obiettivo un milione di firme per i beni comuni
-Toni Casano-
Dopo la giornata di studi all’Accademia dei Lincei dello scorso 30 novembre, dedicata al tema “Quale futuro per i beni pubblici?”, a dieci anni dalla Commissione-Rodotà i cui risultati ancora riecheggiano oltre i confini nazionali, nasce adesso il ‹Comitato Popolare di Difesa Beni Comuni, Sociali e Sovrani "Stefano Rodotà" › per portare avanti la proposta di iniziativa popolare, riprendendo il “disegno di legge” frutto del lavoro della Commissione presieduta dal grande giurista scomparso nel giugno 2017
Promossa da Ugo Mattei e Alberto Lucarelli, i quali furono componenti del consesso rodotiano, la giornata di studi ai Lincei ha visto fra i suoi partecipanti la maggior parte dei membri della storica Commissione ed altri giuristi, chiamati ad un aperto confronto sui lavori prodotti dalla stessa sotto la guida di Stefano Rodotà. Gli intervenuti non si sono limitati alla mera celebrazione accademica, bensì hanno approfondito con estremo rigore scientifico il disegno di legge, verificandone l’attualità fattuale. Quindi dall’assise è emersa non solo la validità tecnica dell’impianto normativo, ma – data l’aggressività delle politiche neoliberiste imperanti– si è posta la necessità di lanciare una campagna politico-sociale, del pari a quella referendaria del 2011 in difesa dell’acqua bene comune (dall’esito vittorioso e che ha comunque limitato gli effetti speculativi sul patrimonio pubblico), con l’obiettivo ambizioso di raccogliere 1 milione di firme a supporto di una “Iniziativa legislativa popolare”, strumento minimale di democrazia diretta previsto dall’art. 71 - II° comma - della Costituzione, per trasformare il disegno di parziale riforma del codice civile in legge dello Stato.
Dopo
i saluti delle autorità istituzionali, Mattei ha introdotto la discussione
tracciando un breve excursus storico-politico che ha portato alla costituzione
della Commissione, nominata dall’allora ministro della Giustizia, il sempiterno
democristiano Clemente Mastella, unico “imprenditore politico” disponibile che
Stefano Rodotà, dopo vane ricerche sotto l’albero dell’Ulivo, riuscì a trovare
nel quadro cetuale della cosidetta “Seconda Repubblica”. Infatti col nuovo assetto istituzionale maggioritario,
volto a garantire la governabilità quale segno di modernizzazione, non v’era
disponibilità alcuna a prestare ascolto al tema dei beni comuni. Anzi, di
converso il tema era considerato premoderno, sostanzialmente superato dalle
logiche di mercato. Il bipolarismo faceva registrare un sostanziale
appiattimento degli schieramenti in contesa sulle politiche economiche, per cui
le scelte degli Esecutivi di coalizione
differivano soltanto in termini propagandistici, mostrando una perfetta
sovrapponibilità programmatica, dove l’unico terreno di competizione era
dettato sul piano dell’efficienza gestionale, in ossequio al neoliberismo
imposto dalle centrali del comando economico, entità famigerata che avremmo
conosciuto da lì a poco, con l’incalzare della crisi, colla materializzazione
del volto della “Troika”. Non è un caso
che al capezzale italiano, su sollecitazione UE, sia stato chiamato il governo
tecnico guidato da Mario Monti, comunemente riconosciuto come uomo della
finanza internazionale. Tuttavia non era la prima volta che in nome della governamentalità venissero chiamati alla
guida del paese personalità “al di sopra delle parti”: Amato\Dini\Ciampi furono
ad intervalli sequenziali alla guida di
compagini sorretti da ampie maggioranze
trasversali.
Grazie
a questi governi tecnici si compiva il disegno europeo della mutazione
neoliberista dello Stato, dove la politica come arte della mediazione lasciava il passo al dominio economico sempre
più amministrato dal capitalismo finanziario globalizzato. Furono questi
esecutivi “tecnici” più che quelli “politici” (i quali si guardarono bene dal
mettere in discussione le strategie poste in essere) ad imbastire quelle grandi manovre finanziarie tutte lacrime e
sangue, imperniate: sulla dismissione di
asset produttivi e beni strategici (le cui entrate alla fine risulteranno
irrisorie rispetto alle previsioni del gettito immaginato con le
privatizzazioni) e sulla concessione gestionale di servizi pubblici (i cui vantaggi remunerativi e rendite di
posizione acquisite sul mercato dal sistema dell’impresa risulteranno ben
redditizi, de facto senza alcun introito per l’Erario e con un abbassamento
qualitativo dei servizi erogati). Basti ricordare le vicende che hanno
riguardato le privatizzazioni delle grandi reti infrastrutturali, le cui
performance sul mercato han fatto realizzare enormi profitti. Laddove invece si
sarebbero registrate perdite d’esercizio, queste venivano socializzate,
facendole gravare sulla fiscalità generale, a carico dei contribuenti che così
avrebbero pagato due volte un bene proprio: la prima, quando furono realizzate
-con ingenti finanziamenti pubblici- le grandi opere infrastrutturali (nel
corso della giornata di studi ai Lincei fra gli interventi sono stati citati
più volte i casi paradigmatici delle autostrade e della rete della
telecomunicazione); la seconda, quando si dovettero socializzare le perdite
realizzate dal sistema imprenditoriale (un caso per tutti quello dell’Alitalia
–per non dover citare la solita vicenda FIAT).
Insomma
dentro questa cornice neoliberista si sviluppava il processo di dismissione dei
beni pubblici: lo smantellamento dell’apparato produttivo pubblico, in nome
della efficienza e superiorità gestionale del privato, si combinava con
l’abbandono progressivo della welfare
policy e con il contestuale
processo di deregulation dei servizi pubblici, lasciandoli alla
mediazione mercatista della libera concorrenza. Lo Stato diventava così
soggetto regolatore delle “disfunzioni” economiche del mercato, ed in primo luogo
si poneva la questione della rigidità del fattore-lavoro e il suo porsi come
variabile salariale indipendente rispetto alla produttività aziendale. Da
questo assunto parte il travaglio della riforma del mercato del lavoro: dalla
riforma-Treu al Jobs act è una delle
azioni di governo fra le misure più insistite. Quella della flessibilità del
lavoro, spacciata anch’essa come modernizzazione necessaria dell’apparato
produttivo, significa semplicemente,
fuori dal linguaggio giuslavorista, precarizzazione diffusa delle
condizioni della vita sociale e concentrazione della ricchezza sempre più in
poche mani.
In
estrema sintesi, salvo qualche annotazione di cui ci siamo presi la libertà di
aggiungere, questa la situazione politica tratteggiata da Ugo Mattei.
Un’analisi lucida del contesto nel quale si misurarono dapprima il nucleo di
giuristi coagulatosi attorno a Stefano Rodotà e, successivamente nella sua
funzione, la stessa Commissione istituita dal Ministro della Giustizia. E però,
come giustamente ha messo in luce Alberto Lucarelli nelle sue conclusioni, il
gruppo-Rodotà non nasceva sic et
simpliciter dalla esigenza dottrinale, non era soltanto un un’équipe di
ricercatori, era anche un “collettivo militante” che faceva riferimento
idealmente al movimento anticapitalista globale (come quello di Seattle, in
occasione della conferenza del World
Trade Organization-Wto, e quello di
Davos, nel corso del Forum dell'economia mondiale) che in Italia aveva sancito
il suo atto costituente a Genova nel 2001, contro quel G8 tristemente noto per
la repressione poliziesca culminante con la morte di Carlo Giuliani.
È
a quest’altro versante - quello dei movimenti - che guarda il gruppo-Rodotà,
facendo leva sulla presa di coscienza sociale nella difesa dei beni comuni e degli
equilibri ecosistemici. I giuristi rodotiani, rendendosi conto della debolezza
del regime legale di tutela dei beni pubblici
e della necessità tassonomica di riformulare l’apparato categoriale
degli stessi beni e ritenendo altresì insufficiente la classificazione
codificata del patrimonio pubblico in demaniali e patrimoniali ("disponibili" e "indisponibili"), costruivano un percorso innanzitutto politico che si sarebbe
sostanziato nella istituzione della Commissione per la riforma del Codice
civile, la quale ha prodotto il disegno di legge, che si vuole ora riproporre
mediante l’iniziativa legislativa popolare, al fine di assicurare sotto regime
giuridico la titolarità comune di quei beni che per vocazione non possono
essere sottratti alla destinazione sociale, sia per le generazioni presenti che
per quelle a venire.
Certo
dal confronto fra i diversi partecipanti sono emerse anche delle differenze sia
metodologiche che di merito. Per esempio sull’istituto della "concessione",
strumento principe regolatore del rapporto pubblico\privato, sono state
manifestate posizioni meno intransigenti, rispetto a chi ritiene, invece,
dirimente e decisiva la sua completa revisione in coerenza col dettato
rodotiano. Sul punto però v’è stata una sostanziale convergenza nello stabilire
che il “rapporto concessivo” non deve perdere mai di vista la supremazia
pubblicistica dell’interesse generale comune su quello privatistico. A ciò
dovrebbe essere richiamata ad assolvere i propri compiti una pubblica
amministrazione dimostratasi negli anni purtroppo assai disattenta e
deresponsabilizzata, guidata da vertici burocratici assai ben remunerati, quale
prezzo dell’asservimento al ceto politico. Altro che autonomia amministrativa!
(autonomia a cui il buon Cassese aveva dedicato il famoso Decreto Legge 29,
nella vana speranza di cambiare una Pubblica Amministrazione considerata,
soprattutto in epoca mercatista, troppo farraginosa).
In conclusione, il lancio della campagna legislativa dell’iniziativa popolare, per
la quale a gennaio del prossimo anno sarà programmata un'assemblea nazionale, promossa dal neocostituito Comitato
Popolare di Difesa Beni Comuni, Sociali e Sovrani "Stefano Rodotà", non vuole soltanto raggiungere l’obiettivo di far
diventare legge dello Stato la proposta (consultabile sul sito http://www.benicomunisovrani.it/index.htm#) elaborata dalla Commissione
Rodotà, ma cogliere l’occasione per
ripensare il modello di sviluppo più sostenibile rispetto alle tematiche incombenti sulla crisi di
sistema, i cui effetti devastanti sotto l’aspetto ecologico, culturale e
sociale ricadono pesantemente sulle spalle della società contemporanea (con
ipoteca su quella futura), a beneficio immediato ed esclusivo di quel 1% già
individuato dalla piazza di Occupy Wall
Street.