venerdì 9 aprile 2021

BCE, ANNULLI IL DEBITO!

 Antonio Minaldi  PER LA RICOSTRUZIONE ECOLOGICA E SOCIALE  

Più di 100 economisti hanno rivolto un appello alla BCE, proponendo all’istituto di Francoforte la cancellazione dei debiti sovrani vantati nei confronti degli stati membri-UE. Nella considerazione che Il 25% di questo è sostanzialmente un indebitamento pubblico degli Stati contratto con se stessi (ovvero con i propri cittadini), allo scopo di “facilitare la ricostruzione sociale ed ambientale post-pandemia”, potrebbe essere economicamente sostenibile l’ipotesi dell’estinzione del debito, rendendo così disponibili risorse aggiuntive per una

ricostruzione post-pandemica, soprattutto “in chiave ecologicamente sostenibile”, ma anche al fine di “riparare la frattura sociale, economica e culturale” causata dalla devastante crisi epidemiologica che ha messo in ginocchio l’intero sistema sanitario mondiale 
In sostanza, per i sottoscrittori dell’appello, è necessario varare un accordo interno alla governance multilivello europea, in cui la BCE "si impegnerà a cancellare il debito pubblico che detiene (o a trasformarlo in debito perpetuo senza interessi), mentre gli Stati si impegneranno a investire lo stesso importo 
nella ricostruzione ecologica e sociale". Certo immaginiamo, come già paventato dalla Lagarde, la sollevata di scudi delle burocrazie amministrative e finanziarie in difesa dell’inviolabilità dei trattati. Ma giustamente fanno rilevare i “100 economisti”: «Tutte le istituzioni finanziarie a livello mondiale possono deliberare una rinuncia ai loro crediti – e la Bce non fa eccezione – d’altro canto, il temine 'annullamento' non figura né nel trattato né nel protocollo sul sistema europeo delle banche centrali (Sebc)». Pertanto, all’obiezione che la cancellazione dei debiti sovrani potrebbe essere interpretata “come contraria allo spirito del trattato”, si domandano se quanto opposto all’ipotesi dell’annullamento potrebbe esser parimenti detto su “una misura oggi molto ben accettata come il Quantitative Easing voluto da Mario Draghi 
-nBbM-



L’INGANNO DEL DEBITO PUBBLICO 

Ha avuto una certa risonanza (ma non quanto meritava) la notizia dell’appello di 100 economisti europei sulla proposta di cancellare quella parte del debito pubblico dei paesi UE attualmente in possesso della BCE. L’iniziativa è nata in Francia e ha coinvolto parecchi studiosi (tra i quali il più noto è T. Piketty) soprattutto in Italia e in Spagna, ma non soltanto.

La banca Centrale Europea, in gran parte tramite le banche nazionali, detiene attualmente, grazie agli acquisti sul mercato secondario previsti dai programmi di Quantitative Easing, circa il 25% del debito pubblico complessivo dei paesi europei. Si tratta in sostanza di 2500 miliardi di cui circa 550 riguardano titoli italiani. La proposta sarebbe quella di una cancellazione secca o di una trasformazione in titoli senza scadenza e ad interessi zero, che in pratica è la stessa cosa. Le cifre così ricavate andrebbero poi reinvestite dai singoli Stati per fare fronte alla attuale emergenza pandemica. L’idea che anima la proposta è quella che gli attuali 750 miliardi previsti dal Recovery Fund sono del tutto insufficienti. Basti pensare a questo proposito al piano da 2000 miliardi di dollari previsto dall’amministrazione Biden anche alla proposta di interventi, anch’essa di 2000 miliardi (ovviamente di Euro), fatta dal parlamento europeo.

La proposta non ha di fatto nessuna possibilità di essere approvata perché (si dice) in contrasto con i trattati europei, come se questi non potessero essere cambiati. Argomentazione come si vede puramente formale dietro la quale si nascondono le convinzioni dei paesi nordici e soprattutto gli interessi economici e di potere della Germania. Ma l’ipotesi avanzata è assolutamente corretta ed è da sostenere, e soprattutto da pubblicizzare, non fosse altro per quello strano effetto che a ben rifletterci potrebbe fare il sapere che un quarto del debito pubblico, col quale da mattina a sera siamo avviliti e ricattati, noi europei ce lo abbiamo con noi stessi (sic!). Inevitabile effetto straniamento, se è vero che la banca centrale in teoria dovrebbe essere (ma in realtà non è) uno strumento che ci appartiene, creato per servirci e migliorare il benessere di tutti noi.

Gli estensori del documento hanno cercato in tutti i modi di mantenere toni e contenuti che apparissero il più possibile moderati e concilianti. Viene ad esempio sottolineato con chiarezza che la proposta ha un carattere di assoluta eccezionalità. Noi tuttavia possiamo legittimamente chiederci cosa impedisce che certe misure, che sono tecnicamente possibili e sostanzialmente non controproducenti in particolari periodi di difficoltà, non possano poi essere praticate anche in condizioni di normalità.

La monetizzazione del debito è una possibilità che tecnicamente è sempre data. In teoria nulla osta che la BCE, producendo denaro, possa continuare ad acquistare obbligazioni pubbliche, magari anche sul mercato primario direttamente dagli Stati che le emettono, esattamente come avviene per esempio negli Stati Uniti, nel Giappone, nel regno Unito ecc. Ma c’è di più! Come viene affermato per esempio dagli economisti neokeynesiani americani appartenenti alla scuola della ModernMonetaryTheory  (si veda a proposito S. Kelton “Il mito del deficit” 2020) la possibilità di stampare denaro da parte di chi detiene la sovranità monetaria è in teoria illimitata. C’è una differenza fondamentale tra chi emette valuta, lo Stato o la sua banca centrale, e chi utilizza valuta come le famiglie o le imprese. Tra chi cioè può decidere come, quando e quanto spendere e chi non può farlo non potendo disporre di denaro a proprio piacimento.

Tutto questo non significa certo che detenere la sovranità monetaria significhi potere stampare tutto il denaro che si vuole senza subirne alcuna conseguenza. Tutti sanno che la contrindicazione più grave all’eccesso di liquidità è il prodursi dell’inflazione, che nelle situazioni più gravi può trasformarsi in iper-inflazione. Più in generale bisogna considerare che vi sono una serie di limiti e condizioni dell’economia reale che possono essere magari positivamente condizionati, ma non miracolosamente cancellati dalla capacità di produrre moneta.

Senza entrare al momento nello specifico dei caratteri e delle condizioni delle scelte di politica monetaria, quello che ci preme sottolineare in senso generale e in prima battuta, è che queste scelte, qualunque esse siano, sono scelte essenzialmente politiche e che spettano dunque alla politica! Nessuna scelta in questo ambito dovrebbe essere demandata ai “tecnici” col pretesto delle leggi inderogabili dell’economia e della economia del debito in particolare. Bisogna riaffermare il primato della politica sull’economia, perché ogni scelta di finanza pubblica mette in gioco questioni come i diritti sociali e i servizi pubblici, le politiche di welfare e la politica commerciale, e più in generale i modi di distribuzione della ricchezza. Porre limiti alle scelte politiche attraverso l’imposizione di regole restrittive come avviene nell’Unione Europea, o continuare ad affermare la menzogna della autonomia delle banche centrali dai governi e dagli Stati, ha lo scopo di mettere un (finto) bavaglio preventivo all’iniziativa politica in modo da poter giustificare qualunque scelta (o non scelta) come qualcosa che non poteva che essere così come è stata malgrado la (presunta e non vera) buona volontà dei governanti. Precisiamo infine che questo nostro affermare il primato della politica ha ovviamente un valore generale e di principio, e va dunque considerato del tutto a prescindere dalla qualità delle élite politiche e governative, che in genere sono anzi parte del meccanismo e del tutto prigioniere, o peggio asservite, alla logica dei rapporti di potere globali e agli interessi della finanza internazionale.

Ribadiamo, per essere chiari, che il debito pubblico non esiste! O meglio: Esiste perché si vuole che esista come arma di ricatto. Esistono ovviamente limiti reali e sostanziali all’emissione di moneta la cui considerazione ricade nella responsabilità della politica, ma come abbiamo detto non esistono limiti formali, o per meglio dire esistono solo in quanto fittizi e ingannevoli.

In sintesi il nostro modello ideale funziona così: Il governo di uno Stato dotato di sovranità monetaria dovrebbe semplicemente decidere, in sede di definizione del bilancio, l’eventuale spesa in deficit a partire dalle proprie convinzioni politiche generali e dalle proprie scelte programmatiche e tenendo conto di tutti i rischi connessi con un possibile eccesso (o più raramente “difetto”) di spesa, e a questo punto chiedere, o meglio: ordinare, alla propria banca centrale tutta la moneta necessaria, anche senza l’emissione di alcuna obbligazione.

A questo punto sarà necessario entrare nello specifico delle possibili criticità che si pongono come limiti oggettivi alle scelte di spesa e di finanza pubblica. Una questione è universalmente nota e la abbiamo già accennata e riguarda la possibile crescita incontrollata dell’inflazione. La seconda questione, a mio avviso altrettanto importante e in certe circostanze addirittura ancora più problematica e che invece mi pare ampiamente sottovalutata, riguarda quella che definirei come il problema del “valore reale di ogni specifica moneta nei mercati internazionali” e che in genere ha a che fare con forme di svalutazione monetaria. Su queste due questioni occorre approfondire il discorso.

 

IL PANICO DA INFLAZIONE  

Abbiamo già detto che l’inflazione può essere un problema reale di cui occorre tenere conto nelle scelte di spesa pubblica e di politica monetaria, ma per comprendere la questione occorre fare alcune importanti precisazioni.

Va detto innanzitutto che il possibile nesso tra spesa pubblica e crescita dei prezzi riguarda esclusivamente la possibilità di inflazione da eccesso di liquidità e non quella prodotta da un aumento dei costi di produzione, come avvenne per esempio negli anni settanta con la crisi petrolifera che fu verosimilmente non l’unico, ma certo uno dei fattori scatenanti che produsse quella spirale incontrollata dei prezzi che fece da buon viatico all’affermarsi delle politiche neo liberiste di R. Reagan negli Stati Uniti e di M. Thatcher nel Regno Unito.

La spesa pubblica in deficit in effetti genera un aumento della  disponibilità di moneta, che può tuttavia produrre un effetto positivo di stimolo nei confronti della produzione industriale e delle transazioni commerciali grazie alla crescita della domanda aggregata. E’ solo quando si va oltre questo effetto positivo che si può produrre un rialzo dei tassi d’inflazione legato ad un eccesso di liquidità. Si tenga conto tuttavia, e in via ipotetica, che la situazione può essere ancora controllata attraverso un drenaggio di moneta circolante legato alle scelte e ai meccanismi del prelievo fiscale o tramite un aumento della propensione al risparmio.

Altra considerazione fondamentale: Come abbiamo visto il nesso che può sussistere, in determinati casi limite, tra spesa pubblica e indice dei prezzi dipende dalla entità del deficit di bilancio prodotto che corrisponde in linea di massima ad un incremento di liquidità. Tutto questo ha a che fare con la grandezza dell’entità della spesa e non con i modi con cui si fa fronte al disavanzo di cassa. Detto altrimenti: La maggiore liquidità e i connessi (eventuali) rischi d’inflazione sono prodotti da quanta moneta lo Stato mette in circolazione attraverso le sue scelte di spesa, ma sono al contempo del tutto indifferenti al fatto che le uscite siano finanziate con una moneta a debito (producendo cioè debito pubblico) oppure semplicemente “stampando” moneta.

Le logiche di politica neo liberale e neo liberista  ignorano volutamente queste considerazioni sul valore propulsivo (e spesso non inflattivo) della spesa pubblica e sul “mito del deficit” che vuole demonizzala, e tendono a considerare in maniera oltre modo esagerata i rischi d’inflazione legati agli interventi statali.

Enfatizzare i rischi legati all’aumento dei prezzi è innanzitutto possibile grazie ad un paradosso che riguarda la natura stessa del problema. Tutti infatti convengono sul fatto che un certo livello “minimo” d’inflazione non solo non è pericoloso, ma è anzi auspicabile e necessario. Una inflazione pari a zero, e cioè una stabilità assoluta dei prezzi, è considerata già una forma di deflazione, e dunque una condizione fortemente recessiva.

È proprio sulla misura di questo minimo che si scontrano le varie scuole di economisti. Per i neo liberisti, sia per la scuola ordoliberista europea che per gli americani della “scuola di Chicago” (con alcune differenze probabilmente legate al ruolo dominante del Dollaro sul mercato globale) l’inflazione è una vera ossessione. Le politiche ordoliberiste  hanno in particolare dominato le scelte economiche della Germania sin dalla uscita dalla catastrofe della seconda guerra mondiale e sono state poi imposte a tutta l’Europa con i trattati di Maastricht, che prevedono uno stretto controllo dell’inflazione con livelli che (di fatto) sono già considerati pericolosi se oscillano intorno al 2% su base annua. Naturalmente si tratta di numeri del tutto discutibili e in qualche modo “inventati”. Per le scuole di derivazione neo keynesiana per esempio livelli di inflazione intorno al 5% sono considerati spesso come accettabili e plausibili. La ragione sta probabilmente nel fatto che la logica dell’intervento pubblico di origine keynesiana prevede che la spesa pubblica, anche in deficit, possa crescere senza provocare tassi d’inflazione da considerare pericolosi, fino a raggiungere l’obiettivo del pieno impiego di tutti i fattori produttivi, il che si concretizza in pratica nelle politiche di piena occupazione.  Al contrario per i neo liberisti l’equilibrio dei fattori produttivi si ha solo a condizione di rispettare il cosiddetto “tasso naturale di disoccupazione” prodotto dalla libertà assoluta di mercato che va rispettata attraverso l’autonomia delle banche centrali il cui scopo principale è il controllo dell’inflazione, e una azione di governo centrata sul pareggio di bilancio e sulla riduzione della spesa pubblica a livelli minimi (in genere con l’eccezione delle spese militari) e con tendenziale azzeramento della spesa sociale.  In sostanza è come dire che la macchina di dominio del capitale funziona solo attraverso la riproduzione delle ingiustizie sociali che essa stessa produce, o come è stato detto efficacemente: si combatte l’inflazione con la sofferenza umana.

Le politiche neo liberiste fanno un largo uso al fine di legittimare queste loro scelte, presumiamo altrimenti largamente impopolari, del “ricatto del debito pubblico” e del “panico da inflazione”. Quest’ultimo consiste non solo nell’agitare tutti i pericoli e le incertezze, più o meno reali, legate alla instabilità dei prezzi, ma anche nel fare previsioni “tecniche” a breve e media scadenza, ritengo sovente costruite ad hoc, sull’imminente crescita dei prezzi. Cosa che molto spesso si verifica puntualmente, non per l’accuratezza e la scientificità  delle previsioni, ma per il semplice motivo che il creare un clima d’attesa inflazionistica è il modo migliore per creare inflazione, probabilmente perché l’incertezza sui prezzi al consumo scoraggia la propensione al risparmio, ma anche per la tendenza dei soggetti dello scambio a cautelarsi agendo “preventivamente” sui prezzi, provocando pure un aumento dei costi di produzione, grazie al prodursi di un perverso effetto domino.

Un’ultima riflessione. Si dice spesso che l’inflazione sia una tassa occulta che ci tocca pagare. Questo può essere anche vero. Ma se assumiamo per ipotesi che essa possa essere provocata dalla spesa in deficit, e sempre rimanendo entro l’ambito di un livello minimo di inflazione assunto come sostenibile e da non superare, allora il problema non è solamente l’ammontare della spesa pubblica ma anche la sua qualità, cose che infine dipendono dalle scelte politiche che vengono fatte.

Per intenderci: se si ritiene che l’intervento dello Stato debba essere caratterizzato da una politica di tipo espansivo che renda al contempo effettivi i diritti sociali attraverso lo sviluppo della qualità e della efficienza delle infrastrutture e dei servizi pubblici nell’ambito della sanità, dell’istruzione e della previdenza sociale, e nel sostegno ai più fragili e bisognosi, in un’ottica che ha come finalità complessiva quella della ridistribuzione verso il basso della ricchezza prodotta, allora livelli minimi di inflazione (che ricordiamo secondo alcuni economisti possono arrivare anche al 5% annuo) sono un prezzo del tutto accettabile. Fermo restando che se si ritiene di volere controllare l’inflazione in modo ancora più stringente si possono usare misure di politica fiscale aumentando la progressività delle imposte o imponendo una patrimoniale per i redditi più alti.

Se al contrario si ritengono valide le ipotesi politiche di tipo neo liberista allora la libertà del mercato è sacra e diseguaglianze sociali e povertà diventano prezzi da pagare. In ogni caso è sempre una questione di scelte politiche di cui assumersi la responsabilità e mai una questione di leggi ferree dell’economia e della finanza a cui bisogna giocoforza piegarsi, come spesso in modo del tutto ingannevole viene detto.

 

SOVRANITÀ MONETARIA E MERCATO GLOBALE

Il discorso fino ad ora sviluppato va completato con ulteriori chiarimenti in mancanza dei quali se ne potrebbero trarre erroneamente delle conclusioni giustificative di una idea sovranista che per il nostro paese significherebbe uscire dall’euro e tornare alla lira. Non intendiamo in questa sede occuparci dei mali e delle consolidate posizioni di potere (leggi Germania) che affliggono e rendono precaria l’UE. Diciamo soltanto che la soluzione non è tornare al passato, e non soltanto per considerazioni generali  e ideali di natura storica e politica (che ci appartengono ma che tralasciamo), ma anche perché nello specifico pensiamo che un ritorno alla sovranità monetaria non porterebbe particolari o decisivi vantaggi neppure in campo economico.

Le questioni che riguardano la spesa pubblica in rapporto alla produzione di moneta e al controllo dell’inflazione di cui ci siamo fino ad ora occupati, mettono in gioco un ulteriore problema di cui è fondamentale tenere conto nell’esercizio della sovranità monetaria. Ci riferiamo al valore e all’effettiva capacità di scambio della moneta nazionale rispetto alle monete concorrenti sul mercato globale. Problema impostato male nelle logiche sovraniste e ampiamente sottovalutato anche dagli economisti della MMT (ModernMonetaryTheory) che pure hanno avuto il merito di denunciare l’inganno del debito pubblico.

L’illusione dei sostenitori del ritorno alla sovranità monetaria è quella che ogni questione che riguarda il commercio internazionale si possa risolvere attraverso la pratica della svalutazione competitiva della propria moneta, in modo da abbassare i costi per gli acquirenti stranieri e favorire in tal modo la costante crescita delle esportazioni, riaffermando  vecchie logiche che vedono la ricchezza fondata sull’avanzo della bilancia commerciale.

La considerazione più immediata e banale che si può fare è che un ritorno alla moneta nazionale, con contemporanea probabile morte dell’euro, creerebbe verosimilmente un clima politico avvelenato di cui le politiche protezionistiche e la guerra commerciale sarebbero inevitabili conseguenze capaci di vanificare ogni velleità di penetrazione nei mercati internazionali.

Anche se il disegno di valorizzazione del nostro export dovesse andare a buon fine, bisogna considerare che per essere parte della ricchezza mondiale e dei suoi circuiti di distribuzione bisogna necessariamente avere accesso alle merci ad alto contenuto tecnologico e alto valore aggiunto, che sul mercato globale vengono trattati attraverso l’uso di monete “pregiate” e segnatamente della moneta dominante che ancora oggi è il dollaro.

Il possesso di una moneta svalutata è esattamente quello che permette ai paesi poveri, o relativamente poveri, del mondo di potere incrementare le esportazioni vendendo a basso costo beni intermedi o materie prime, in modo da potersi approvvigionare di quella moneta pregiata che da accesso ai beni più preziosi. Ma il gioco è sempre in perdita: Più si svaluta più si esporta, ma calando i prezzi la quantità di moneta preziosa che si ottiene è  proporzionalmente sempre meno, mentre il gap tecnologico continua a crescere e i prezzi dei beni di maggiore valore diventano insostenibili.

In fondo è qualcosa di molto simile al sistema del Gold Standard, solo che oggi le transazioni sui mercati internazionali non si fanno più in relazione al valore del metallo prezioso ma attraverso la moneta dominante o le poche monete di elevato valore. La vera differenza è che mentre prima tutti i paesi erano in competizione per accaparrarsi l’oro, anche se nella corsa i più facoltosi partivano in grande vantaggio, oggi i più ricchi, possedendo il monopolio delle monete che contano, sono solo in competizione tra loro (USA e Cina in primis), mentre tutti gli altri sono in varia misura sempre più subordinati.

Qualcuno potrebbe obiettare che l’Italia non è un paese povero. Si potrebbe rispondere che non siamo neppure tra i più ricchi. Ma la vera questione è che una uscita dall’euro produrrebbe comunque una forte svalutazione della nostra moneta (che sia voluta e quindi competitiva o anche non voluta) con tutte le conseguenze che abbiamo visto.

Per dirla in soldoni: In una Italia tornata alla sovranità monetaria un lavoratore di casa nostra viene pagato in lire (moneta meno pregiata) ma se vuole acquistare l’ultimo modello di smarphone lo deve pagare in dollari, esattamente come un lavoratore americano che tuttavia viene pagato in dollari (moneta pregiata e dominante). Conclusione: se un lavoratore o cittadino americano paga lo smartphone con il corrispettivo (diciamo per ipotesi) di un mese di tempo-lavoro o tempo-vita, un lavoratore o cittadino italiano lo paga con due/tre (sempre per ipotesi) mesi di tempo-lavoro o tempo-vita.

La possibilità che ha il nostro paese di stare dentro le contradizioni di un’area politica caratterizzata da una moneta forte, seppure in modo subordinato ma pur sempre con la possibilità di pensare un possibile futuro cambiamento, non è data ai paesi poveri del mondo che non hanno alcuna prospettiva immediata di potere sottrarsi alla macchina del dominio globale del capitale, ammenoché non si sia in grado di iniziare un percorso di cambiamento rivoluzionario degli assetti complessivi di questo nostro mondo… ma questo è un altro discorso.


La prima parte del testo è stata pubblicata da PRESSENZA nell’articolo dell’8.4.2021 col titolo 

"Perché cancellare i debiti sovrani in mano alla BCE?"