CHIUDE
I PORTI ALLE ONG E APRE UN CONFLITTO CON MALTA
\Codice
della Navigazione - Omissione di soccorso - Articolo 1113. Questo è il reato che
si configurerebbe nella“vicenda-Aquarius”, fattispecie ben argomentata dall’autore
del ns abstract. In sostanza essendo stati fin da
principio investite le autorità italiane è a quest’ultime che si
attesta la piena giurisdizione del caso. Pertanto il governo italiano avrebbe dovuto
prestare “immediata assistenza alle persone soccorse nell’ambito di operazioni
coordinate dal Comando centrale della Guardia costiera italiana.
Assistenza che non può che essere prestata altrimenti che con lo sbarco in un POS (Place of safety), e che non può certo essere limitata ad interventi pseudo-umanitari come i rifornimenti dal mare”
Assistenza che non può che essere prestata altrimenti che con lo sbarco in un POS (Place of safety), e che non può certo essere limitata ad interventi pseudo-umanitari come i rifornimenti dal mare”
[…]
La Convenzione SAR di Amburgo del 1979
impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare ed il
dovere di sbarcare i naufraghi in un porto sicuro (place of safety)
indicato dal paese che ha assunto il ruolo di Autorità SAR competente.
Generalmente il primo paese che riceve le chiamate di soccorso è proprio
l’Italia. ed oggi queste chiamate arrivano soprattutto da assetti aeronavali
militari appartenenti a paesi dell’Unione Europea. Le operazioni di soccorso si
concludono soltanto con lo sbarco delle persone in un porto sicuro. Una nave di
soccorso è il luogo sicuro soltanto temporaneamente e lo sbarco deve avvenire
nel più breve tempo possibile.
Gli
Stati membri dell’IMO (International Maritime Organization), nel 2004,
hanno adottato emendamenti alle Convenzioni SOLAS e SAR, in base ai quali gli
Stati parte devono coordinarsi e cooperare per far sì che i comandanti delle
navi siano sollevati dagli obblighi di assistenza delle persone tratte in
salvo, con una minima ulteriore deviazione, rispetto alla rotta prevista. Malta
non ha accettato questi emendamenti. Le Linee guida sul trattamento delle
persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) dispongono
che il governo responsabile per la regione S.A.R. in cui sia avvenuto il
recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia
fornito.
Gli
emendamenti alle Convenzioni SOLAS e SAR, approvati dall’Italia ma non da
Malta, mirano a preservare l’integrità dei servizi di ricerca e soccorso
(SAR),garantendo che le persone in pericolo in mare vengano assistite e, allo
stesso tempo, riducendo al minimo gli inconvenienti per la nave che presta
assistenza. Essi richiedono agli Stati e alle Parti contraenti di coordinarsi e
cooperare per far sì che i comandanti delle navi che prestano assistenza,
imbarcando persone in difficoltà in mare, siano assistiti in modo da
organizzare lo sbarco al più presto.
“In alcune
occasioni particolarmente complesse, caratterizzate cioè da elevato numero di
migranti, dalla scarsità di vettori idonei a trasferire i migranti verso i
P.O.S., da avverse condizioni meteorologiche, è stata richiesta la
collaborazione e cooperazione ai Maritime Rescue Coordination Centre viciniori
(Malta e Tunisi) che tuttavia non hanno accolto la richiesta di sbarcare i
migranti soccorsi presso i propri porti. In particolare:
–
MRCC Tunisi ha declinato la richiesta di accogliere i migranti in quanto gli
stessi non erano di nazionalità tunisina né erano partiti dalle coste tunisine
e l’assetto intervenuto nelle operazioni SAR non batteva bandiera tunisina; in
aggiunta, ha dichiarato di non essere in grado di accogliere l’ingente numero
di migranti (578 in totale) a causa dello scarso preavviso ed in considerazione
della mancanza di strutture e risorse logistiche per l’accoglienza.
– MRCC Malta, invece, ha declinato la medesima richiesta
per non aver coordinato le operazioni SAR essendo le stesse avvenute al di
fuori della propria Search and Rescue Region.
È dunque
notorio come Malta non accetti lo sbarco di persone nel suo territorio, salvo
casi di assoluta emergenza sanitaria, se si tratta di soccorsi al di fuori
delle acque territoriali, al punto che nell’intero 2017 gli sbarchi a Malta
sono stati appena un centinaio. Persino le imbarcazioni della ONG maltese MOAS,
come quelle di Frontex, fino a quando sono rimaste operative, evitavano di
sbarcare a Malta le persone che soccorrevano in quella che pure è, sulla carta,
la vastissima zona SAR maltese. Malta adduce da tempo, d’altra parte, che per
le persone soccorse in quella che si definisce sulla carta come zona SAR
libica, la competenza ad indicare un porto di sbarco spetti alle autorità che
coordinano gli interventi di soccorso, dunque in casi come quello che oggi ha
esposto Aquarius ad un attacco concentrico, mediatico e politico, alle autorità
italiane. Già lo scorso anno la nave umanitaria Open Arms, aveva chiesto una
possibilità di sbarco a Malta, ricevendo un netto rifiuto. Eppure per qualcuno
sarebbero in torto quei comandanti delle ONG che non chiedono più a Malta una
possibilità di sbarco. Come se i comandanti delle navi umanitarie fossero
tenuti ad agire di propria iniziativa, in attività SAR coordinate dalla
Centrale operativa della guardia Costiera italiana (MRCC).
Dovrebbe
essere noto a tutti il caso di scuola della nave greca Salamis che nel 2013 si
vide rifiutato l’ingresso per lo sbarco dei naufraghi nel porto di Malta. Una
vicenda che precedette le stragi del 3 e dell’11 ottobre 2013,quest’ultima
dovuta proprio ad un conflitto di competenze tra
autorità maltesi ed italiane. Nel caso della nave greca Salamis le
autorità italiane, dopo una lunga trattativa con le autorità maltesi e greche,
offrivano in Italia un place of safety (POS) di sbarco ai 102
migranti salvati da un gommone in avaria al largo delle coste libiche e che il governo di Malta,
nonostante le pressioni europee, aveva respinto, asserendo che
si sarebbero dovuti consegnare alle autorità libiche nel porto “più vicino” di
Khoms.
Nella
prassi, le autorità maltesi hanno fatto sovente riferimento ad accordi
con la Libia stipulati nel 2009, un anno dopo la stipula del Trattato di
amicizia tra Berlusconi e Gheddafi, ed all’esistenza di una zona SAR libica,
quando si trattava invece di interventi di ricerca e soccorso che si svolgono
al di fuori della pur vasta zona SAR attribuita a Malta.
Ma dall’avvio dell’operazione Mare Nostrum, nel mese di
ottobre del 2013, la prassi era ormai consolidata nel senso che le autorità
maltesi non venivano più richieste di indicare un luogo di sbarco nel proprio
territorio. Ed anche negli anni successivi, nessuna delle numerose navi di
Frontex o di Eunavfor Med coinvolte in operazioni SAR, coordinate dalla
Centrale operativa della Guardia Costiera italiana, ha mai sbarcato a Malta
persone soccorse in acque internazionali.
Leanza e Caffio osservano
nel 2014 come “Malta abbia dichiarato per innumerevoli occasioni la propria
indisponibilità, anche a distanza di ore dalla segnalazione italiana”]. Abbiamo già ricordato il rifiuto
di sbarco avanzato dalle autorità maltesi nel 2013, poco prima della strage dell’11 ottobre,
nei confronti del mercantile Salamis carico di
naufraghi, che poi furono sbarcati in Italia. Da allora ad oggi
non risulta che le posizioni dei governi maltesi siano cambiate, al punto che
negli ultimi anni si è registrato un costante calo degli sbarchi nell’”Isola
dei Cavalieri” e lo scorso anno le persone soccorse in mare e sbarcate in
quell’isola non sono state più di un centinaio. In termini percentuali, Malta ha un numero di
rifugiati assai elevato, rispetto alla percentuale italiana, per il basso
numero degli abitanti rispetto al nostro paese. Un dato che in
queste ore sembra completamente travisato.
Come nota De Sena,
per quanto possa in astratto succedere che uno stato competente per il
coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio in mare rifiuti di
indicare un porto sicuro di sbarco, che non è necessariamente il porto più
vicino,
”la chiusura dei porti italiani implicherebbe
necessariamente una serie di conseguenze sul piano del rispetto di norme
internazionali sui diritti umani e sulla protezione dei rifugiati. Vari
elementi permettono infatti di considerare che l’Italia eserciterebbe, de jure
e de facto, sulle imbarcazioni in parola, poteri idonei ad incidere sul
godimento effettivo di diritti elementari da parte di coloro che si trovino a
bordo. In altri termini, questi ultimi, pur tenuti fuori dai porti italiani,
non mancherebbero di rientrare nella giurisdizione italiana, ai sensi
dell’articolo 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, così come
interpretato nella giurisprudenza rilevante. Nel caso Women on Waves c. Portogallo,
la Corte non ha esitato a valutare nel merito la violazione dell’art. 10
derivante dal divieto di accesso al mare territoriale imposto dalle autorità
portoghesi alla nave olandese Borndiep, ritenendo (sia pure) implicitamente che
tale divieto costituisse un esercizio di giurisdizione ai sensi dell’art. 1
della Convenzione (§ 22 della sentenza del 3 febbraio 2009). All’analogia con
questo caso va aggiunto che la dichiarazione del rappresentante italiano si
riferisce a un divieto di accesso ai porti, ovvero alle acque interne; ciò che
lascia intendere che le imbarcazioni interessate abbiano già raggiunto le acque
territoriali italiane. Anche a voler negare il carattere di
precedente della sentenza Women on Waves, in ragione del fatto che la questione
della carenza di giurisdizione non era stata espressamente sollevata dal
Portogallo (elemento peraltro non decisivo, visto che le ragioni di
inammissibilità sono sempre rilevabili d’ufficio dalla Corte), ulteriori
circostanze sembrano corroborare la tesi secondo cui le imbarcazioni che
chiedono l’autorizzazione di ingresso in porto, dopo essere state soccorse,
rientrano nella giurisdizione dello Stato italiano.
Infatti, come
responsabile della zona SAR di soccorso – o anche nel caso in cui il soccorso
sia avvenuto al di fuori della zona SAR italiana, ma comunque su impulso di un
SOS diramato dall’MRCC (Comando generale del Corpo della Capitanerie di Porto)
di Roma – l’Italia risulta essere il Paese giuridicamente responsabile del
coordinamento dei soccorsi ed è dunque lo Stato che esercita, «conformemente al
diritto internazionale», le funzioni esecutive che tale coordinamento comporta (v. mutatis
mutandis, Al-Skeini c. Regno Unito e Jaloud c. Paesi Bassi).
In base a queste considerazioni la consumata minaccia di chiusura
dei porti italiani[NdN] potrebbe comportare gravi profili di
responsabilità a carico dei vari soggetti, da identificare,
artefici della complessa catena di comando che si dovrebbe attivare per rendere
esecutiva tale decisione. A partire dalla possibile configurabilità del reato
di omissione di soccorso previsto dall’articolo 593 del Codice Penale e
dall’art. 1113 del Codice della Navigazione, qualora la ritardata od omessa
indicazione del POS da parte delle autorità italiane si traduca nella
impossibilità di fare fronte alle emergenze sanitarie presenti nella maggior
parte dei casi a bordo delle navi che intervengono in operazioni SAR in acque
internazionali. È a tutti nota infatti la condizione attuale
delle persone che riescono a fuggire
dalla Libia, e ritardi di giorni nello sbarco a terra possono
avere effetti letali, malgrado il prodigarsi degli equipaggi delle navi
soccorritrici. Sono le ragioni che hanno spinto il GIP ed il Tribunale di Ragusa a ritenere
la Libia come uno stato (ammesso che si possa parlare di uno stato) privo di
luoghi sicuri di sbarco (Place of safety).
Occorre
ricordare anche la Convenzione di Ginevra ed il principio di non respingimento
( art. 33 ). Se uno Stato respinge una nave di migranti irregolari che ha fatto
ingresso nelle proprie acque territoriali senza controllare se a bordo vi siano
dei richiedenti asilo e senza esaminare se essi possiedano i requisiti minimi
per il riconoscimento dello status di rifugiato, commette una violazione del
principio di non respingimento sancito dall’art. 33 par. 1 della Convenzione
del 1951 se i territori (Stati terzi o alto mare) verso cui la nave è respinta
non offrono garanzie sufficienti per l’incolumità dei migranti, o anche
soltanto per la possibilità di accoglienza e di accesso ad una procedura di
asilo. Ma soprattutto, se gli ordini di Salvini si imporranno anche dopo
la scadenza elettorale, sarebbe violato l’inalienabile diritto delle persone,
quale che sia il loro stato giuridico, “a non subire trattamenti inumani o
degradanti”, che potrebbero ben configurarsi qualora a seguito di un ennesimo
braccio di ferro tra gli stati, la loro permanenza a bordo dovesse procurare
loro ulteriori sofferenze, se non rischi per la salute o per la stessa vita. E
per la violazione del divieto di trattamenti disumani od degradanti , imposto
agli stati nei confronti di tutte le persone che ricadono nella loro
giurisdizione, come qualunque migrante soccorso in operazioni coordinate da una
autorità statale, si potrebbero ipotizzare ricorsi alla Corte Europea dei
diritti dell’Uomo. Mentre se il conflitto tra gli stati nella individuazione di
un POS ( porto sicuro di sbarco) si dovesse ripetere, dovrebbe occuparsene la
Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Se
qualcuno spera di ricattare i vertici di Bruxelles per estorcere una modifica
del Regolamento Dublino giocando sulla pelle dei disperati raccolti in mare
dalle navi delle ONG, e poi si allea con quei governi sovranisti, come Orban in
Ungheria e Kurz in Austria, che hanno bloccato qualunque modifica migliorativa
dello stesso Regolamento, bocciando le proposte di compromesso del Parlamento
europeo, compie una operazione disumana, falsificatricee priva di
prospettiva politica. L’Unione Europea diventerà ancora una volta terreno di
scontro elettorale e se queste linee nazionaliste prevarrano, magari con le
elezioni del prossimo anno, alle quali guarda già Salvini, sarà il sucidio
dell’Europa. Saranno anche gli entusiasti elettori dei partiti populisti e
sovranisti che ne pagheranno le conseguenze, ancora più gravi della possibile
fine dell’euro.
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