mercoledì 24 marzo 2021

SULL’INDIGESTIONE DEGLI STUDENTI

-Francesco Pezzulli-

   

 Note da un’inchiesta

È stato scritto che «quando il preside vi saluta nel corridoio del liceo è lì che si forma una soggettività». Nelle università è difficile che il preside vi saluti nel corridoio ma ci sono tanti altri modi e luoghi nei quali si forma la soggettività degli studenti. Semestre dopo semestre, gli studenti sono chiamati a compilare moduli: per certificare crediti, estinguere debiti, consultare la propria posizione. Siamo in banca, potrebbe dirsi, eppure siamo nella nuova università, dove il modulo ti consente di esistere, il credito (Cfu) di essere sottoposto a valutazione e il debito ti ricorda di essere meritevole delle conoscenze e competenze che ti sono state trasferite   

 

L’idea che gli studenti soffrano d’indigestione è emersa nel lavoro d’inchiesta sulle Condizioni studentesche e le trasformazioni dell’Università del «Laboratorio sulle Transizioni, il mutamento sociale e le nuove soggettività» dell’Università degli studi di Roma Tre, grazie al lavoro comune, al supporto ed i preziosi suggerimenti di Enzo Carbone, direttore del Laboratorio, che ha animato il lavoro sul campo e gli incontri seminariali che l’hanno accompagnato con passione conoscitiva e rigore scientifico.

In breve, gli studenti soffrono di indigestione poiché il loro tempo è impegnato da numerose pratiche, frequentemente banali, in senso proprio, delle quali raramente se ne intende l’utilità, come tutte quelle attività che nel medioevo, per dirla con Marc Bloch, «non avevano altro fondamento che il potere di comando riconosciuto al signore». Gli studenti mangiano tantissime nozioni ma non hanno il tempo per digerirle, da qui l’indigestione, procurata dalla ottusa protervia di voler misurare i tempi d’apprendimento con il metro delle aziende, secondo criteri e indicatori di produttività, efficacia, efficienza, costi standard, eccetera, al fine di misurare e standardizzare ciò che non potrebbe essere misurabile e standardizzabile. In tutto ciò lo «studio» è stato inquadrato in una cornice competitiva e per lo studente adagiarsi nella riflessione critica significa «attardarsi» in una prassi non richiesta, pertanto inutile e probabile fonte di uno sbandamento fuori corso.

La compressione dei tempi degli studenti, grande grimaldello dell’ultima Riforma, ha fatto si che il percorso universitario diventasse una sorta di corsa a ostacoli lungo attività predefinite: una abbondanza smisurata di corsi, insegnamenti, tirocini, esami, nonché di varie altre attività certificabili, occupano per intero il tempo individuale, che è connotato da una continua fretta, sovraccarico, ansia e, al tempo stesso, noia e ripetitività.

Dissero bene i ricercatori critici che contestarono la 3+2 quando sostennero (nell’Università struccata, nell’Onda anomala e in altri lavori) che l’organizzazione degli studi si introduce violentemente nella vita dei docenti e degli studenti favorendo la perdita del controllo del proprio tempo e modificando radicalmente i modi stessi di studio.

A leggere alcuni dati, inoltre, sembra che l’indigestione invada più parti vitali del corpo degli studenti, come un virus che all’entusiasmo sostituisce la depressione, alla passione l’indifferenza, al desiderio la sazietà o la nausea. L’Ocse ci ricorda che gli studenti italiani sono quelli che hanno i livelli d’ansia più elevati (70%; in media Ocse: 54%). Gli fa eco l’Istat (2018) per il quale il 10% dei ragazzi italiani tra i 12 e i 25 anni (più di 800 mila persone) non si trova in uno stato mentale ottimale. Una ricerca dell’Università di Palermo, mirata su un campione di studenti universitari, registra invece che uno studente su cinque è afflitto da ansia e depressione moderata, che diventa grave per uno ogni dieci studenti (2018). Mentre la famosa rivista Nature, dopo aver rilevato che uno studente di dottorato su tre ha cercato aiuto per combattere ansia e depressione (sulla base di un campione di oltre seimila dottorandi) avverte che la salute della prossima generazione di ricercatori ha bisogno di un cambiamento sistematico nel modo di fare ricerca (2019). E potremmo continuare, ma, numeri a parte, ciò che insegna è il vissuto di questi studenti, lo stress emotivo che li attanaglia nelle relazioni universitarie: Eleonora, che dai dolori al petto si accorge degli imminenti attacchi di panico; Viola, che vomita o sviene quando non riesce a governare l’ansia di un esame; Carlo, che si imbottisce di psicofarmaci per intensificare i ritmi e restare al passo; oppure Giulia, che, come altri mille, alterna le emicranie e gli attacchi di panico in una condizione di stress continuo; oppure, ancora, Claudia che periodicamente abbandona l’università per il disagio e il senso d’inadeguatezza che prova durante i corsi e gli esami. L’elenco di patologie legate alla depressione è molto lungo, figlio del processo d’individualizzazione che ha investito l’università nell’ultimo trentennio.

Lo studium come desiderio soggettivo non è previsto dalla nuova università, così come non lo sono tutte quelle attività studentesche dedicate alla «digestione» di ciò che si è studiato, alla riflessione e interiorizzazione dei saperi e delle conoscenze acquisite. Se osserviamo la vita quotidiana di uno studente universitario, le attività connesse a scelte autonome di studio come l’approfondimento di una tematica, la discussione tra studenti, la lettura di libri o documenti non richiesti direttamente per gli esami, eccetera, sono minime e spesso assenti. Immersi nei meccanismi e ritmi accademici, nei quali il tempo d’apprendimento è considerato alla stregua del tempo di lavoro industriale, gli studenti conducono numerose e minuziose attività con l’obiettivo supremo di acquisire crediti, poco importa se dietro quei crediti si nasconda un percorso rispetto ad un altro, un professore piuttosto che un altro, un paradigma, una teoria, dei metodi e approcci piuttosto che altri. Il rischio è che questa pratica, per la quale l’interesse verso un determinato studio dipende dal suo valore in «crediti formativi», ripetuta nel tempo, favorisca tra gli studenti una mentalità per la quale ogni attività vitale può essere soggetta al criterio dell’utilità economica; e questo principio, c’è da aggiungere, sembra non incontrare limiti alla sua diffusione né particolari resistenze tra gli studenti universitari.

Quando chi ha frequentato più o meno attivamente l’università tra gli anni ’70 e ’90 parla degli studenti universitari sono cinque i concetti che ricorrono con più frequenza: «confusione», «apatia», «solitudine», «indifferenza», «accidia». Eppure, nonostante tali concetti colgano appieno una certa inclinazione del presente, la panoramica delle forze universitarie ci fa ritenere ancora oggi che solo gli studenti, come altre volte in passato, potrebbero invertire la tendenza in atto e recuperare, in avanti, il significato originario di «comunità universitaria». Per una serie di ragioni, esposte chiaramente da Franco Piperno nel quarantennale del ’68, solo lo studente…

«… per la provvisorietà del ruolo che interpreta ha un ragionevole interesse a mettere al centro della questione universitaria il tema della formazione dell’individuo sociale, cioè dell’educazione sentimentale di una persona completa perché multipla. Solo lo studente per via della relativa estraneità alla sfera della produzione industriale e al mercato del lavoro, ha l’innocenza etica sufficiente per resistere alle illusioni cognitive delle scienze economiche, e riprendere la grande tradizione dell’autonomia dell’università italiana, tradizione fondata sull’esercizio della libertà intellettuale. Solo per lo studente la pratica interminabile e senza scopo del comprendere può trapassare da fatica insensata in esperienza di piacere, assai simile al piacere sensuale, il piacere che generano le azioni che sono fine e mezzo nello stesso tempo. Solo lo studente conserva intatto il lascito del senso comune secondo il quale la verità, qualsiasi cosa essa sia, deve potersi dire nella lingua naturale; ed entrare per intero nella disponibilità intellettuale del singolo individuo. Solo lo studente, per il quale le idee non sono ancora divenute ceppi della mente, può proporsi di non trascorrere l’esistenza nello stupore attonito davanti al succedersi delle innovazioni tecnico scientifiche, ma di individualizzare, attraverso i concetti, l’origine dal cui seno quelle innovazioni sono state partorite. Solo la condizione di vita dello studente, non avviluppata da relazioni contrattuali, libera e miserabile insieme, è sensibile al fascino di una formazione intellettuale realizzata non già nell’azienda ma nella comunità universitaria. Infine, mentre per i burocrati del ministero l’autonomia degli atenei ha una natura prevalentemente contabile e per i professori equivale a una licenza di autopromozione, solo per lo studente essa acquista un senso forte giacché fonda la possibilità di concorrere alle scelte che riguardano la sua formazione».

I motivi di uno studente universitario di rifiutare il ruolo di capitale umano cucitogli addosso dall’università azienda sono molti e radicati, e riemergono ogni qual volta gli studenti escono dall’isolamento e si mettono in «movimento», ogni volta cioè che cominciano a percepirsi, agire e pensare come forza collettiva autonoma. Solo gli studenti possono riparare al danno reale (e non mediocre, per Dio!) che la politica e gli interessi privati hanno arrecato all’università.



tratto da   L’ Università indigesta.  Note da un'inchiesta
per la lettura integrale si rinvia a machina-deriveapprodi