Antonio Minaldi PER LA RICOSTRUZIONE ECOLOGICA E SOCIALE
Più di 100 economisti hanno rivolto un appello alla BCE, proponendo all’istituto di Francoforte la cancellazione dei debiti sovrani vantati nei confronti degli stati membri-UE. Nella considerazione che Il 25% di questo è sostanzialmente un indebitamento pubblico degli Stati contratto con se stessi (ovvero con i propri cittadini), allo scopo di “facilitare la ricostruzione sociale ed ambientale post-pandemia”, potrebbe essere economicamente sostenibile l’ipotesi dell’estinzione del debito, rendendo così disponibili risorse aggiuntive per una
L’INGANNO DEL DEBITO PUBBLICO
Ha
avuto una certa risonanza (ma non quanto meritava) la notizia dell’appello di
100 economisti europei sulla proposta di cancellare quella parte del debito
pubblico dei paesi UE attualmente in possesso della BCE. L’iniziativa è nata in
Francia e ha coinvolto parecchi studiosi (tra i quali il più noto è T. Piketty)
soprattutto in Italia e in Spagna, ma non soltanto.
La
banca Centrale Europea, in gran parte tramite le banche nazionali, detiene
attualmente, grazie agli acquisti sul mercato secondario previsti dai programmi
di Quantitative Easing, circa il 25%
del debito pubblico complessivo dei paesi europei. Si tratta in sostanza di
2500 miliardi di cui circa 550 riguardano titoli italiani. La proposta sarebbe
quella di una cancellazione secca o di una trasformazione in titoli senza
scadenza e ad interessi zero, che in pratica è la stessa cosa. Le cifre così
ricavate andrebbero poi reinvestite dai singoli Stati per fare fronte alla
attuale emergenza pandemica. L’idea che anima la proposta è quella che gli
attuali 750 miliardi previsti dal Recovery
Fund sono del tutto insufficienti. Basti pensare a questo proposito al
piano da 2000 miliardi di dollari previsto dall’amministrazione Biden anche
alla proposta di interventi, anch’essa di 2000 miliardi (ovviamente di Euro),
fatta dal parlamento europeo.
La
proposta non ha di fatto nessuna possibilità di essere approvata perché (si
dice) in contrasto con i trattati europei, come se questi non potessero essere
cambiati. Argomentazione come si vede puramente formale dietro la quale si
nascondono le convinzioni dei paesi nordici e soprattutto gli interessi
economici e di potere della Germania. Ma l’ipotesi avanzata è assolutamente
corretta ed è da sostenere, e soprattutto da pubblicizzare, non fosse altro per
quello strano effetto che a ben rifletterci potrebbe fare il sapere che un
quarto del debito pubblico, col quale da mattina a sera siamo avviliti e
ricattati, noi europei ce lo abbiamo con noi stessi (sic!). Inevitabile effetto straniamento, se è vero che la banca
centrale in teoria dovrebbe essere (ma in realtà non è) uno strumento che ci
appartiene, creato per servirci e migliorare il benessere di tutti noi.
Gli
estensori del documento hanno cercato in tutti i modi di mantenere toni e
contenuti che apparissero il più possibile moderati e concilianti. Viene ad
esempio sottolineato con chiarezza che la proposta ha un carattere di assoluta
eccezionalità. Noi tuttavia possiamo legittimamente chiederci cosa impedisce
che certe misure, che sono tecnicamente possibili e sostanzialmente non
controproducenti in particolari periodi di difficoltà, non possano poi essere
praticate anche in condizioni di normalità.
La
monetizzazione del debito è una possibilità che tecnicamente è sempre data. In
teoria nulla osta che la BCE, producendo denaro, possa continuare ad acquistare
obbligazioni pubbliche, magari anche sul mercato primario direttamente dagli
Stati che le emettono, esattamente come avviene per esempio negli Stati Uniti,
nel Giappone, nel regno Unito ecc. Ma c’è di più! Come viene affermato per
esempio dagli economisti neokeynesiani americani appartenenti alla scuola della
ModernMonetaryTheory (si veda a proposito S. Kelton “Il mito del
deficit” 2020) la possibilità di stampare denaro da parte di chi detiene la
sovranità monetaria è in teoria illimitata. C’è una differenza fondamentale tra
chi emette valuta, lo Stato o la sua banca centrale, e chi utilizza valuta come
le famiglie o le imprese. Tra chi cioè può decidere come, quando e quanto
spendere e chi non può farlo non potendo disporre di denaro a proprio
piacimento.
Tutto
questo non significa certo che detenere la sovranità monetaria significhi
potere stampare tutto il denaro che si vuole senza subirne alcuna conseguenza.
Tutti sanno che la contrindicazione più grave all’eccesso di liquidità è il
prodursi dell’inflazione, che nelle situazioni più gravi può trasformarsi in
iper-inflazione. Più in generale bisogna considerare che vi sono una serie di
limiti e condizioni dell’economia reale che possono essere magari positivamente
condizionati, ma non miracolosamente cancellati dalla capacità di produrre
moneta.
Senza
entrare al momento nello specifico dei caratteri e delle condizioni delle
scelte di politica monetaria, quello che ci preme sottolineare in senso
generale e in prima battuta, è che queste scelte, qualunque esse siano, sono
scelte essenzialmente politiche e che spettano dunque alla politica! Nessuna
scelta in questo ambito dovrebbe essere demandata ai “tecnici” col pretesto
delle leggi inderogabili dell’economia e della economia del debito in
particolare. Bisogna riaffermare il primato della politica sull’economia,
perché ogni scelta di finanza pubblica mette in gioco questioni come i diritti
sociali e i servizi pubblici, le politiche di welfare e la politica
commerciale, e più in generale i modi di distribuzione della ricchezza. Porre
limiti alle scelte politiche attraverso l’imposizione di regole restrittive
come avviene nell’Unione Europea, o continuare ad affermare la menzogna della
autonomia delle banche centrali dai governi e dagli Stati, ha lo scopo di
mettere un (finto) bavaglio preventivo all’iniziativa politica in modo da poter
giustificare qualunque scelta (o non scelta) come qualcosa che non poteva che
essere così come è stata malgrado la (presunta e non vera) buona volontà dei
governanti. Precisiamo infine che questo nostro affermare il primato della
politica ha ovviamente un valore generale e di principio, e va dunque
considerato del tutto a prescindere dalla qualità delle élite politiche e
governative, che in genere sono anzi parte del meccanismo e del tutto
prigioniere, o peggio asservite, alla logica dei rapporti di potere globali e
agli interessi della finanza internazionale.
Ribadiamo,
per essere chiari, che il debito pubblico non esiste! O meglio: Esiste perché
si vuole che esista come arma di ricatto. Esistono ovviamente limiti reali e
sostanziali all’emissione di moneta la cui considerazione ricade nella
responsabilità della politica, ma come abbiamo detto non esistono limiti
formali, o per meglio dire esistono solo in quanto fittizi e ingannevoli.
In
sintesi il nostro modello ideale funziona così: Il governo di uno Stato dotato
di sovranità monetaria dovrebbe semplicemente decidere, in sede di definizione
del bilancio, l’eventuale spesa in deficit a partire dalle proprie convinzioni
politiche generali e dalle proprie scelte programmatiche e tenendo conto di
tutti i rischi connessi con un possibile eccesso (o più raramente “difetto”) di
spesa, e a questo punto chiedere, o meglio: ordinare, alla propria banca
centrale tutta la moneta necessaria, anche senza l’emissione di alcuna
obbligazione.
A
questo punto sarà necessario entrare nello specifico delle possibili criticità
che si pongono come limiti oggettivi alle scelte di spesa e di finanza
pubblica. Una questione è universalmente nota e la abbiamo già accennata e
riguarda la possibile crescita incontrollata dell’inflazione. La seconda
questione, a mio avviso altrettanto importante e in certe circostanze
addirittura ancora più problematica e che invece mi pare ampiamente
sottovalutata, riguarda quella che definirei come il problema del “valore reale
di ogni specifica moneta nei mercati internazionali” e che in genere ha a che
fare con forme di svalutazione monetaria. Su queste due questioni occorre
approfondire il discorso.
IL PANICO DA INFLAZIONE
Abbiamo già detto che l’inflazione può essere un problema reale di cui occorre tenere conto nelle scelte di spesa pubblica e di politica monetaria, ma per comprendere la questione occorre fare alcune importanti precisazioni.
Va
detto innanzitutto che il possibile nesso tra spesa pubblica e crescita dei
prezzi riguarda esclusivamente la possibilità di inflazione da eccesso di
liquidità e non quella prodotta da un aumento dei costi di produzione, come
avvenne per esempio negli anni settanta con la crisi petrolifera che fu
verosimilmente non l’unico, ma certo uno dei fattori scatenanti che produsse
quella spirale incontrollata dei prezzi che fece da buon viatico all’affermarsi
delle politiche neo liberiste di R. Reagan negli Stati Uniti e di M. Thatcher
nel Regno Unito.
La
spesa pubblica in deficit in effetti genera un aumento della disponibilità di moneta, che può tuttavia
produrre un effetto positivo di stimolo nei confronti della produzione
industriale e delle transazioni commerciali grazie alla crescita della domanda
aggregata. E’ solo quando si va oltre questo effetto positivo che si può
produrre un rialzo dei tassi d’inflazione legato ad un eccesso di liquidità. Si
tenga conto tuttavia, e in via ipotetica, che la situazione può essere ancora
controllata attraverso un drenaggio di moneta circolante legato alle scelte e
ai meccanismi del prelievo fiscale o tramite un aumento della propensione al
risparmio.
Altra
considerazione fondamentale: Come abbiamo visto il nesso che può sussistere, in
determinati casi limite, tra spesa pubblica e indice dei prezzi dipende dalla
entità del deficit di bilancio prodotto che corrisponde in linea di massima ad
un incremento di liquidità. Tutto questo ha a che fare con la grandezza
dell’entità della spesa e non con i modi con cui si fa fronte al disavanzo di
cassa. Detto altrimenti: La maggiore liquidità e i connessi (eventuali) rischi
d’inflazione sono prodotti da quanta moneta lo Stato mette in circolazione
attraverso le sue scelte di spesa, ma sono al contempo del tutto indifferenti
al fatto che le uscite siano finanziate con una moneta a debito (producendo
cioè debito pubblico) oppure semplicemente “stampando” moneta.
Le
logiche di politica neo liberale e neo liberista ignorano volutamente queste considerazioni
sul valore propulsivo (e spesso non inflattivo) della spesa pubblica e sul “mito
del deficit” che vuole demonizzala, e tendono a considerare in maniera oltre
modo esagerata i rischi d’inflazione legati agli interventi statali.
Enfatizzare
i rischi legati all’aumento dei prezzi è innanzitutto possibile grazie ad un
paradosso che riguarda la natura stessa del problema. Tutti infatti convengono
sul fatto che un certo livello “minimo” d’inflazione non solo non è pericoloso,
ma è anzi auspicabile e necessario. Una inflazione pari a zero, e cioè una
stabilità assoluta dei prezzi, è considerata già una forma di deflazione, e
dunque una condizione fortemente recessiva.
È
proprio sulla misura di questo minimo che si scontrano le varie scuole di
economisti. Per i neo liberisti, sia per la scuola ordoliberista europea che
per gli americani della “scuola di Chicago” (con alcune differenze
probabilmente legate al ruolo dominante del Dollaro sul mercato globale)
l’inflazione è una vera ossessione. Le politiche ordoliberiste hanno in particolare dominato le scelte
economiche della Germania sin dalla uscita dalla catastrofe della seconda
guerra mondiale e sono state poi imposte a tutta l’Europa con i trattati di
Maastricht, che prevedono uno stretto controllo dell’inflazione con livelli che
(di fatto) sono già considerati pericolosi se oscillano intorno al 2% su base
annua. Naturalmente si tratta di numeri del tutto discutibili e in qualche modo
“inventati”. Per le scuole di derivazione neo keynesiana per esempio livelli di
inflazione intorno al 5% sono considerati spesso come accettabili e plausibili.
La ragione sta probabilmente nel fatto che la logica dell’intervento pubblico
di origine keynesiana prevede che la spesa pubblica, anche in deficit, possa
crescere senza provocare tassi d’inflazione da considerare pericolosi, fino a
raggiungere l’obiettivo del pieno impiego di tutti i fattori produttivi, il che
si concretizza in pratica nelle politiche di piena occupazione. Al contrario per i neo liberisti l’equilibrio
dei fattori produttivi si ha solo a condizione di rispettare il cosiddetto
“tasso naturale di disoccupazione” prodotto dalla libertà assoluta di mercato
che va rispettata attraverso l’autonomia delle banche centrali il cui scopo
principale è il controllo dell’inflazione, e una azione di governo centrata sul
pareggio di bilancio e sulla riduzione della spesa pubblica a livelli minimi
(in genere con l’eccezione delle spese militari) e con
tendenziale azzeramento della spesa sociale.
In sostanza è come dire che la macchina di dominio del capitale funziona
solo attraverso la riproduzione delle ingiustizie sociali che essa stessa
produce, o come è stato detto efficacemente: si combatte l’inflazione con la
sofferenza umana.
Le
politiche neo liberiste fanno un largo uso al fine di legittimare queste loro
scelte, presumiamo altrimenti largamente impopolari, del “ricatto del debito
pubblico” e del “panico da inflazione”. Quest’ultimo consiste non solo
nell’agitare tutti i pericoli e le incertezze, più o meno reali, legate alla
instabilità dei prezzi, ma anche nel fare previsioni “tecniche” a breve e media
scadenza, ritengo sovente costruite ad
hoc, sull’imminente crescita dei prezzi. Cosa che molto spesso si verifica
puntualmente, non per l’accuratezza e la scientificità delle previsioni, ma per il semplice motivo
che il creare un clima d’attesa inflazionistica è il modo migliore per creare
inflazione, probabilmente perché l’incertezza sui prezzi al consumo scoraggia
la propensione al risparmio, ma anche per la tendenza dei soggetti dello
scambio a cautelarsi agendo “preventivamente” sui prezzi, provocando pure un
aumento dei costi di produzione, grazie al prodursi di un perverso effetto
domino.
Un’ultima
riflessione. Si dice spesso che l’inflazione sia una tassa occulta che ci tocca
pagare. Questo può essere anche vero. Ma se assumiamo per ipotesi che essa
possa essere provocata dalla spesa in deficit, e sempre rimanendo entro
l’ambito di un livello minimo di inflazione assunto come sostenibile e da non
superare, allora il problema non è solamente l’ammontare della spesa pubblica
ma anche la sua qualità, cose che infine dipendono dalle scelte politiche che
vengono fatte.
Per
intenderci: se si ritiene che l’intervento dello Stato debba essere
caratterizzato da una politica di tipo espansivo che renda al contempo
effettivi i diritti sociali attraverso lo sviluppo della qualità e della
efficienza delle infrastrutture e dei servizi pubblici nell’ambito della
sanità, dell’istruzione e della previdenza sociale, e nel sostegno ai più
fragili e bisognosi, in un’ottica che ha come finalità complessiva quella della
ridistribuzione verso il basso della ricchezza prodotta, allora livelli minimi
di inflazione (che ricordiamo secondo alcuni economisti possono arrivare anche
al 5% annuo) sono un prezzo del tutto accettabile. Fermo restando che se si
ritiene di volere controllare l’inflazione in modo ancora più stringente si
possono usare misure di politica fiscale aumentando la progressività delle
imposte o imponendo una patrimoniale per i redditi più alti.
Se al contrario si ritengono valide le ipotesi politiche di tipo neo liberista allora la libertà del mercato è sacra e diseguaglianze sociali e povertà diventano prezzi da pagare. In ogni caso è sempre una questione di scelte politiche di cui assumersi la responsabilità e mai una questione di leggi ferree dell’economia e della finanza a cui bisogna giocoforza piegarsi, come spesso in modo del tutto ingannevole viene detto.
SOVRANITÀ MONETARIA E MERCATO GLOBALE
Il discorso fino ad ora sviluppato va completato con ulteriori chiarimenti in mancanza dei quali se ne potrebbero trarre erroneamente delle conclusioni giustificative di una idea sovranista che per il nostro paese significherebbe uscire dall’euro e tornare alla lira. Non intendiamo in questa sede occuparci dei mali e delle consolidate posizioni di potere (leggi Germania) che affliggono e rendono precaria l’UE. Diciamo soltanto che la soluzione non è tornare al passato, e non soltanto per considerazioni generali e ideali di natura storica e politica (che ci appartengono ma che tralasciamo), ma anche perché nello specifico pensiamo che un ritorno alla sovranità monetaria non porterebbe particolari o decisivi vantaggi neppure in campo economico.
Le
questioni che riguardano la spesa pubblica in rapporto alla produzione di
moneta e al controllo dell’inflazione di cui ci siamo fino ad ora occupati,
mettono in gioco un ulteriore problema di cui è fondamentale tenere conto
nell’esercizio della sovranità monetaria. Ci riferiamo al valore e
all’effettiva capacità di scambio della moneta nazionale rispetto alle monete
concorrenti sul mercato globale. Problema impostato male nelle logiche
sovraniste e ampiamente sottovalutato anche dagli economisti della MMT (ModernMonetaryTheory) che pure hanno
avuto il merito di denunciare l’inganno del debito pubblico.
L’illusione
dei sostenitori del ritorno alla sovranità monetaria è quella che ogni
questione che riguarda il commercio internazionale si possa risolvere
attraverso la pratica della svalutazione competitiva della propria moneta, in
modo da abbassare i costi per gli acquirenti stranieri e favorire in tal modo
la costante crescita delle esportazioni, riaffermando vecchie logiche che vedono la ricchezza
fondata sull’avanzo della bilancia commerciale.
La
considerazione più immediata e banale che si può fare è che un ritorno alla
moneta nazionale, con contemporanea probabile morte dell’euro, creerebbe
verosimilmente un clima politico avvelenato di cui le politiche
protezionistiche e la guerra commerciale sarebbero inevitabili conseguenze
capaci di vanificare ogni velleità di penetrazione nei mercati internazionali.
Anche
se il disegno di valorizzazione del nostro export dovesse andare a buon fine,
bisogna considerare che per essere parte della ricchezza mondiale e dei suoi
circuiti di distribuzione bisogna necessariamente avere accesso alle merci ad
alto contenuto tecnologico e alto valore aggiunto, che sul mercato globale
vengono trattati attraverso l’uso di monete “pregiate” e segnatamente della
moneta dominante che ancora oggi è il dollaro.
Il
possesso di una moneta svalutata è esattamente quello che permette ai paesi
poveri, o relativamente poveri, del mondo di potere incrementare le
esportazioni vendendo a basso costo beni intermedi o materie prime, in modo da
potersi approvvigionare di quella moneta pregiata che da accesso ai beni più
preziosi. Ma il gioco è sempre in perdita: Più si svaluta più si esporta, ma
calando i prezzi la quantità di moneta preziosa che si ottiene è proporzionalmente sempre meno, mentre il gap
tecnologico continua a crescere e i prezzi dei beni di maggiore valore
diventano insostenibili.
In
fondo è qualcosa di molto simile al sistema del Gold Standard, solo che oggi le
transazioni sui mercati internazionali non si fanno più in relazione al valore
del metallo prezioso ma attraverso la moneta dominante o le poche monete di
elevato valore. La vera differenza è che mentre prima tutti i paesi erano in
competizione per accaparrarsi l’oro, anche se nella corsa i più facoltosi
partivano in grande vantaggio, oggi i più ricchi, possedendo il monopolio delle
monete che contano, sono solo in competizione tra loro (USA e Cina in primis), mentre tutti gli altri sono
in varia misura sempre più subordinati.
Qualcuno
potrebbe obiettare che l’Italia non è un paese povero. Si potrebbe rispondere
che non siamo neppure tra i più ricchi. Ma la vera questione è che una uscita
dall’euro produrrebbe comunque una forte svalutazione della nostra moneta (che
sia voluta e quindi competitiva o anche non voluta) con tutte le conseguenze
che abbiamo visto.
Per
dirla in soldoni: In una Italia tornata alla sovranità monetaria un lavoratore
di casa nostra viene pagato in lire (moneta meno pregiata) ma se vuole
acquistare l’ultimo modello di smarphone lo deve pagare in dollari, esattamente
come un lavoratore americano che tuttavia viene pagato in dollari (moneta
pregiata e dominante). Conclusione: se un lavoratore o cittadino americano paga
lo smartphone con il corrispettivo (diciamo per ipotesi) di un mese di
tempo-lavoro o tempo-vita, un lavoratore o cittadino italiano lo paga con due/tre
(sempre per ipotesi) mesi di tempo-lavoro o tempo-vita.
La
possibilità che ha il nostro paese di stare dentro le contradizioni di un’area
politica caratterizzata da una moneta forte, seppure in modo subordinato ma pur
sempre con la possibilità di pensare un possibile futuro cambiamento, non è
data ai paesi poveri del mondo che non hanno alcuna prospettiva immediata di
potere sottrarsi alla macchina del dominio globale del capitale, ammenoché non
si sia in grado di iniziare un percorso di cambiamento rivoluzionario degli
assetti complessivi di questo nostro mondo… ma questo è un altro discorso.
La prima parte del testo è stata pubblicata da PRESSENZA nell’articolo dell’8.4.2021 col titolo
"Perché cancellare i debiti sovrani in mano alla BCE?"