- Peppino Di Lello -
COMMENTO
ALLA SENTENZA 30\5\2018
DELL’ ORGANO SUPREMO GIURISDIZIONALE
«CHE CERTO
NON È IN ODORE DI MOVIMENTISMO»
Il diritto di proprietà di un bene pubblico non può essere tirato
fuori solo quando fa comodo e contro l’uso comune per fini sociali
Allo sgombero del settembre scorso della
Casa del Popolo di Palermo, costituitasi presso l’ex Istituto Statale per
Sordomuti (in stato di abbandono da oltre un decennio) ad opera di una
pluralità di soggettività sociali, è seguita una azione giudiziaria a carico di
oltre una ventina di attivisti, portatori di esperienze diverse che l’avevano
frequentata in occasioni di iniziative culturali o per promuovere
manifestazioni di massa che hanno coinvolto la città e le sue istituzioni –
come il “Gay Pride.
Ma soprattutto la “Casa”, grazie al
volontariato di molti giovani coinvolti nel piano di solidarietà denominato
“Tempo d’Estate”, era diventata per la città luogo di attività sociali, di
incontri e – in particolare – di svago per i bambini del quartiere.
Fermo restando la critica e i dubbi di
costituzionalità sui “decreti sicurezza” che criminalizzano anche queste
forme di cittadinanza attiva, vogliamo portare il nostro contributo al
dibattito sulla questione dell’autogestione dal basso degli spazi
pubblici. C’è una sentenza che vale la pena rispolverare in questi tempi di
grande fervore repressivo in tema di supposte occupazioni abusive di immobili
di proprietà pubblica, ovviamente vuoti e abbandonati, gestiti per fini sociali
dalle varie sigle per lo più antagoniste.
La sentenza del 30 maggio 2018 promana
dalla Cassazione penale, organo supremo giurisdizionale che certo non è in
odore di movimentismo. La vicenda, oggetto del giudizio, si svolge a Pignataro
Maggiore in provincia di Caserta e inizia circa una ventina di anni or
sono quando un gruppo di “bambini” (così definiti dal tribunale) sotto la sigla
“Tempo rosso” occupa l’ex macello comunale, vuoto e abbandonato appunto, per
svolgerci attività sociali. Dopo due decenni qualcuno si ricorda di questo
misfatto e lo denuncia, così che la Procura della Repubblica del tribunale di
Santa Maria Capua Vetere si attiva e chiede il sequestro preventivo
dell’immobile contestando agli occupanti (ormai maggiorenni) i reati di
invasione di edifici (art.633 c.p.), di deturpamento e imbrattamento di cose
altrui (art.639 c. p.) e omissione di lavori in edifici che minacciano rovina
(art.677 c. p.).
In prima battuta il giudice per le
indagini preliminari rigetta la richiesta di sequestro preventivo avanzata
dalla Procura e il tribunale conferma il provvedimento di rigetto rilevando che
non fosse configurabile il fumus dei reati ipotizzati e,
specificamente, per il reato di occupazione abusiva “perché gli indagati erano
bambini al tempo in cui l’ex macello comunale era stato occupato dal centro
sociale e il Comune aveva prestato ventennale acquiescenza all’occupazione,
sostanzialmente legittimandola ed impedendo la configurazione dell’elemento
soggettivo in capo agli indagati”.
Il procuratore della Repubblica però non
accetta il rigetto della sua richiesta e ricorre in Cassazione perché il reato
di invasione dell’ex macello comunale venga qualificato come istantaneo ad
effetti permanenti anziché come reato permanente “dalla cui natura dovrebbe la
sussistenza dell’illecito contestato agli indagati anche sotto il profilo
soggettivo”.
La Cassazione però si disinteressa della
sottile disquisizione sulla qualificazione giuridica del reato di occupazione e
si concentra, molto succintamente come vedremo, sull’elemento soggettivo e cioè
sul dolo che avrebbe sostenuto l’attività di occupazione rendendola illecita.
Il dolo non è altro che la coesistenza
della coscienza della illiceità dell’azione che si compie e della volontà di
compierla e cioè del rendersi conto di compiere un’azione contro la legge e
appunto della volontà di realizzarla, sempre contro la legge.
La Cassazione, concordando pienamente
con gli argomenti del Tribunale, spiega come mancasse agli imputati questa
coscienza dell’illiceità della occupazione “a causa del lungo periodo di tempo,
circa 20 anni, in cui il Comune, proprietario dell’immobile, aveva prestato
acquiescenza alla supposta occupazione abusiva, ingenerando il convincimento
negli indagati, attraverso atti positivi come il pagamento dell’utenza relativa
al consumo di energia elettrica dell’immobile, della legittimità
dell’occupazione, così escludendone il dolo”.
La sentenza ha una sua morale che la
Cassazione non poteva esplicitare integralmente, ma che è sottesa alla
decisione: il diritto di proprietà di un immobile non può essere tirato fuori
(come nel caso dell’ex Istituto di via Cavour) solo quando fa comodo, al Comune
di Pignataro in questo caso, ma va contemperato con il diritto di essere usato,
anche da terzi, per fini sociali. E’ quella funzione sociale della proprietà
che è sancita dalla Costituzione e che le ragazze e i ragazzi di Tempo Rosso
hanno attuata nel contesto del loro territorio.
PRESSENZA
- Redazione Italia