Francesco Maria Pezzulli
una fotografia
vista dal basso
l’immagine di una Italia spaccata in due
è vero che sono stati sballottati nelle fabbriche europee, ma è ugualmente vero che gli “scolari di campagna”
hanno resistito e lottato contro la loro subordinazione al lavoro e nella società -piazza Statuto docet-
hanno trasformato il mondo con le loro mani permettendoci di conoscerlo per come oggi ci si presenta
Notarangelo è stato un grande fotografo, come risulta evidente dal volume
«E fu subito Lucania», da cui estraggo la fotografia che ispira questo mio
scritto per il catalogo curato da Elia Panzarella. Tocca premettere che non
sono un esperto, tantomeno un intenditore di fotografia; mi piace comunque,
quando la testa e il tempo me lo consentono, soffermarmi su quelle immagini
che, per dirla con Ferrarotti, documentano il quotidiano senza inseguire lo
scoop; su quelle immagini, detto altrimenti, che riescono a imprigionare
istanti di vita dai quali è possibile intuire la dimensione sociale dentro la
quale ogni individuo è coinvolto.
Ed eccoci allora davanti allo «scolaro di campagna», del 1962, ultimo anno
di quel poderoso processo storico che è stato il boom economico italiano. Lo
scolaro, che chiamiamo Antonio essendo questo il nome maschile più comune in
Basilicata, racchiude in se l’immagine d una Italia spaccata in due, del
capitalismo nazionale che si è modernizzato sulla pelle dei contadini, tramite
la loro espulsione dalle terre meridionali e l’approdo nelle città industriali
del nord italiano ed europeo, dove vennero accolti, novelli operai, spesso con
violenza e cinismo. Ma di testi sulla «Quistione» le biblioteche sono ormai
piene e non voglio certo sostituirmi agli storici che, quelli buoni, ne hanno
colto i dettagli e gli aspetti più diversi. Torniamo dunque al nostro scolaro
Antonio, che ci guarda dal basso, che non ha che quella maglia strappata e
quegli indumenti lerci per andare a scuola. A prima vista sembra fare pena. Le
scarpe, rinforzate, sono forse del padre e quella destra pare rotta dietro ma
ancora passabile. La madre gli ha tagliato i capelli con le uniche forbici in
loro possesso e li ha pettinati con la stessa spazzola usata per l’asino che
dorme e vive con loro, trattato come un figlio, in quanto come il figlio è un
mezzo di lavoro, è una condizione essenziale per la sopravvivenza. Ma a
differenza dell’asino Antonio va a scuola, con una grande borsa per i libri,
dono che qualche professionista caritatevole ha fatto ai genitori, oppure
frutto di chissà quale servigio da questi rivolto al galantuomo di turno.
Non sappiamo se Antonio lavora prima di andare a scuola, sicuramente dopo,
anche se una piccola porzione di tempo la conserva per studiare, per prendere
il quaderno dalla grande borsa ed eseguire ciò che gli ha detto al mattino il
maestro. Anche se la giornata è stata particolarmente dura Antonio deve aprire
la borsa e prendere il quaderno perché sono la sua unica chance. Ma questo lui
non lo sa, lo sanno però suo padre e sua madre, che devono portare il quintale
sulle spalle, arare, zappare, ed ubbidire a qualsiasi ordine gli verrà dato dai
caporali, spesso mafiosi al soldo dei padroni della terra, i quali nel
frattempo stanno al circolo cittadino, parassiti come i loro avi prima di essi.
La borsa di Antonio è vecchia e un po’ rotta, certo meno dei suoi vestiti,
viene infatti custodita come un bene prezioso, lontana dall’asino che potrebbe
combinargli brutti scherzi. Il manico è rattoppato sempre prima che ceda
definitivamente e dentro, accanto a libro e quaderno, conserva la speranza dei
genitori che il figlio possa vivere un’esistenza migliore della loro, che non
soffra la stessa miseria e gli stessi soprusi, che non debba spaccarsi la
schiena dall’alba al tramonto. Nella borsa di Antonio c’è il rifiuto di quel
lavoro infame e di quella società ancora feudale dove, come osservò Carlo Levi
esule nel paese di Antonio:
il grande proprietario, che sta a Napoli, a Roma, o a Palermo, è un nemico
dei contadini, non è tuttavia il maggiore né il più gravoso. Egli almeno è
lontano, e non pesa quotidianamente sulla vita di tutti. Il vero nemico, quello
che impedisce ogni libertà e ogni possibilità di esistenza civile ai contadini,
è la piccola borghesia dei paesi. È una classe degenerata, fisicamente e
moralmente: incapace di adempiere la sua funzione, e che solo vive di piccole
rapine e della tradizione imbastardita di un diritto feudale. Finché questa
classe non sarà soppressa e sostituita non si potrà pensare di risolvere il
problema meridionale.
Fermiamoci un momento. Abbiamo iniziato dicendo che Notatarangelo è stato
un grande fotografo, e lo ribadiamo ancora, mi perdonerete però un appunto
sulla foto di Antonio senza nulla togliere al suo autore: dall’alto verso il
basso la foto tradisce il soggetto! Dicevamo che sembrava far pena, è vero, ma
guardiamolo in faccia, facciamo un primo piano sul suo viso e le cose cambiano,
cavolo se cambiano! In quello sguardo non c’è paura o reverenza, è uno sguardo
fiero, dignitoso, per nulla passivo, non è lo sguardo di uno sconfitto, anzi
guarda dritto senza darsi per vinto e, dietro gli occhi fermi, sembra
trasparire anche rabbia. È lo sguardo di Antonio che si appresta di li a poco a
lasciare la Lucania con i suoi genitori, come prima e dopo di lui faranno molti
suoi coetanei, che diventeranno operai in qualche parte di questa nostra
Europa.
Ma è bene ricordare, ancora oggi che Antonio ed i suoi amici continuano ad
essere dipinti come dei poveri cristi, «vinti» dal fato e dalla natura
matrigna, che l’immagine potrebbe anche essere sfocata, a tratti distorta.
Antonio e molti altri scolari di campagna è vero che sono stati sballottati
nelle fabbriche europee, ma è ugualmente vero che hanno resistito e lottato
contro la loro subordinazione al lavoro e nella società, che hanno trasformato
il mondo con le loro mani permettendoci di conoscerlo per come oggi ci si
presenta. Per fare un solo esempio significativo, nell’anno della foto che
stiamo discutendo, nella straordinaria rivolta di Piazza Statuto, Antonio e gli
altri scolari furono combattivi più che mai, pronti a riprendersi ciò che la
legge del plusvalore gli estorceva quotidianamente. Non è un caso se in
quell’occasione, come in molte altre nel lungo ventennio successivo, i due
terzi degli imputati per le violenze di strada furono giovani immigrati
meridionali.
Al termine della bella presentazione al libro di Notarangelo Goffredo Fofi
scrive che: «chi vede queste immagini dovrà per forza pensare ai suoi avi, da
cui quasi tutti proveniamo nonostante si faccia di tutto per dimenticarcelo.
Dovrà constatare, fuori da ogni vagheggiamento estetizzante e di nuova
ipocrisia, la loro dignità tanto maggiore di quella di noi tutti, qui ed oggi,
nell’Italia smemorata in cui viviamo. Che è corrotta e bastarda anche e
soprattutto perché smemorata». Ancor più oggi, che la mancanza di memoria
istituzionalmente sospinta erge barriere fisiche e mentali contro poveri
migranti che arrivano dal mare, gli occhi di Antonio scrutano la nostra corruzione
e ci dicono che anche questo odierno è un mondo vecchio e che, come nel secolo
scorso, nuovi scolari delle campagne povere del pianeta stanno attrezzandosi
per trasformarlo radicalmente.
Questo testo è stato pubblicato su Elia Panzarella (a cura di), La Basilicata com’era, Archivio
Storico fotografico della Calabria, 2019