sabato 29 settembre 2018

LO STRANIERO E IL PRAETOR PEREGRINUS

NOTA SULLA SOGGETTIVITÀ GIURIDICA DELL’ ERRANTE
-t. casano / p. di lello-



\Questa figura ante litteram di “giudice naturale”, istituzione invece posta in essere in epoca contemporanea e sancita dalla “Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo”, oltreché prevista dalla “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali”, rispondeva in epoca imperiale alla necessità di tutelare anche lo straniero di fronte alla legge, del pari agli altri soggetti di diritto

Specificatamente l’ordinamento aveva istituito, a tutela di chi non rivestiva lo status di cittadino romano, la giurisdizione del Praetor peregrinus, ovvero l’autorità giudiziaria di riferimento, al quale lo straniero nel caso di insorgenza di lite poteva ricorrere o resistere, a seconda della posizione di parte rivestita in sede di giudizio: di attore o di convenuto.
L’originalità consisteva nel fatto che il Praetor peregrinus, nell’esame della controversia e nell’emissione del giudizio finale, dovesse tenere conto non solo dell’ordinamento giuridico imperiale, ma anche delle leggi, degli usi e delle consuetudini dei luoghi di origine dello straniero. In sostanza quest’ultimo poteva vantare la condizione giuridica dell’essere soggetto di diritto, riconosciuta anche dalla legge romana, opponendo il portato dell’apparato normativo su cui informava la conoscenza dei rapporti giuridici trasmessagli dalla sua comunità originaria. 
Questo dinamismo giurisprudenziale inclusivo consentiva uno sviluppo ordinamentale che travalicava il concetto della territorialità in senso costitutivo – diremmo oggi- della “nazionalità”. La capacità di armonizzazione delle diverse fonti di diritto ha reso possibile l’estensione dell’ordinamento romano su ampia scala. L’arricchimento giuridico in modo siffatto delle proprie istituzioni ha reso parimenti possibile la legittimazione della lex romana presso tutte le provincie dell’Impero financo alle estremità del limes imperiale, configurandosi come un vero e proprio diritto internazionale.
Insomma, proveniamo da una vicenda storica che per fortuna ci colloca ben oltre la miserevole rivendicazione sovraniste identitaria dello Stato-Nazione di questi tempi cupi, le cui radici affondano nel nazifascismo del recente passato. Ecco perché bisogna insistere sul riconoscimento della migranza errante e sulla necessità di rifondare il diritto internazionale dell’ospitalità verso la nuova erranza migratoria della nostra società globalizzata.

Ma guardiamo più da vicino il dispositivo giurisprudenziale dell'ordinamento imperiale. 
Con la conquista di estesi territori Roma ha avuto sempre la lungimiranza di integrare i popoli sottomessi e non ribelli. A questi concedeva prima la cittadinanza latina e poi la cittadinanza romana vera e propria per evitare che si sentissero esclusi all’interno di questo grande impero. Roma, in buona sostanza, come detto, praticava l’integrazione senza però imporre le proprie leggi e i propri costumi.
I popoli sottomessi conservavano il proprio sistema istituzionale e legislativo, i propri costumi e, fatto importante, i propri dei, a patto di riconoscere la sacralità degli dei romani e soprattutto dell’imperatore.
Roma ovviamente era il cuore dell’impero e il centro dei commerci e degli affari e in città confluivano solitamente da tutte le parti chi aveva interessi. Accadeva così che tra i romani e i “peregrini” (gli stranieri) o tra gli stessi peregrini, si intrecciassero relazioni commerciali e, di conseguenza, sorgessero controversie che dovevano essere risolte da un giudice.
Le controversie tra romani erano risolte da un pretore, appartenente, oggi diremmo, alla giurisdizione ordinaria, Una delle principali istituzioni giudiziarie però era il “praetor peregrinus” che aveva appunto il compito di giudicare e risolvere le controversie tra i cittadini romani e gli stranieri: si pensa anche che fosse il pretore “ordinario” ad assumere il ruolo di praetor peregrinus quando c’era da risolvere una di quelle controversie.
Il praetor peregrinus non giudicava direttamente, ma assegnava alle parti un giudice istruendolo sulla necessità di tener conto delle leggi romane ma anche delle leggi dello stato di provenienza del peregrinus, in una sorta di armonizzazione dei due sistemi giuridici. Le linee guida di questo tipo di procedimento, comunque, lo rendeva esplicito anche in un editto che emanava al momento di entrare in carica.
Il principio di equità era abbastanza chiaro: se si voleva l’integrazione non si poteva non tener conto della probabile ignoranza delle leggi romane da parte del peregrinus che, altrimenti, in caso contrario, sarebbe uscito sempre soccombente nella lite.
La conseguenza di questa armonizzazione si concretizzava, in fine, nel recepimento di alcune norme, così “combinate”, nel corpus di norme del diritto romano: una capacità di integrazione rispettosa della personalità del peregrinus e delle sue leggi, capace di influenzare lo stesso diritto romano, fino ad esaltare, senza nessun timore, la “contaminazione”.