Andrea
Fumagalli. Il
tema da cui partire è l’individuazione dei sentieri di valorizzazione del
capitalismo contemporaneo. A mio avviso, tali sentieri sono costituiti dalle
produzioni immateriali che vanno a costituire la nuova frontiera tecnologica
(bio-tecnologie, bio-genetica, intelligenza artificiale, big data, eccetera) e
dal ruolo della finanza come “carburante” dell’accumulazione (finanziamento,
distribuzione del reddito: finanziarizzazione del welfare e moltiplicatore
finanziario). È un’interpretazione condivisibile?
Lelio
Demichelis. Assolutamente
sì. Il capitalismo neoliberale e tecnico – quello che definisco come tecno-capitalismo –
è storicamente nato con la fase della produzione (tutti
dovevano diventare produttori e proletari), passando poi alla fase del
consum(ism)o (tutti dovevano imparare a consumare). Oggi siamo nella terza
fase (più che nella quarta rivoluzione industriale) dell’innovazione
irrefrenabile e del micro-capitalismo diffuso, in cui tutti devono
innovare, farsi imprenditori di se stessi a prescindere dalla utilità
sociale dell’innovazione. Chi pensava che con la rete si creasse
il general intellect marxiano non vedeva l’essenza di
un tecno-capitalismo – di una tecnica, soprattutto – che si faceva grande
narrazione globale nel tempo della fine delle grandi
narrazioni novecentesche. Io scrivo di tecno-capitalismo. Tu parli di
capitalismo bio-cognitivo…
A.F. Sì, e il mio libro inizia con
venti tesi su questa nuova forma di capitalismo, che si distacca
strutturalmente da quella precedete fordista pur essendone “figlia”. Il
capitalismo cognitivo riguarda il periodo della net-economy, con l'enfasi
sul ruolo della conoscenza e dello spazio virtuale (learning economies e network
economies) e solo dopo la crisi del marzo 2000 con lo scoppio della bolla
speculativa internettiana si cominciano a intravvedere le forme del capitalismo
bio-cognitivo attuale, fondato sulla riproduzione sociale e sulla biogenetica,
nonché l’intelligenza artificiale, la robotica, gli algoritmi per la manipolazione
dei dati. Ciò che si modifica è la base dell’accumulazione che va sempre
più a intaccare forme di vita che erano considerate fino ad allora improduttive
(welfare, consumo, formazione, tempo libero) e modifica il rapporto tecnologico
tra umano e macchinico.
L.D. Concordo. Il tecno-capitalismo
ha iniziato a estrarre valore dalla socialità delle persone
(era la parte della vita umana che ancora non era stata messa a profitto),
dal comune – come scrivi giustamente nel tuo libro – e ha
riscritto questa socialità innata facendola diventare materia prima per sé, ha
fatto credere che la rete fosse libera e democratica in sé e
ha creato una neo-lingua fatta di sharing, smart, social,
eccetera (alienandoci anche dal linguaggio e dal senso delle parole). Il
tecno-capitalismo è divenuto la forma di vita totalitaria del
mondo e di unnuovo uomo a una dimensione. Che crede di essere libero ma
in realtà è legato alle catene virtuali del nuovo ordine non solo capitalistico
ma, per me soprattutto tecnico (e la tecnica è molto più affascinante del
capitalismo). Come scriveva Günther Anders, quanto più è
assicurata la nostra illusione di libertà, tanto più totale è il potere e
meno vediamo l’ordine – o la weberiana gabbia d’acciaio o la
caverna platonica – in cui siamo rinchiusi.
A.F. Recuperare il concetto di
alienazione è molto importante per un’analisi critica del presente. Tale
concetto è l’altra faccia del processo di sfruttamento che oggi mi pare tanto
più pervasivo quanto più l’alienazione della tecnica diventa totalizzante. È
una relazione complessa perché è multiforme e quindi non definibile in
categorie omogenee come invece poteva avvenire nella fase fordista dove la
composizione tecnica del lavoro e quindi quella politica non era poliedrica.
Nel mio testo (specie nel terzo capitolo) cerco di enumerare le diverse forme
di sfruttamento (dall’estrazione, a forme di sussunzione reale e formale, alla
sussunzione finanziaria, all’imprinting). La mia tesi è che in un contesto
di valorizzazione bio-cognitiva, dove la finanza definisce l’ambito della
stessa valorizzazione, le forme della sussunzione e quindi le forme dello
sfruttamento si moltiplicano. E che tali diverse forme di sfruttamento danno
vita a un nuovo processo di sussunzione, che definisco sussunzione
vitale.
L.D. Da una parte c’è il capitalismo
delle piattaforme e l’uberizzazione del lavoro (il nuovo che non si può
fermare), tanto simile al vecchio fordismo ma che illude ciascuno di essere
imprenditore di se stesso, mentre è dipendente dalla piattaforma per tutto ciò
che riguarda l’organizzazione del suo lavoro e quindi è alienato senza saperlo;
e dall’altra parte le imprese e il sistema capitalista giocano con
la psiche umana alternando – attivandole in ciascuno – sia la voglia di differenziazione e
sia il bisognodi fare gruppo/squadra/comunità.
Così l’alienazione sembra scomparire; e il mascherarla permette
al sistema di ottenere poi un’intensificazione della prestazionalità/sfruttamento-autosfruttamento di
ciascuno quindi della sua produttività, quindi del profitto.
Far identificare ciascuno con il sistema è la forma più
perfetta per mascherare l’alienazione. Oggi raggiunto: nessuno parla più di
alienazione, neppure il sindacato (era il rammarico anche di Luciano Gallino).
Nel mio libro provo a riportare l’alienazione sulla scena.
A.F. A partire dal capitalismo delle
piattaforme (ma anche oltre), il comando sul lavoro definisce una nuova forma
di sfruttamento che rimanda a una nuova alienazione. Possiamo analizzare il
tema da due punti di vista, tra loro strettamene interdipendenti e che si
alimentano a vicenda: a. soggettivo b. economico-sociale (oggettivo?). Concordo
con la tua analisi: biopolitica disciplinante, performatività, narcisismo.
Aggiungerei anche la costruzione di immaginari basati sul falso mito della
meritocrazia e dell’economia della promessa. Si tratta di processi che hanno
l’obiettivo di plasmare una nuova soggettività antropologica, quella dell’homo
neliberalis, dove l’interazione umana tra individui non produce socialità
(quindi potenziale conflitto) ma sociabilità (per dirla con
Simmel), cioè l’attitudine a vivere in società ma senza essere sociale.
L.D. Soggettività neoliberale, sì;
ma soprattutto tecnica (pensiamo alla potenza
narrativa/libertaria di un personal computer e oggi degli
apparati individuali mobili): ma è una falsa soggettività, è un
falso individualismo perché siamo individui che hanno perso la capacità e
la possibilità di creare la propria individuazione e di
immaginare se stessi, da soli e insieme.
A.F. L’aspetto della tecnica lo
richiamerei anche con riferimento ai cambiamenti strutturali
nell’organizzazione del lavoro: femminilizzazione, individualizzazione
contrattuale come perno intorno a cui ruotano necessità di cooperazione sociale
e gerarchia. Nuovi dispositivi di controllo (qui il nesso con la biopolitica
disciplinante è evidente) centrati sull’autocontrollo: precarietà e
indebitamento. Tu scrivi: “i vecchi modi di intendere e analizzare
l’alienazione e la società della prestazione, da Marx alla Scuola di
Francoforte, sono necessari ancora oggi (con un tecno-capitalismo che torna a
sfruttare il lavoro e i lavoratori come e forse peggio dell’Ottocento)”.
Concordo, ma non è sufficiente. In un testo del 2010: Alienazione e
homo precarius nel capitalismo bio-cognitivo, scritto con Cristina Morini e
pubblicato su Millepiani, n. 37, si fa riferimento all’alienazione cerebrale
come esito della schizofrenia che pervade il lavoro cognitivo-relazionale, tra
standardizzazione tecnica e afflato/imperativo “performativo”. È in
questo ambito che diventa centrale il concetto di alienazione tecnologica. Ma
tale concetto è assimilabile all’idea marxiana di alienazione (nelle quattro
fattispecie che Marx individua) e in quella francofortese? O non è piuttosto un
nuovo tipo di alienazione, legata alla crescente ibridazione tra macchinico e
umano?
L.D. Alienati – nel senso di Marx,
ma non solo – sono i lavoratoriuberizzati nel capitalismo
delle piattaforme, ma anche quelli etero-motivati da un manager
della felicità; è chi si è fatto attore-comparsa nell’industria
culturale e nello spettacolare integrato 2.0; è l’uomo
portato a vivere in uno stato di perenne dinamizzazione e mobilitazione
– e precarizzazione – di se stesso adattandosi alle esigenze della
rivoluzione industriale e della divisione del lavoro (era il compito del
neoliberalismo secondo Walter Lippmann e gli ordoliberali); è chi delega la
sua vita a qualcosa che pensa per lui (e secondo Franklin Foer, dopo
l’automazione del lavoro siamo oggi all’automazione del pensiero, via
algoritmi). Anche nella Fabbrica-rete/sciame di oggi,si replica
quella che chiamo la legge ferrea del tecno-capitalismo:
individualizzare/separare/suddividere, per poi totalizzare/integrare/organizzare
il singolo in qualcosa di superiore. Mentre la società amministrata dei
francofortesi si realizza oggi nella rete tramite social, internet
delle cose (e degli uomini) e motori di ricerca. Per
questo ho cercato di rileggere la Teoria critica, attualissima
anche oggi.
A.F. Siamo in presenza di nuove forme di
sussunzione. La mia tesi è che sono compresenti sia sussunzione formale che
reale che danno origine alla sussunzione vitale (non totale). Vi è un
parallelismo con il concetto di “alienazione totale”? In ogni caso, il concetto
di alienazione tecnologica è centrale.
L.D. L’alienazione non muta le sue
forme, muta e si affina invece la capacità del sistema tecno-capitalista di
mascherarla. La divisione del lavoro e della vita psichica (l’individuo diventa
un divisum, scriveva già Anders) serve all’integrazione dell’uomo
in un apparato tecnico, in questo il tecno-capitalismo è, come ho scritto,
religioso e produce, per sé una nuova forma di teologia politica, la teologia
tecnica, tutto deve essere integrato nell’Uno del tecno-capitalismo. Per
questa logica perversa, anche l’uomo non deve essere più solo
un’appendice delle macchine, ma deve appunto ibridarsi con le macchine: non
sono più fisicamente separato dalla macchina che pure mi vuole far diventare
sua parte funzionale, ma sono parte integrata (quindi,
ancor più funzionale, eliminando ogni possibile resistenza) nella (e
non solo con la) macchina. Andiamo verso il post-umano? Sicuramente
verso la completa trasformazione delle forme tecniche in forme sociali.
A.F. Scrivi:“Ma le nuove forme del lavoro
sono in realtà nuove solo in apparenza (è sempre il doppio movimento …: che
strutturava il lavoro nel fordismo concentrato delle fabbriche così come
struttura e definisce il lavoro nel fordismo individualizzato ed esternalizzato/uberizzato
della fabbrica rete)”.
L.D. Le nuove forme di lavoro si
realizzano nel capitalismo delle piattaforme – sul quale
abbiamo qualche differenza - dove per me la piattaforma/fabbrica è il mezzo di
connessione e di produzione come lo era ieri la catena di montaggio. Ma è
proprio da questa logica – tecnica, prima che capitalista – di
individualizzazione e separazione che nasce la scomposizione delle classi e
l’evaporazione di ogni coscienza collettiva, ora incorporata e sublimata nello e dallo stesso
apparato tecnico.
A.F. Dai tuoi scritti, (ad
esempio La religione tecno-capitalista), mi sembra di ravvisare una
continuità strutturale tra la fase fordista e quella successiva (che non a caso
denomini ancora con il termine “fordismo”, seppur non più centralizzato
ma appunto individualizzato/esternalizzato), fondata sulla natura
tecnologica dell’organizzazione capitalistica. È sul piano
sovrastrutturale che si possono cogliere le differenze, nel momento in cui le
soggettività vengono plasmate in modo indiretto e non più direttamente dai
processi di standardizzazione taylorista, a svantaggio di“un individuo che non
deve essere libero, ma deve crederlo di esserlo”. Sostituirei il “deve” con il
“può”. A me pare che dalla crisi del fordismo-taylorismo si esca con una
rottura socio-economica discontinua e irreversibile, principalmente basata su
due aspetti: a. la totale smaterializzazione della moneta (il divenire “segno”
della moneta, e quindi la crisi della sua misura: dalla moneta credito alla
moneta finanza); b. la compenetrazione umano-macchina, ovvero il divenire umano
della macchina e il divenire macchinico dell'umano. Quali invece per te le
vie d’uscita?
L.D. Il tecno-capitalismo è dominato
dalla volontà di potenza. Richiamando lo Zarathustra di Nietzsche,
il sistema ci offre l’illusione di poter essere fanciulli cosmici (e
di poter dire: io sono!) affinché si sia sempre più cammelli (tu
devi, nella società della prestazione). Il tecno-capitalismo non conosce
limiti, è irresponsabile (il riscaldamento globale, le disuguaglianze
crescenti), è futurista/nichilista per essenza. Tende all’egemonia e al
dominio. Per uscire dalla grande alienazione occorre in primo
luogo riconoscerla; poi serve riconsiderare il concetto di limite ed
esercitare responsabilità nei confronti degli altri,
dell’ambiente e delle generazioni future. E governare i processi tecnici, per
non esserne governati. Dovremmo introdurre quindi – dopo la democrazia
politica ed economica (oggi in crisi) la democrazia tecnica,
la cui mancanza reputo essere la ragione della crisi
della democrazia politica ed economica.
A.F. Se il nostro obiettivo politico
è “migliorare” lo stato di cose presenti a favore della costruzione di una
comunità di uomini e donne liberi/e, autonomi e autodeterminati/e, le due
strategie che il secolo XX ci ha indicato non sono al momento percorribili: la
rivoluzione che porta alla presa del palazzo d’inverno (se oggi il palazzo
d’inverno è costituito dall’oligarchia finanziaria, assume essa una forma
materiale?) o il progetto riformista (ma oggi ogni riformismo viene sussunto
dal capitale, anche quando si presenta sotto la forma dell’antagonismo e
dell’anti-sistema e di conseguenza non è possibile definire un patto sociale se
non in termini di capitolazione e compatibilità). Di conseguenza, credo che
l’unica strada sia quella di sperimentare forme di autonomia inclusiva, ovvero
creare istituzioni autonome in grado di corrodere e bloccare i tentacoli della
voracità tecnologica e soggettiva del capitale, spazi di autodeterminazione
sufficientemente forti da non poter essere sussunti dal capitale. E perché ciò
sia possibile, non bastano criteri di auto-organizzazione produttiva fondata
sulla produzione di valori d’uso ma occorre soprattutto un’autonomia economica
e finanziaria. La moneta del comune ha lo scopo di creare le basi per essere
monetariamente autonomi e non dipendere dal potere finanziario e essere
soggetti alla sua violenza. Il welfare del comune (Commonfare) ha lo
scopo di consentire l’autodeterminazione libera e consapevole della persona,
garantendo incondizionatamente un reddito di base e l’accesso ai servizi
sociali e ai beni comuni che qualificano l’esistenza e rendono la vita degna di
essere vissuta. Si tratta di strumenti che non sono, in sé e per sé,
sufficienti se non inseriti in un fine più ampio.
Lelio
Demichelis, La
grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo,
Jaca Book_Collana Dissidenze, Pag. 283, € 25.00
Andrea
Fumagalli,Economia
politica del comune. Sfruttamento e sussunzione nel capitalismo
bio-cognitivo, DeriveApprodi, Pag. 237, € 18.00
riprendiamo questo confronto dalle pagine di www.alfabeta2.it