica, è esercitato da autorità italiane o di altri paesi europei, non si può escludere che ricadano immediatamente sotto la giurisdizione di questi paesi anche se si trovano in acque internazionali. Se in qualche caso non fossero riscontrabili profili di responsabilità esclusiva, non si può dunque escludere una precisa responsabilità per la complicità con le attività di intercettazione in mare da parte della sedicente Guardia costiera libica e per i successivi abusi subiti dai naufraghi dopo il loro rientro forzato in Libia.
(Foto di Medici senza Frontiere)
fonte.A-Dif.org