[da Maria Rosaria Marella]
verso una bigenitorialità coatta e aziendalizzata
La famiglia fra conservazione e modernizzazione
la rivalsa del breadwinner
come una soggettività suprematista
acquisisce
tratti giuridici
Tre
sono le matrici che si contendono il campo nel diritto di famiglia attuale: 1.
La conservazione del modello tradizionale/comunitario, che vuole la famiglia
oggetto di un diritto speciale, opposto al diritto del mercato, informato alla
solidarietà fra membri di una comunità gerarchicamente ordinata; 2. la matrice
che identifica la modernità della famiglia con la sua “privatizzazione”, cioè
con l’apertura all’autonomia privata e alla contrattazione fra I coniugi, dunque
all’individualismo e all’uguaglianza formale che governano il mercato; 3. la
modernizzazione della famiglia declinata in termini di diritti umani e di
riconoscimento delle identità, con la perdita di centralità dell’interesse
della comunità familiare quale necessario tributo all’affermazione dei diritti
fondamentali dei suoi singoli componenti. Queste matrici sono tutte tre in
azione all’interno del diritto di famiglia vigente, che pertanto si presenta
come un settore del sistema giuridico in costante tensione fra tendenze
diverse, anche opposte fra loro. Ora, come si
colloca il DDL Pillon, recante Norme in materia
di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità, in questo quadro composito? La storia del proponente, le
sue esternazioni, il partito a cui appartiene, la Lega, farebbero pensare ad un
progetto di rafforzamento/rilancio del modello tradizionale di famiglia
coerente con la prima matrice all’opera nel sistema attuale del diritto di
famiglia. Anche le reazioni di gran parte del movimento femminista italiano
sembrerebbero privilegiare questa lettura. Ma un’analisi dell’articolato sembra
condurre in una diversa direzione. Quel che emerge, come vedremo, è il disegno
di una normativa ipertrofica e scarsamente coerente con le finalità declamate e
con il quadro di principi cui vorrebbe dar voce
GLI AMBIVALENTI SVILUPPI NEOLIBERALI DEL DIRITTO DI FAMIGLIA
Su un piano
generale di politica del diritto, le riflessioni condotte in questo testo
confermano l’atteggiamento ambivalente nei confronti degli sviluppi neoliberali
del diritto di famiglia. Da una parte la privatizzazione delle relazioni
familiari non è solo ammessa, ma addirittura celebrata nell’enfasi posta sulla
degiurisdizionalizzazione come prospettiva irrinunciabile del progetto di
riforma del diritto di famiglia. E non c’è dubbio che l’adozione di tecniche di
ADR (Alternative Dispute Resolution) nelle controversie familiari, come
la mediazione e la coordinazione genitoriale, rappresenti – e sia
universalmente assunta come – un momento topico nei processi neoliberali di
‘privatizzazione’ del diritto. Nel contempo, però, questa stessa linea di
tendenza, nei termini in cui è fatta propria dal ddl Pillon, non collima con
l’egalitarismo che le sarebbe connaturato e che inevitabilmente investe tutte
le identità sessuate, sino a comportare l’estensione del matrimonio alle coppie
same-sex. Nella misura in cui, infatti, si ammette la negoziabilità delle
posizioni all’interno della famiglia al pari di quelle regolate dal diritto
comune, ci si approssima alla razionalità del diritto patrimoniale privato con
ciò accogliendosi anche il paradigma del soggetto di diritto neutro e
universale proprio delle relazioni di mercato; per ciò stesso, però, la
esclusività del binarismo sessuale nei rapporti giusfamiliari e del modello
della (bi-)genitorialità ‘naturale’, necessariamente eterosessuale, vacillano.
Ma qui, in contrasto con le sue stesse premesse, il ddl Pillon non mostra
esitazioni nel liquidare ogni ipotesi di pluralismo familiare con un uso tranchant delle
parole padre e madre al posto di genitori.
D’altra parte, il pluralismo delle forme che contrassegna il diritto di famiglia neoliberale si pone alla convergenza con un’altra linea di tendenza propria del diritto contemporaneo, quella ispirata al riconoscimento delle identità individuali e alla promozione dei diritti fondamentali di cui ciascuna di esse è portatrice.
D’altra parte, il pluralismo delle forme che contrassegna il diritto di famiglia neoliberale si pone alla convergenza con un’altra linea di tendenza propria del diritto contemporaneo, quella ispirata al riconoscimento delle identità individuali e alla promozione dei diritti fondamentali di cui ciascuna di esse è portatrice.
Nella fase corrente il soggetto di
diritto sembra aver perduto quella vocazione universalistica, trasversale alle
innumerevoli differenze che connotano le persone in carne e ossa, che ha
contrassegnato la sua comparsa nel diritto moderno e la sua funzione di
elemento ad un tempo unificante e semplificante della varietà delle relazioni
giuridiche che attraversano il tessuto sociale. Quella nozione appare oggi come
frammentata in molteplici identità che mappano le differenze in senso statico e
dinamico (dal genere, la razza, l’orientamento sessuale, la cultura e la fede
religiosa all’età e alla condizione di disabilità), in una partitura
biopolitica a 360 gradi. Non vi sono diritti civili o patrimoniali, come è
stato un tempo per la proprietà, o diritti sociali, come quelli riconosciuti al
lavoro dalla costituzione italiana, capaci di costituire l’ossatura di una
soggettività giuridica omogenea.
Strettamente connesso all’affermarsi delle identità sul piano giuridico è il riconoscimento dei diritti umani, forse il più evidente dei caratteri distintivi del diritto globalizzato nell’attuale fase della sua diffusione. Per sua natura, il discorso dei diritti umani si articola infatti attraverso l’individuazione di specifiche e differenti identità che tendono a frammentare la soggettività giuridica secondo genere, età, razza, orientamento sessuale, ecc., in tal modo occultando le condizioni economiche e sociali che nella realtà connotano le singole forme di vita. Propria di questa fase è dunque la declinazione dei diritti fondamentali secondo identità particolari e non più su base universale. Ne consegue che stella polare della loro tutela sia non già il principio dell’uguaglianza sostanziale ma la formulazione di svariati divieti di discriminazione, tanti quante sono le identità reputate meritevoli di riconoscimento giuridico.
Per quanto ci interessa in questa sede, l’intreccio identità/diritti fondamentali interseca la famiglia principalmente secondo due traiettorie. La prima vede come protagoniste le soggettività LGBTI, cui la famiglia legalmente riconosciuta ha ormai da tempo spalancato le porte attraverso la previsione di forme di paramatrimoniali prima (registered partnerships, unioni civili, PACS) e il matrimonio per tutt* poi. Più defilata, ma comunque ben presente a livello globale, è l’ascesa dell’omoparentalità quale modello emergente di genitorialità. Essa si lega ovviamente al riconoscimento dell’orientamento sessuale quale veicolo di affermazione di nuove identità e alla più generale individuazione di un ‘pacchetto’ di diritti specifici delle soggettività non cisgender (LGBTQI).
La seconda traiettoria lungo la quale l’ascesa delle identità e l’egemonia del rights discourse incrociano la famiglia ha invece al centro la persona del minore.
Nel poderoso apparato retorico dei diritti umani un capitolo importante è ora dedicato proprio ai minori, i quali rispetto al passato hanno acquisito un’inedita centralità nel discorso giuridico multilivello, ponendosi come soggettività autonoma e distinta rispetto alle famiglie d’origine e ai genitori. Convenzioni internazionali e carte dei diritti sovranazionali e nazionali riconoscono oggi diritti precipuamente modellati sui bambini, volti a garantire loro tutela a prescindere dalla protezione accordata alle loro famiglie e talora esplicitamente contro le famiglie stesse. Parallelamente, una folta giurisprudenza intitolata al best interest of the child si è diffusa in ogni giurisdizione di quella area che fino a qualche tempo fa è stata chiamata Western Legal Tradition. La primazia assicurata all’interesse del minore non conosce frontiere: non c’è oggi principio – per quanto basilare possa essere per il diritto di famiglia di un dato paese – che sia in grado di competere con la forza persuasiva del best interest of the child.
Strettamente connesso all’affermarsi delle identità sul piano giuridico è il riconoscimento dei diritti umani, forse il più evidente dei caratteri distintivi del diritto globalizzato nell’attuale fase della sua diffusione. Per sua natura, il discorso dei diritti umani si articola infatti attraverso l’individuazione di specifiche e differenti identità che tendono a frammentare la soggettività giuridica secondo genere, età, razza, orientamento sessuale, ecc., in tal modo occultando le condizioni economiche e sociali che nella realtà connotano le singole forme di vita. Propria di questa fase è dunque la declinazione dei diritti fondamentali secondo identità particolari e non più su base universale. Ne consegue che stella polare della loro tutela sia non già il principio dell’uguaglianza sostanziale ma la formulazione di svariati divieti di discriminazione, tanti quante sono le identità reputate meritevoli di riconoscimento giuridico.
Per quanto ci interessa in questa sede, l’intreccio identità/diritti fondamentali interseca la famiglia principalmente secondo due traiettorie. La prima vede come protagoniste le soggettività LGBTI, cui la famiglia legalmente riconosciuta ha ormai da tempo spalancato le porte attraverso la previsione di forme di paramatrimoniali prima (registered partnerships, unioni civili, PACS) e il matrimonio per tutt* poi. Più defilata, ma comunque ben presente a livello globale, è l’ascesa dell’omoparentalità quale modello emergente di genitorialità. Essa si lega ovviamente al riconoscimento dell’orientamento sessuale quale veicolo di affermazione di nuove identità e alla più generale individuazione di un ‘pacchetto’ di diritti specifici delle soggettività non cisgender (LGBTQI).
La seconda traiettoria lungo la quale l’ascesa delle identità e l’egemonia del rights discourse incrociano la famiglia ha invece al centro la persona del minore.
Nel poderoso apparato retorico dei diritti umani un capitolo importante è ora dedicato proprio ai minori, i quali rispetto al passato hanno acquisito un’inedita centralità nel discorso giuridico multilivello, ponendosi come soggettività autonoma e distinta rispetto alle famiglie d’origine e ai genitori. Convenzioni internazionali e carte dei diritti sovranazionali e nazionali riconoscono oggi diritti precipuamente modellati sui bambini, volti a garantire loro tutela a prescindere dalla protezione accordata alle loro famiglie e talora esplicitamente contro le famiglie stesse. Parallelamente, una folta giurisprudenza intitolata al best interest of the child si è diffusa in ogni giurisdizione di quella area che fino a qualche tempo fa è stata chiamata Western Legal Tradition. La primazia assicurata all’interesse del minore non conosce frontiere: non c’è oggi principio – per quanto basilare possa essere per il diritto di famiglia di un dato paese – che sia in grado di competere con la forza persuasiva del best interest of the child.
Sebbene
apparentemente il ddl Pillon si collochi su una linea diversa, che parrebbe
conforme ad un’idea di famiglia tradizionale – organicista, eterosessuale e
nucleare – i dispositivi che pone in essere contraddicono il nucleo duro di
quel modello proprio per il fatto di rompere con il paradigma della solidarietà
familiare e con l’ideale comunitario che esso incarna. In realtà il
provvedimento gioca anch’esso la carta dell’identità, non, questa volta,
l’identità del minore ‘armata’ della clausola del best interest,
tanto meno quella non-etero promossa dal divieto di discriminazione e dai
principi dell’autodeterminazione e del rispetto della dignità umana, e neppure
quella femminile al centro dei dispositivi redistributivi propri della famiglia
egalitaria: l’identità emergente è qui quella del maschio alfa, identificato
essenzialmente nel suo ruolo di padre-breadwinner.
Considerato, dunque, che tanto la tensione verso la privatizzazione quanto il discorso dei diritti umani e delle identity politics entrano in rotta di collisione con il diritto di famiglia tradizionale in un punto fondamentale, cioè nel suo carattere comunitario, votato alla realizzazione di un interesse della famiglia superiore a quello dei suoi componenti e radicato nell’idea di solidarietà familiare; che questo, a sua volta, si erge contro il modello individualista della competizione fra soggetti e della ‘prevalenza’/conflitto propri invece delle due tendenze più moderne, dobbiamo concludere che il ddl Pillon non percorre affatto la via della restaurazione del canone della famiglia tradizionale. Esso porta al contrario alle loro estreme conseguenze tanto la privatizzazione della famiglia quanto la competizione fra identità – e l’individualismo che connota entrambe – ponendo fine a ogni legame di solidarietà fra coniugi e genitori e subordinando la tutela del benessere dei figli minori alla salvaguardia del patrimonio del genitore più abbiente. A queste conclusioni conduce la centralità nell’economia del ddl delle disposizioni relative alla (abolizione della) casa familiare e al mantenimento diretto. Esse sanciscono la prevalenza della proprietà individuale sulla solidarietà familiare, del controllo del patrimonio del genitore su una gestione armonica delle risorse destinate al mantenimento del figlio.
Non è, come forse nelle intenzioni dei presentatori, la rinascita della famiglia nucleare eterosessuale, ma il suo requiem. Comunque lo si voglia giudicare, è paradossale che un tale esito sia conseguito da chi si propone come paladino dei valori che quel modello di famiglia incarna.
Considerato, dunque, che tanto la tensione verso la privatizzazione quanto il discorso dei diritti umani e delle identity politics entrano in rotta di collisione con il diritto di famiglia tradizionale in un punto fondamentale, cioè nel suo carattere comunitario, votato alla realizzazione di un interesse della famiglia superiore a quello dei suoi componenti e radicato nell’idea di solidarietà familiare; che questo, a sua volta, si erge contro il modello individualista della competizione fra soggetti e della ‘prevalenza’/conflitto propri invece delle due tendenze più moderne, dobbiamo concludere che il ddl Pillon non percorre affatto la via della restaurazione del canone della famiglia tradizionale. Esso porta al contrario alle loro estreme conseguenze tanto la privatizzazione della famiglia quanto la competizione fra identità – e l’individualismo che connota entrambe – ponendo fine a ogni legame di solidarietà fra coniugi e genitori e subordinando la tutela del benessere dei figli minori alla salvaguardia del patrimonio del genitore più abbiente. A queste conclusioni conduce la centralità nell’economia del ddl delle disposizioni relative alla (abolizione della) casa familiare e al mantenimento diretto. Esse sanciscono la prevalenza della proprietà individuale sulla solidarietà familiare, del controllo del patrimonio del genitore su una gestione armonica delle risorse destinate al mantenimento del figlio.
Non è, come forse nelle intenzioni dei presentatori, la rinascita della famiglia nucleare eterosessuale, ma il suo requiem. Comunque lo si voglia giudicare, è paradossale che un tale esito sia conseguito da chi si propone come paladino dei valori che quel modello di famiglia incarna.
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