[da Benedetto Vecchi*]
\ analisi sulla privatizzazione dei
diritti sociali di cittadinanza attraverso la finanza: da un lato, acquisti sul
mercato pensione, assistenza sanitaria e formazione; dall’altro, credito al
consumo per assicurare che la costante riduzione dei salari non si traduca in
stagnazione
\ la c.d. «degenerazione» della tendenza oligopolista è un fattore essenziale per le imprese che hanno come orizzonte produttivo il mercato planetario, facendo leva su un numero di dipendenti inversamente proporzionale al fatturato: "Le diseguaglianze sociali sono cioè espressione di una crescita economica senza crescita di occupazione"
\ la c.d. «degenerazione» della tendenza oligopolista è un fattore essenziale per le imprese che hanno come orizzonte produttivo il mercato planetario, facendo leva su un numero di dipendenti inversamente proporzionale al fatturato: "Le diseguaglianze sociali sono cioè espressione di una crescita economica senza crescita di occupazione"
Il capitalismo estrattivo (e di piattaforma) è la forma attraverso la quale
la produzione di valore viene «realizzata» nelle forme dominanti della
ricchezza sociale (denaro e profitto). È in questo passaggio che la finanza ha
svolto e continuerà a svolgere un ruolo essenziale nel definire gerarchie
sociali e priorità nel regime di accumulazione capitalistico.
Dunque, la finanza non ha solo una funzione «parassitaria» rispetto alla tradizionale produzione di beni e servizi, bensì svolge un ruolo di coordinamento, di indispensabile infrastruttura alla stabilità – politica e, soprattutto, sociale – della produzione di merci. Quel che va però sottolineato è la dimensione abnorme, incontrollata, da spregiudicato rentier che la finanza ha ormai assunto nel capitalismo contemporaneo. Il nodo da sciogliere è se questa superfetazione abbia determinato o meno un mutamento «qualitativo» dei rapporti sociali capitalistici.
SONO QUESTE LE PREMESSE di un libro ambizioso che costituisce uno spartiacque nella produzione teorica dell’economista di origine italiana Mariana Mazzucato, che si è fatta largo nel rumore di fondo della teoria economica mainstream con il saggio sullo Stato innovatore (Laterza) dedicato al modo di produzione dell’innovazione tecnico-scientifica e sulle sue ricadute sociali. In quel testo, Mazzucato ribalta il punto di vista dominante, sostenendo che i finanziamenti statali per ricerca, sviluppo e formazione non sono improduttivi, perché senza di essi la rivoluzione della rete e tecnologica non ci sarebbe mai stata, con buona pace di chi spaccia per oro colato la favola di giovani intraprendenti che, al chiuso di maleodoranti garage, fanno la scoperta del secolo.
In questo libro, invece, pubblicato da Laterza con il titolo Il valore di tutto, l’economista si spinge molto più in là, alza cioè l’asticella delle difficoltà, per superarla, facendo leva su rigore analitico, una buona documentazione e una godibile vocazione narrativa che ne fanno un libro di agile lettura.
Il volume ha infatti molte chiavi di lettura. Può essere interpretato come una storia della teoria economica moderna (dai fisiocratici ai nostri giorni); una critica del neoliberismo economico; una appassionata difesa della teoria del valore vista come un filo rosso che inanella personaggi distanti tra loro come Adam Smith, David Ricardo, Karl Marx, Joseph Schumpeter, John Maynard Keynes. Ma è altrettanto evidente l’interrogazione costante del mutevole confine tra finanza e produzione, sul cosa sia il capitalismo estrattivo e cosa quello di piattaforma.
Un libro, infine, da mettere in tensione, relazione con le tesi sul capitalismo estrattivo emerse negli studi di economisti indiani, filosofi e sociologi latinoamericani e dalla confluenze di percorsi teorici italo-austrialiani come quelli di Sandro Mezzadra e Brett Nielsen, autori del saggio Confini e frontiere (Il Mulino) e di Politics of Operations, opera in corso di pubblicazione da parte di Duke University Press nel quale il capitalismo estrattivo è analizzato a partire dal ruolo della logistica e del polimorfismo del lavoro vivo (la moltitudine come problema e non come soluzione politica).
UN LESSICO e un frame teorico politico quelli di Mezzadra e Nielsen distanti dal linguaggio di Mazzucato, ma tuttavia capaci di cogliere potenzialità di liberazione da parte dei movimenti sociali che l’economista italiana relega invece solo a una dimensione istituzionale dell’agire politico.
Dunque, la finanza non ha solo una funzione «parassitaria» rispetto alla tradizionale produzione di beni e servizi, bensì svolge un ruolo di coordinamento, di indispensabile infrastruttura alla stabilità – politica e, soprattutto, sociale – della produzione di merci. Quel che va però sottolineato è la dimensione abnorme, incontrollata, da spregiudicato rentier che la finanza ha ormai assunto nel capitalismo contemporaneo. Il nodo da sciogliere è se questa superfetazione abbia determinato o meno un mutamento «qualitativo» dei rapporti sociali capitalistici.
SONO QUESTE LE PREMESSE di un libro ambizioso che costituisce uno spartiacque nella produzione teorica dell’economista di origine italiana Mariana Mazzucato, che si è fatta largo nel rumore di fondo della teoria economica mainstream con il saggio sullo Stato innovatore (Laterza) dedicato al modo di produzione dell’innovazione tecnico-scientifica e sulle sue ricadute sociali. In quel testo, Mazzucato ribalta il punto di vista dominante, sostenendo che i finanziamenti statali per ricerca, sviluppo e formazione non sono improduttivi, perché senza di essi la rivoluzione della rete e tecnologica non ci sarebbe mai stata, con buona pace di chi spaccia per oro colato la favola di giovani intraprendenti che, al chiuso di maleodoranti garage, fanno la scoperta del secolo.
In questo libro, invece, pubblicato da Laterza con il titolo Il valore di tutto, l’economista si spinge molto più in là, alza cioè l’asticella delle difficoltà, per superarla, facendo leva su rigore analitico, una buona documentazione e una godibile vocazione narrativa che ne fanno un libro di agile lettura.
Il volume ha infatti molte chiavi di lettura. Può essere interpretato come una storia della teoria economica moderna (dai fisiocratici ai nostri giorni); una critica del neoliberismo economico; una appassionata difesa della teoria del valore vista come un filo rosso che inanella personaggi distanti tra loro come Adam Smith, David Ricardo, Karl Marx, Joseph Schumpeter, John Maynard Keynes. Ma è altrettanto evidente l’interrogazione costante del mutevole confine tra finanza e produzione, sul cosa sia il capitalismo estrattivo e cosa quello di piattaforma.
Un libro, infine, da mettere in tensione, relazione con le tesi sul capitalismo estrattivo emerse negli studi di economisti indiani, filosofi e sociologi latinoamericani e dalla confluenze di percorsi teorici italo-austrialiani come quelli di Sandro Mezzadra e Brett Nielsen, autori del saggio Confini e frontiere (Il Mulino) e di Politics of Operations, opera in corso di pubblicazione da parte di Duke University Press nel quale il capitalismo estrattivo è analizzato a partire dal ruolo della logistica e del polimorfismo del lavoro vivo (la moltitudine come problema e non come soluzione politica).
UN LESSICO e un frame teorico politico quelli di Mezzadra e Nielsen distanti dal linguaggio di Mazzucato, ma tuttavia capaci di cogliere potenzialità di liberazione da parte dei movimenti sociali che l’economista italiana relega invece solo a una dimensione istituzionale dell’agire politico.
* da il manifesto "Il mutevole confine del capitalismo",17.11.18 - [ Per una lettura integrale clicca Qui]
Mariana Mazzucato , Il valore di tutto, Laterza (pp .364,
euro 20)