Perché la privatizzazione dello stato sociale si traduce
in un aggravio di lavoro sulle spalle delle donne?
Perché la privatizzazione dello stato sociale si traduce
in un aggravio di lavoro sulle spalle delle donne?
Perché sono
in stragrande maggioranza femminili, o femminilizzati, i corpi di servizio
– incluso quello sessuale – che affluiscono verso e società occidentali da
paesi messi in ginocchio
dal debito e dai programmi di riaggiustamento
strutturale?
È sufficiente
riferirsi alla dinamica capitalistica come fattore «in ultima istanza»
determinante, per capire come mai alcune fasce di popolazione stentano più di
altre ad accedere ai circuiti dell’economia formale?
Può ben darsi che l’eco dei conflitti che, negli anni Settanta,
hanno diviso marxisti e femministe oggi si sia affievolita. Ciò non significa,
tuttavia, che i nodi fondamentali di quella discussione abbiano perso
pertinenza.
Perché sono
in stragrande maggioranza femminili, o femminilizzati, i corpi di servizio
– incluso quello sessuale – che affluiscono verso e società occidentali da
paesi messi in ginocchio
dal debito e dai programmi di riaggiustamento strutturale?
dal debito e dai programmi di riaggiustamento strutturale?
È sufficiente
riferirsi alla dinamica capitalistica come fattore «in ultima istanza»
determinante, per capire come mai alcune fasce di popolazione stentano più di
altre ad accedere ai circuiti dell’economia formale?
Può ben darsi che l’eco dei conflitti che, negli anni Settanta,
hanno diviso marxisti e femministe oggi si sia affievolita. Ciò non significa,
tuttavia, che i nodi fondamentali di quella discussione abbiano perso
pertinenza.
Certamente, è innegabile che oggi sia diffusa – molto più di
allora – la propensione a prosciugare il discorso sulle determinanti che
influenzano le nostre vite: riconoscersi non solo condizionate, ma oppresse, è
difficile. E doloroso. Mi sembra che il prestigio che circonda la
reinterpretazione dei rapporti sociali in chiave di cooperazione volontaria tra
soggettività libere e autodeterminate dipenda, molto più che dalla forza
esplicativa di questo modello, dalla sua capacità di rassicurarci: perché
perseguire faticosi progetti politici di liberazione, se la nostra
autodeterminazione può esprimersi già qui e ora? In queste condizioni, tendono
a moltiplicarsi discorsi che mettono l’accento sull’individuo, sulla sua
postura volitiva o desiderante, sulla sua agency, sul suo empowerment.
Da questo punto di vista, si pone (ndr)
chiaramente un problema affine a quello sollevato in un intervento del 1990 di
Catharine MacKinnon, emblematicamente intitolato Il liberalismo e la morte del
femminismo. In quel discorso, MacKinnon si chiedeva dove fosse
finito il movimento femminista che, negli anni Settanta, era stato capace di
criticare concetti sacri come quelli di «scelta» e «consenso», che cosa fosse
rimasto di quel movimento consapevole del fatto che «quando le condizioni
materiali ti precludono il 99% delle opzioni, non ha senso definire il restante
1% – ciò che stai facendo – una scelta». E nonostante negli ultimi anni la
questione del rapporto tra femminismo e neoliberalismo sia stata ampiamente
dibattuta, sembra che ciò sia avvenuto in termini rovesciati rispetto a quelli
proposti da MacKinnon. Mi sembra che il suo approccio colga il problema
dell’impatto negativo della razionalità liberale in modo per noi più pertinente
di quanto riescano a fare altre prospettive – su tutte, quella di Nancy Fraser
– portate invece a rimproverare al movimento femminista degli anni Settanta di
avere contribuito all’ascesa del neoliberalismo attraverso la critica del
salario familiare. Il testo di Silvia Federici incluso in Manifesti
femministi consente invece di comprendere quale fosse la
portata reale della critica al salario familiare sviluppata, in particolare,
dai gruppi per il salario al/contro il lavoro domestico: critica che mi pare
grossolanamente fraintesa se interpretata, in chiave emancipazionista, come una
richiesta di maggiore integrazione delle donne ai processi di valorizzazione
capitalistica.
Quello che mi preme sottolineare, per tornare alla questione, è
che il riferimento all’egemonia della razionalità neoliberale ci aiuta a cogliere
solo un aspetto della questione. Come accennavo sopra, nel quadro dell’odierna
«terza ondata» femminista non è affatto raro imbattersi in critiche della
razionalità neoliberale (e del suo doppiofondo neofondamentalista, come sai
bene), anche molto affilate, ma che, tuttavia, tendono a perdere mordente
quando si tratta di pronunciarsi sull’etero-patriarcato. Certamente il
sostantivo «patriarcato» e l’aggettivo «patriarcale» compaiono ancora nei
documenti prodotti dal movimento odierno. Contrariamente alle apparenze, però,
questo non significa che il concetto di
patriarcato – o, come mi sembra più corretto dire, di etero-patriarcato –
conservi il peso determinante che aveva avuto per il femminismo radicale.
Provo a spiegarmi meglio: la maggioranza del movimento
femminista attuale è assolutamente disposta a riconoscere che le
politiche neo-liberali hanno effetti devastanti sulla vita delle donne e delle
minoranze di genere. I problemi sorgono non appena si tratta di rispondere a
domande come queste: perché la
privatizzazione dello stato sociale si traduce in un aggravio di lavoro sulle
spalle delle donne? Perché sono in
stragrande maggioranza femminili, o femminilizzati, i corpi di servizio –
incluso quello sessuale – che affluiscono verso le società occidentali da paesi
messi in ginocchio dal debito e dai programmi di riaggiustamento strutturale? È
sulla risposta da dare a interrogativi come questi che si palesano le
divergenze tra chi ritiene indispensabile utilizzare il concetto di
etero-patriarcato e chi, al contrario, ritiene di poterne fare a meno. L’area
del femminismo socialista, per esempio, è propensa a sostenere che 1) questi
fenomeni vanno messi sul conto della crisi della riproduzione sociale che
investe le società capitalistiche e 2) che il capitale resta il principale
agente, oltre che l’unico beneficiario, di tali forme di sfruttamento. Per
quale strano motivo proprio le donne vengano assegnate alla «sfera
riproduttiva» non viene chiarito dalle teorie che escludono programmaticamente
il riferimento a un modo di produzione eteropatriarcale. Veniamo invece
sollecitate a interrogare il modo in cui il capitale utilizza a proprio
vantaggio la differenza sessuale. Ma come venga prodotta quella «differenza»,
nel quadro di quale rapporto sociale, resta un mistero. A differenza del
femminismo radicale, il femminismo socialista sembra suggerirci che la
differenza tra uomini e donne, semplicemente, c’è: è un dato biologico,
pre-sociale, una distinzione funzionale necessaria alla riproduzione sessuale
che destina la maggior parte delle donne a un’intimità permanente con gli
uomini, in vista della rigenerazione della forza-lavoro su base quotidiana e
generazionale. Credo si debba tener conto di questa ipoteca differenzialista
per comprendere l’insistenza a parlare di lavoro riproduttivo (anche a dispetto
del fatto che i servizi prodotti possiedano un valore di scambio, dato che è
possibile trasferirli sul mercato) e a tacere il fatto che gli uomini,
proletari inclusi, sono beneficiari diretti del lavoro che riescono a estorcere
gratuitamente alle donne. Va per altro precisato, a scanso di equivoci, che lo
sfruttamento domestico non esaurisce il campo dell’oppressione
etero-patriarcale. Senonché, è proprio quando volgiamo lo sguardo verso altri
fenomeni macroscopici del dominio etero-patriarcale, come la violenza sessuale,
che diventa ancora più problematico chiamare in causa il capitale, o il
neoliberalismo. Correlare uno stupro al plusvalore, o a una crisi di
sovrapproduzione, mi riesce decisamente più difficile che non associarlo
all’esistenza un sistema eterosessuale finalizzato all’appropriazione del
lavoro, della sessualità e della coscienza delle donne. E tu potresti fare
questo stesso discorso, come già fai, per altre forme di violenza di genere,
parlando del pestaggio nei riguardi della persona trans* o del ragazzo gay
ammazzato di botte al termine del suo primo giorno di lavoro al centro
commerciale. D’altronde: come si spiega la sovra-rappresentazione delle persone
trans* tra le fila dei disoccupati? È sufficiente riferirsi alla dinamica
capitalistica come fattore «in ultima istanza» determinante, per capire come
mai alcune fasce di popolazione stentano più di altre ad accedere ai circuiti
dell’economia formale?
Periodicamente mi cadono sotto gli occhi articoli che
documentano, con una certa passione dimostrativa, impennate di violenza contro
le donne a partire dalla crisi economica del 2007-08. Il messaggio di questi
contributi è chiaro: la crisi economica e la relativa precarizzazione delle
condizioni di vita e di lavoro induce gli uomini alla violenza. Vorrei fosse
altrettanto chiara, però, l’esigenza che abbiamo di conservare il senso delle
proporzioni, evitando di trasformare una correlazione statistica in una teoria
dell’oppressione. Sospetto, per altro, che anche le femministe socialiste
avvertano questa difficoltà. Non è un caso che non si siano completamente
estinte le concessioni alla retorica femminista: il ricorso residuale
all’aggettivo «patriarcale», o al sostantivo, «patriarcato» potrebbero veicolare
un’implicita ammissione dell’insufficienza del quadro analitico marxista.
Tuttavia, questo omaggio formale alla terminologia del femminismo radicale
raramente si spinge al di là di una definizione che circoscrive il patriarcato
alla sfera delle mentalità, degli stereotipi, dei pregiudizi: il sistema
sociale di riferimento resta uno solo, il capitalismo. E questo mi sembra un
ostacolo serio a indagare le cause delle nostra oppressione.
da Deborah Ardilli, Federico Zappino
“Manifesti femministi / Una conversazione sul femminismo
radicale “ [la conversazione che prende spunto
dalla pubblicazione del libro Manifesti femministi.
Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1964-1977) , VandA-Morellini, Milano]