martedì 22 novembre 2022

LA SOVRANITÀ: PERMANENZA O RITORNO SPETTRALE?

 Giso Amendola -

 un’inchiesta sulla sovranità in Occidente 

Il nuovo libro di Dardot e  Laval - dice Amendola nella sua recensione -
 ha l'intento di provare a cogliere, da un lato, "la specificità della sovranità, del rapporto di potere politico, una specificità che lo rende irriducibile alle relazioni economiche"; e - dall’altro - "di problematizzare l’idea di una relazione semplicemente sovraordinata del Politico con l’Economico"      

1. La discussione sulla globalizzazione è debitrice, in larga parte, della geografia politica emersa nel mondo occidentale moderno. È la mappa di un mondo ordinato attorno agli stati sovrani, ai loro confini e alle loro relazioni. Il soggetto è lo stato sovrano, che occupa il monopolio della scena: le relazioni internazionali significative sono relazioni interstatuali. Il Nomos della terra di Carl Schmitt è il libro che ha dipinto questa scena con i colori più forti: quel mondo è stato, secondo Schmitt, il vero miracolo dei giuristi. Grazie allo stato e alla sua sovranità, si riusciva a tenere a bada la guerra civile, e allo stesso tempo, ad assicurare un corretto rapporto tra la politica e l’economia. La politica assicurava l’ordine e garantiva al mondo degli interessi economici una relativa indipendenza, offrendogli allo stesso tempo le proprie prestazioni in termini di produzione di ordine, di stabilità e di sicurezza. È un’immagine del mondo idealizzata e costruita su un evidente rimosso coloniale, che del resto proprio nel Nomos Schmitt lascia emergere esplicitamente, nominando le amity lines come confine tra questo nomos ordinato e le terre di conquista. È però l’immagine del mondo a partire dalla quale si è misurata in seguito la rottura prodotta dalla globalizzazione. In breve: l’Economico travolge il Politico con l’esaurirsi della centralità della forma stato. Di qui il problema di ritrovare un ordine possibile, che restauri il primato del Politico sull’Economico; o, al contrario, di proclamare l’estinzione del Politico insieme alla forma Stato, e di assumere l’ordine economico come ordine del mondo.

Il nuovo libro di Pierre Dardot e Christian Laval (Dominer. Enquête sur la souveraineté de l’État en Occident, Paris: 2020. La découverte) è un’inchiesta sulla sovranità in Occidente, che intende complicare questo schema. Da un lato, si tratta di cogliere la specificità della sovranità, del rapporto di potere politico, una specificità che lo rende irriducibile alle relazioni economiche; dall’latro, si tratta di problematizzare l’idea di una relazione semplicemente sovraordinata del Politico con l’Economico. La sovranità è rapporto di potere sulle persone, imperium, la vera e propria domination (in francese), la summa potestas; la relazione con le cose è invece sotto il segno del dominium, poi della proprietà (pp. 17-22). Logica dell’imperium e logica del dominium sono eterogenee, ed è questa eterogeneità che permette la loro articolazione. La sovranità statuale non ha mai dominato sull’economia: piuttosto, secondo le varie epoche, ne ha reso possibile lo sviluppo e le ha garantito protezione e stabilità. L’immagine di una sovranità statuale che faccia da contrappeso alla proprietà, di un imperium che comandi sul dominium è falsa: la logica della sovranità, proprio nella sua irriducibile specificità giuridico-politica, produce l’ordine politico necessario all’affermazione piena della logica del dominium.

La ricchissima ricerca storco-genealogica contenuta nel libro ha lo scopo di mostrare questa irriducibilità della logica dell’imperium al dominium, l’autonomia del principio di sovranità. Questa autonomia però non sfocia in una rivendicazione dell’autonomia del Politico, ma al contrario, in una contestazione radicale dell’autentica politicità della sovranità. La sovranità è un dispositivo teologico-giuridico di perfetta neutralizzazione della politica: e proprio per questo, può di volta in volta essere strumentale agli interessi economici. La critica della sovranità statuale permette invece di far emergere un principio politico di tutt’altra natura: una politica plurale, autonoma, “generativa”, alternativa alla logica della riduzione all’unità e della rappresentanza che animano la sovranità.

L’obiettivo polemico immeditato di questo discorso è il sovranismo, e in particolare il sovranismo leftist: tutte quelle forze politiche e culturali che hanno cercato nella riattivazione della sovranità statale uno strumento per combattere le politiche neoliberiste e arginare lo smantellamento delle protezioni sociali e la crescita delle diseguaglianze. La ricostruzione storica mostra come costruzione del capitalismo e accentramento nella sovranità non siano mai stati processi contraddittori: la macchina della sovranità è anzi servita ad assicurare le condizioni di possibilità dell’accumulazione capitalistica e a rimuovere di volta in volta gli ostacoli sociali e politici che la riproduzione di quelle condizioni incontra sulla propria strada. La strada del recupero “da sinistra” della sovranità è perciò sbarrata: lo Stato può rivestire in particolari contingenze storiche, come è stato per il welfare state nel Novecento, una funzione di programmazione economica e di limite alla proprietà, ma la logica della sovranità resta solidale allo sfruttamento della forza lavoro.

Non basta però insistere sulla complementarità tra sovranità e proprietà, sulla corrispondenza tra centralità dello Stato nel diritto pubblico e centralità della proprietà del diritto privato. La critica della presunta opposizione tra stato e proprietà aveva condotto, nella riflessione precedente di Dardot e Laval, all’individuazione del comune come principio politico autonomo e alternativo alla stessa distinzione tra pubblico e privato. In Dominer, l’analisi genealogica della sovranità non si limita a sottolineare la complementarità della logica del pubblico e di quella del privato, ma si presenta come critica dell’intera teologia giuridico-politica che in Occidente si costruisce intorno allo stato: la sovranità, nata da un’opera di centralizzazione precedente alla stessa formazione dello stato moderno, e rintracciabile già nella “rivoluzione papale” (p. 85) che dopo il Mille costruisce la Chiesa  come modello giuridico-politico, impone un inesorabile meccanismo di riduzione all’unità della pluralità delle forze e delle soggettività politiche. Dardot e Laval insistono su questa anima rappresentativa in senso forte della sovranità, su questa capacità di costruire l’unità del corpo politico. I “misteri dello Stato” non si dissolvono mai nella pluralità dei soggetti, e tantomeno nella molteplicità degli interessi. Insistono, come abbiamo visto, sulla complementarità tra logica della sovranità e logica della proprietà, tra stato e interessi.  Questa complementarità però non nasce da una strumentalità dello stato rispetto alla proprietà: la costruzione giuridica della sovranità non è né strumentale, né tantomeno sovrastrutturale rispetto alla struttura economica. La sovranità è davvero una costruzione giuridica autonoma, radicata nell’autonomia che il diritto e i giuristi sono stati capaci di costruire, transitando dalla Chiesa allo Stato e portandovi i misteri della trascendenza “rappresentativa” della “persona” del sovrano sulle particolarità e sulle differenze.

L’obiettivo del libro quindi è sicuramente il sovranismo e la tentazione di trovare nello stato il principio politico necessario per “dominare” sugli interessi. L’obiezione però che Dardot e Laval muovono ai sovranisti non è centrata sulla debolezza della sovranità rispetto agli interessi, o sulla sovrastrutturalità della costruzione giuridico-politica rispetto alla struttura economica. La specificità della posizione di Dardot e Laval è che, al contrario, è proprio la forza specifica e irriducibile della sovranità a costruire e riprodurre continuamente la supremazia degli interessi. Il sovranismo, in altri termini, non si illude sulla forza dello Stato: ma sbaglia a ritenere che la forza della sovranità sia utilizzabile per obiettivi di emancipazione e per difendere libertà e uguaglianza. Questa è anzi precisamente l’illusione in cui sono incorse tutte le lotte e le rivolte che, durante il lungo corso della modernità, hanno creduto di poter piegare e utilizzare lo Stato a fini rivoluzionari: la logica della sovranità chiude sempre ogni tentativo di trasformazione dello spazio politico, imponendo la ferrea logica dell’unità e della supremazia sopra e contro qualsiasi emersione della pluralità, di una libertà che non coincida con la proprietà, di un’eguaglianza che non si risolva in una livellatrice subordinazione al potere sovrano. In altre parole, dietro la polemica contro il sovranismo, l’obiettivo è l’intera tradizione statualistica moderna. Solo le tradizioni politiche pluraliste, associazioniste, mutualiste, che hanno resistito ai miti della centralizzazione statale, possono sconfiggere il ritorno sovranista: il problema, infatti, non è il sovranismo, ma la stessa sovranità. Criticare la sovranità, però, non significa individuare le ragioni della sua fragilità, o del suo superamento: al contrario, la critica autentica della sovranità deve fondarsi sulla consapevolezza della permanenza, della centralità e dell’irriducibilità della sovranità nell’esperienza politica moderna.

Questo nodo costituisce la specificità e, in fondo, il paradosso della posizione di Dardot e Laval: il loro rigorosissimo antisovranismo si fonda su un argomento teorico che concede, e, anzi, sostiene con forza quanto il pensiero giuridico-poltico della sovranità ha elaborato su se stesso: l’unità, l’unicità, l’irriducibilità della logica sovrana. La loro è un’opposizione alla, e non una decostruzione della sovranità. Di qui la forza, ma anche i problemi, della loro posizione.

2. Dietro la polemica con il sovranismo, emerge l’autentico obiettivo critico del libro: le posizioni di chi ha inteso la critica della sovranità come uno spiazzamento della sua centralità teorica, una decostruzione della sua pratica come della sua ideologia. Per Dardot e Laval, tutte le posizioni che hanno insistito sulla governamentalizzazione dello stato, sulla sua perdita di autonomia rispetto alla pluralità dei dispositivi di governo e alle configurazioni inedite del mercato globale, mancano la presa sul punto essenziale: la sovranità non solo non esce relativizzata dalla globalizzazione ma è uno dei meccanismi fondamentali che ha prodotto la globalizzazione stessa. L’errore teorico fondamentale consisterebbe nel non riconoscere la specificità della logica della sovranità, di aver risolto del tutto la sua verticalità nelle reti della governance globale. Al contrario, insistono in Dominer,  la logica della globalizzazione può essere compresa solo se si sottolinea il ruolo costitutivo che la sovranità statale ha rivestito nella stessa produzione del mercato globale. Dal punto di vista teorico, questa posizione è radicalmente differente da quelle che hanno criticato la sovranità giuridico-politica cercando di produrre una relativizzazione della sua pretesa di centralità. È significativa, e rende molto esplicito il senso teorico del libro, la decisa presa di distanza dalla critica foucaultiana, pur restando Foucault un riferimento per altri versi centrale nell’elaborazione della critica del neoliberalismo. Scrivono Dardot e Laval che, mentre la storicizzazione dello stato operata da Foucault è senz’altro un contributo fondamentale alla “critica delle critiche statualiste e giuridiche dello stato”, le conclusioni che Foucault stesso tira da quella storicizzazione sono molto discutibili. La critica foucaultiana è insomma utile in quanto critica della pretesa di gran parte della tradizione socialista e del “comunismo di Stato” del XX secolo di considerare lo stato un semplice “strumento” da conquistare e occupare per finalizzarlo a scopi rivoluzionari: questi critici hanno considerato lo Stato come un “trascendentale”  che ha attraversato tutto l’arco storico e la loro critica non poteva che finire in un “perfezionamento della macchina statuale”. Foucault, però, spinge la storicizzazione dello stato anche ad una relativizzazione dello stesso principio di sovranità, producendo così un “aggiramento” della questione (p. 698). Dal punto di vita storico, questo porterebbe Foucault ad un estremo restringimento della sovranità vera e propria, identificata con la sola sovranità feudale, mentre, paradossalmente, già la sovranità moderna rientrerebbe piuttosto nei regimi disciplinari prima, e governamentali poi. L’opportuna storicizzazione delle vicende dello stato scivolerebbe così verso un’evanescenza della stessa sovranità, che condurrebbe Foucault, dal punto di vista teorico, a favorire “la diagnosi della scomparsa contemporanea della sovranità statuale” (p. 268).

Questo è il punto centrale per Dardot e Laval: contestare le tesi contemporanee che leggono la globalizzazione come esaurimento o superamento integrale della sovranità statuale. La globalizzazione non è un processo lineare: non è un processo naturale, e neppure è un ideale normativo universale. In altri termini, non è uno spazio liscio. Dardot e Laval insistono molto opportunamente sugli elementi di eterogeneità, di pluralismo non ordinato e conflittuale che emergono all’interno dello spazio globale. Da questo punto di vista, si riconnettono a tutto quel campo di interpretazioni della globalizzazione ha evidenziato la molteplicità dei regimi di regolazione, delle linee di confine e dei flussi che costituiscono lo spazio globale. Solo a titolo di esempio, sono significativi i riferimenti all’idea di “assemblaggio”, come modalità di connessione di elementi eterogenei, statuali e non statuali, proposta da Saskia Sassen, che Dardot e Laval richiamano più volte. Rispetto a un’idea di globalizzazione come processo omogeneo, che era diventata egemone negli anni ’90, dopo la caduta del Muro, avanzando a colpi di “fine della storia”, Dardot e Laval richiamano a giusta ragione tutti gli elementi di complessità e di non linearità, a partire evidentemente dalla stessa persistenza del ruolo dello stato nella produzione stessa dei processi di globalizzazione.

Questa lettura è particolarmente utile per ritornare sulla definizione del neoliberalismo, e per problematizzare efficacemente le interpretazioni correnti. Il neoliberalismo non è affatto il contrario della logica statalistica, insistono Dardot e Laval: per questo l’idea dei populisti di utilizzare lo stato come argine al neoliberalismo è destinata a fallire. Il neoliberalismo piuttosto si serve dello stato nazionale per produrre le condizioni che rendono possibile l’equilibrio di mercato (pp. 667 e ss). Il mercato è presentato come ordine spontaneo soltanto nella costruzione ideologica del neoliberalismo: anzi, nella eterogenea famiglia neoliberale, non manca chi esplicitamente richiama il ruolo dello stato, specie per esempio quando si è trattato di invocare mano forte contro le lotte della classe operaia. La sottolineatura di questa complementarità tra statualismo e neoliberalismo ha oggi un evidente motivo di interesse in più, oltre a essere una buona base per la critica dell’illusione populista: può chiarire molti tratti di novità che oggi stanno trasformando il neoliberalismo stesso. Se infatti all’immagine classica della neogovernamentalità neoliberale corrispondeva un certo equilibrio tra controllo e libertà, ed era mantenuto uno spazio di autonomia per i soggetti, il liberalismo autoritario contemporaneo insiste su elementi di comando, di disciplina e di sorveglianza che sembrano potenzialmente fare a meno degli spazi di autonomia privata dei soggetti. La lettura di Dardot e Laval mostra come lo stato, lungi dal “deperire” o dallo svanire, acquisti un ruolo essenziale nell’imporre su uno specifico territorio le regole della concorrenza sovrananzionale, e aiuta senz’altro a costruire un’interpretazione del neoliberalismo contemporaneo più adeguata rispetto all’immagine tradizionale del neoliberalismo coincidente con un “perfetto” equilibrio governamentale tra governo e autonomia, tra controllo e libertà.

Nella loro interpretazione, però, questo permanente ruolo dello stato è giocato contro ogni ipotesi di governamentalizzazione dello stato stesso. O meglio: alla storicizzazione di ruoli e forme dello stato nazionale, corrisponde, nella loro posizione teorica, l’affermazione di una permanenza della logica della sovranità contro ogni ipotesi di una sua trasformazione governamentale. Ora: una cosa è sostenere la tesi secondo la quale la globalizzazione non coincide con la scomparsa dello stato, ma comporta una sua trasformazione. Altra cosa è negare che questa trasformazione coinvolga anche la logica della sovranità. Se è evidente che nessun processo di globalizzazione esaurisce la funzione dello stato nazionale, è altrettanto evidente che è difficile pensare ad una sorta di logica “permanente” che tenga distante la sovranità da ogni sua trasformazione e soprattutto da ogni sua funzionalizzazione alle altre logiche che convivono e interagiscono sempre più strettamente, nei processi globali, con la logica politico-giuridica della sovranità. Anzi proprio se si sottolinea la specificità storica del concetto di sovranità, e si prende sul serio la sua anima rappresentativa, la sua tensione alla costruzione dell’unità, l’astrazione specificamente giuridica che la costruisce come “corpo artificiale” non risolvibile nell’insieme degli individui e degli interessi, non si può nascondere la distanza che separa figura e funzione dei contemporanei stati nazionali dalla tradizione della sovranità giuridica. Lo stesso sovranismo  recupera il discorso ideologico sulla sovranità con una rabbia tanto più feroce, quanto più la presa effettiva della sovranità, la sua capacità giuridicamente ordinante, viene a mancare. Il rischio della posizione di Dardot e Laval è che, per indicare con maggior forza come “nemica” la logica statualista, si finisca alla fine per assolutizzarla. Si rivendica una sorta di “mistero dello stato” permanente persino nei processi di globalizzazione, finendo così per nascondere che questa sua apparente permanenza trasforma allo stesso tempo la sua anima sovrana in uno spettro. Tra la posizione per cui lo stato si esaurisce nei processi globali, e quella per cui lo stato permane nella sua autonomia e nella sua forza, se si aderisce ad una visione non lineare, plurale e composita dello spazio globale, sarebbe meglio accettare, più sobriamente, una visione della permanenza dello stato come un dispositivo modificato e molto lontano dall’autonomia della sovranità classica.

Un discorso sul ruolo – di certo non liquefatto, ma ben presente dello stato, in questi processi di globalizzazione – richiede, al contrario, a nostro avviso, una critica al principio di sovranità: sia come aspirazione normativa che come strumento descrittivo del ruolo e della funzione dello stato. Se per Dardot e Laval, lo stato è sempre sovrano, e il neoliberalismo stesso si costruisce in fondo come prodotto della forza politica degli stati sovrani, proprio questa permanenza del principio di sovranità andrebbe rovesciata, sia per conquistare una più disincantata visione dello stato, sia per aprire in modo più articolato la questione politica del rapporto tra forze trasformative, movimenti sociali, soggettività e stato. L’invito di Dardot e Laval a liberare le forze impegnate in processi di trasformazione e nell’opposizione al neoliberalismo dal feticismo della lunga tradizione statualistica è senza dubbio prezioso: ma rompere il “feticismo” dello stato significa appunto non rimanere all’interno della sua modalità giuridica di rappresentazione, semplicemente ribaltandola, ma relativizzarlo, scomporlo, come del resto i processi storici di globalizzazione lo scompongono per riassemblarlo continuamente in altra forma. Il problema, come mostra per esempio l’esperienza del populismo sudamericano e del suo rapporto con i movimenti sociali, non sta più nella invincibile forza della reductio ad unum sovrana nei confronti della pluralità delle espressioni del principio politico del “comune”: non è la forza “totalizzante” dello stato ad aver schiacciato i movimenti. Ma, al contrario, è la sua debolezza, la sua funzionalizzazione alle diverse forme dell’accumulazione capitalistica, la sua incapacità di fare fronte ai processi di finanziarizzazione globale, ad aver condannato alla sconfitta, e a volte alla corruzione rabbiosa e repressiva, gli esperimenti populisti di “riappropriazione” dello stato. Lo stato si è mostrato non riappropriabile dal basso – l’antica illusione stalinista di fare dello stato borghese uno stato socialista semplicemente impadronendosene , illusione che Dardot e Laval fanno benissimo a contestare lungo tutto il libro – non perché schiacci il “basso” con la sua logica verticale ed omologante, ma perché è ormai ben poco utilizzabile come strumento di opposizione all’accumulazione finanziaria. Non perché è “troppo” sovrano, ma perché non lo è affatto. Non perché il suo artificio imponga la sua logica rappresentativa sulla pluralità, ma perché la logica della rappresentanza politica si mostra precisamente incapace della reductio ad unum cui aspirerebbe la sua pretesa sovranità, e finisce per essere deformata dalla sua funzionalizzazione alla logica della produzione.

3. La contestazione alla sovranità di Dardot e Laval, nascondendone l’avvenuta funzionalizzazione alla logica dell’accumulazione capitalistica e riaffemandone un’astratta separatezza rispetto alle logiche governamentali, finisce in sintesi per riaffermare lo schema classico della modernità, pur aspirando a rovesciarlo: quello per cui la sfera del politico-giuridico afferma una sua reale “trascendenza” sull’economico, non semplicemente una pretesa ideologica di autonomia e di superiorità. Questa separazione resta fondativa in tutto Dominer, che appunto rivendica la non “risolvibilità” dei “misteri dello stato” nel governo dell’economia. Il punto è che è proprio questa l’origine del “feticismo”, la separazione tra l’artificio giuridico e i suoi soggetti, le sue persone “rappresentative” e il tessuto relazionale e cooperativo che costituisce la produzione. Ci sono molte belle pagine in Dominer che ricostruiscono i diversi momenti nella storia di insorgenza di una politica della produzione (e di donne e uomini in quanto forza-lavoro, potenza produttiva) contro il feticcio “sovrano” (pp. 493 e ss.). Al puntuale cedimento delle forze rivoluzionarie alla logica “sovrana”, Dardot e Laval sembrano rispondere con la riaffermazione della forza di un principio politico autonomo rispetto alla produzione: solo un principio politico del “comune” autonomo rispetto alla logica economicistica della produzione potrebbe “salvare” le rivoluzioni dal cadere preda della paranoia statalista e dalla riduzione all’unità imposta dal meccanismo sovrano. Ma in questo modo, lo schema moderno della politica come differenza assoluta autonomia astratta dalla produzione è riaffermato. Proprio i nuovi assemblaggi tra logiche del valore e logiche del comando, tra stato e capitale che si aprono nei processi plurali e instabili della globalizzazione ci permettono invece sperimentazioni che si muovano davvero oltre il feticismo: non solo il feticismo dello stato, già abbondantemente indebolito, ma il feticismo moderno di una Politica astrattamente separata dalle modalità e dalle forme della produzione. Una politica della produzione (e forme organizzative e istituzionali che rispondano alle nuove modalità attraverso le quali forme di vita e dispositivi di produzione si intrecciano) può tracciare istituzioni “oltre lo stato”, assumendo realisticamente non l’imperturbabile costanza della sua sovranità, ma la sua radicale trasformazione fuori dai feticci della politica “pura”.

fonte: euronomade.info/