giovedì 14 giugno 2018

abstract&screening\ SALVINI CONTRO IL DIRITTO INTERNAZIONALE

-fulvio vassallo paleologo-
CHIUDE I PORTI ALLE ONG E APRE UN CONFLITTO CON MALTA 

\Codice della Navigazione - Omissione di soccorso - Articolo 1113.  Questo è il reato che si configurerebbe nella“vicenda-Aquarius”, fattispecie ben argomentata dall’autore del ns abstract. In sostanza essendo stati fin da principio investite le autorità italiane è a quest’ultime che si attesta la piena giurisdizione del caso. Pertanto il governo italiano avrebbe dovuto prestare “immediata assistenza alle persone soccorse nell’ambito di operazioni coordinate dal Comando centrale della Guardia costiera italiana.
Assistenza che non può che essere prestata altrimenti che con lo sbarco in un POS (Place of safety), e che non può certo essere limitata ad interventi pseudo-umanitari come i rifornimenti dal mare”


[…] La Convenzione SAR di Amburgo  del 1979  impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare ed il dovere di sbarcare i naufraghi in un porto sicuro (place of safety) indicato dal paese che ha assunto il ruolo di Autorità SAR competente. Generalmente il primo paese che riceve le chiamate di soccorso è proprio l’Italia. ed oggi queste chiamate arrivano soprattutto da assetti aeronavali militari appartenenti a paesi dell’Unione Europea. Le operazioni di soccorso si concludono soltanto con lo sbarco delle persone in un porto sicuro. Una nave di soccorso è il luogo sicuro soltanto temporaneamente e lo sbarco deve avvenire nel più breve tempo possibile.
Gli Stati membri dell’IMO (International Maritime Organization), nel 2004, hanno adottato emendamenti alle Convenzioni SOLAS e SAR, in base ai quali gli Stati parte devono coordinarsi e cooperare per far sì che i comandanti delle navi siano sollevati dagli obblighi di assistenza delle persone tratte in salvo, con una minima ulteriore deviazione, rispetto alla rotta prevista. Malta non ha accettato questi emendamenti.  Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) dispongono che il governo responsabile per la regione S.A.R. in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito.
Gli emendamenti alle Convenzioni SOLAS e SAR, approvati dall’Italia ma non da Malta, mirano a preservare l’integrità dei servizi di ricerca e soccorso (SAR),garantendo che le persone in pericolo in mare vengano assistite e, allo stesso tempo, riducendo al minimo gli inconvenienti per la nave che presta assistenza. Essi richiedono agli Stati e alle Parti contraenti di coordinarsi e cooperare per far sì che i comandanti delle navi che prestano assistenza, imbarcando persone in difficoltà in mare, siano assistiti in modo da organizzare lo sbarco al più presto.

“In alcune occasioni particolarmente complesse, caratterizzate cioè da elevato numero di migranti, dalla scarsità di vettori idonei a trasferire i migranti verso i P.O.S., da avverse condizioni meteorologiche, è stata richiesta la collaborazione e cooperazione ai Maritime Rescue Coordination Centre viciniori (Malta e Tunisi) che tuttavia non hanno accolto la richiesta di sbarcare i migranti soccorsi presso i propri porti. In particolare:
– MRCC Tunisi ha declinato la richiesta di accogliere i migranti in quanto gli stessi non erano di nazionalità tunisina né erano partiti dalle coste tunisine e l’assetto intervenuto nelle operazioni SAR non batteva bandiera tunisina; in aggiunta, ha dichiarato di non essere in grado di accogliere l’ingente numero di migranti (578 in totale) a causa dello scarso preavviso ed in considerazione della mancanza di strutture e risorse logistiche per l’accoglienza.
– MRCC Malta, invece, ha declinato la medesima richiesta per non aver coordinato le operazioni SAR essendo le stesse avvenute al di fuori della propria Search and Rescue Region.

È   dunque notorio come Malta non accetti lo sbarco di persone nel suo territorio, salvo casi di assoluta emergenza sanitaria, se si tratta di soccorsi al di fuori delle acque territoriali, al punto che nell’intero 2017 gli sbarchi a Malta sono stati appena un centinaio. Persino le imbarcazioni della ONG maltese MOAS, come quelle di Frontex, fino a quando sono rimaste operative, evitavano di sbarcare a Malta le persone che soccorrevano in quella che pure è, sulla carta, la vastissima zona SAR maltese. Malta adduce da tempo, d’altra parte, che per le persone soccorse in quella che si definisce sulla carta come zona SAR libica, la competenza ad indicare un porto di sbarco spetti alle autorità che coordinano gli interventi di soccorso, dunque in casi come quello che oggi ha esposto Aquarius ad un attacco concentrico, mediatico e politico, alle autorità italiane. Già lo scorso anno la nave umanitaria Open Arms, aveva chiesto una possibilità di sbarco a Malta, ricevendo un netto rifiuto. Eppure per qualcuno sarebbero in torto quei comandanti delle ONG che non chiedono più a Malta una possibilità di sbarco. Come se i comandanti delle navi umanitarie fossero tenuti ad agire di propria iniziativa, in attività SAR coordinate dalla Centrale operativa della guardia Costiera italiana (MRCC).
Dovrebbe essere noto a tutti il caso di scuola della nave greca Salamis che nel 2013 si vide rifiutato l’ingresso per lo sbarco dei naufraghi nel porto di Malta. Una vicenda che precedette le stragi del 3 e dell’11 ottobre 2013,quest’ultima dovuta proprio ad un conflitto di competenze tra autorità maltesi ed italiane. Nel caso della nave greca Salamis le autorità italiane, dopo una lunga trattativa con le autorità maltesi e greche, offrivano in Italia un place of safety (POS) di sbarco ai 102 migranti salvati da un gommone in avaria al largo delle coste libiche e che il governo di Malta, nonostante le pressioni europee, aveva respinto, asserendo che si sarebbero dovuti consegnare alle autorità libiche nel porto “più vicino” di Khoms.
Nella prassi, le autorità maltesi hanno fatto sovente riferimento ad accordi con la Libia stipulati nel 2009, un anno dopo la stipula del Trattato di amicizia tra Berlusconi e Gheddafi, ed all’esistenza di una zona SAR libica, quando si trattava invece di interventi di ricerca e soccorso che si svolgono al di fuori della pur vasta zona SAR attribuita a Malta. Ma dall’avvio dell’operazione Mare Nostrum, nel  mese di ottobre del 2013, la prassi era ormai consolidata nel senso che le autorità maltesi non venivano più richieste di indicare un luogo di sbarco nel proprio territorio. Ed anche negli anni successivi, nessuna delle numerose navi di Frontex o di Eunavfor Med coinvolte in operazioni SAR, coordinate dalla Centrale operativa della Guardia Costiera italiana, ha mai sbarcato a Malta persone soccorse in acque internazionali.
Leanza e Caffio osservano nel 2014 come “Malta abbia dichiarato per innumerevoli occasioni la propria indisponibilità, anche a distanza  di ore dalla segnalazione italiana”].  Abbiamo già ricordato il rifiuto di sbarco avanzato dalle autorità maltesi nel 2013, poco prima della strage dell’11 ottobre, nei confronti del mercantile Salamis carico di naufraghi, che poi furono sbarcati in Italia. Da allora ad oggi non risulta che le posizioni dei governi maltesi siano cambiate, al punto che negli ultimi anni si è registrato un costante calo degli sbarchi nell’”Isola dei Cavalieri” e lo scorso anno le persone soccorse in mare e sbarcate in quell’isola non sono state più di un centinaio. In termini percentuali, Malta ha un numero di rifugiati assai elevato, rispetto alla percentuale italiana, per il basso numero degli abitanti rispetto al nostro paese. Un dato che in queste ore sembra completamente travisato.
Come nota De Sena, per quanto possa in astratto succedere che uno stato competente per il coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio in mare rifiuti di indicare un porto sicuro di sbarco, che non è necessariamente il porto più vicino, 

la chiusura dei porti italiani implicherebbe necessariamente una serie di conseguenze sul piano del rispetto di norme internazionali sui diritti umani e sulla protezione dei rifugiati. Vari elementi permettono infatti di considerare che l’Italia eserciterebbe, de jure e de facto, sulle imbarcazioni in parola, poteri idonei ad incidere sul godimento effettivo di diritti elementari da parte di coloro che si trovino a bordo. In altri termini, questi ultimi, pur tenuti fuori dai porti italiani, non mancherebbero di rientrare nella giurisdizione italiana, ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, così come interpretato nella giurisprudenza rilevante. Nel caso Women on Waves c. Portogallo, la Corte non ha esitato a valutare nel merito la violazione dell’art. 10 derivante dal divieto di accesso al mare territoriale imposto dalle autorità portoghesi alla nave olandese Borndiep, ritenendo (sia pure) implicitamente che tale divieto costituisse un esercizio di giurisdizione ai sensi dell’art. 1 della Convenzione (§ 22 della sentenza del 3 febbraio 2009). All’analogia con questo caso va aggiunto che la dichiarazione del rappresentante italiano si riferisce a un divieto di accesso ai porti, ovvero alle acque interne; ciò che lascia intendere che le imbarcazioni interessate abbiano già raggiunto le acque territoriali italiane. Anche a voler negare il carattere di precedente della sentenza Women on Waves, in ragione del fatto che la questione della carenza di giurisdizione non era stata espressamente sollevata dal Portogallo (elemento peraltro non decisivo, visto che le ragioni di inammissibilità sono sempre rilevabili d’ufficio dalla Corte), ulteriori circostanze sembrano corroborare la tesi secondo cui le imbarcazioni che chiedono l’autorizzazione di ingresso in porto, dopo essere state soccorse, rientrano nella giurisdizione dello Stato italiano. 
Infatti, come responsabile della zona SAR di soccorso – o anche nel caso in cui il soccorso sia avvenuto al di fuori della zona SAR italiana, ma comunque su impulso di un SOS diramato dall’MRCC (Comando generale del Corpo della Capitanerie di Porto) di Roma – l’Italia risulta essere il Paese giuridicamente responsabile del coordinamento dei soccorsi ed è dunque lo Stato che esercita, «conformemente al diritto internazionale», le funzioni esecutive che tale coordinamento comporta (v. mutatis mutandisAl-Skeini c. Regno Unito e Jaloud c. Paesi Bassi).

In base a queste considerazioni la consumata minaccia di chiusura dei porti italiani[NdN]  potrebbe comportare gravi profili di responsabilità a carico dei vari soggetti, da identificare, artefici della complessa catena di comando che si dovrebbe attivare per rendere esecutiva tale decisione. A partire dalla possibile configurabilità del reato di omissione di soccorso previsto dall’articolo 593 del Codice Penale e dall’art. 1113 del Codice della Navigazione, qualora la ritardata od omessa indicazione del POS da parte delle autorità italiane si traduca nella impossibilità di fare fronte alle emergenze sanitarie presenti nella maggior parte dei casi a bordo delle navi che intervengono in operazioni SAR in acque internazionali. È   a tutti nota infatti la condizione attuale delle persone che riescono a fuggire dalla Libia, e ritardi di giorni nello sbarco a terra possono avere effetti letali, malgrado il prodigarsi degli equipaggi delle navi soccorritrici. Sono le ragioni che hanno spinto il GIP ed il Tribunale di Ragusa a ritenere la Libia come uno stato (ammesso che si possa parlare di uno stato) privo di luoghi sicuri di sbarco (Place of safety).
Occorre ricordare anche la Convenzione di Ginevra ed il principio di non respingimento ( art. 33 ). Se uno Stato respinge una nave di migranti irregolari che ha fatto ingresso nelle proprie acque territoriali senza controllare se a bordo vi siano dei richiedenti asilo e senza esaminare se essi possiedano i requisiti minimi per il riconoscimento dello status di rifugiato, commette una violazione del principio di non respingimento sancito dall’art. 33 par. 1 della Convenzione del 1951 se i territori (Stati terzi o alto mare) verso cui la nave è respinta non offrono garanzie sufficienti per l’incolumità dei migranti, o anche soltanto per la possibilità di accoglienza e di accesso ad una procedura di asilo. Ma soprattutto, se gli ordini di Salvini si imporranno anche dopo la scadenza elettorale, sarebbe violato l’inalienabile diritto delle persone, quale che sia il loro stato giuridico, “a non subire trattamenti inumani o degradanti”, che potrebbero ben configurarsi qualora a seguito di un ennesimo braccio di ferro tra gli stati, la loro permanenza a bordo dovesse procurare loro ulteriori sofferenze, se non rischi per la salute o per la stessa vita. E per la violazione del divieto di trattamenti disumani od degradanti , imposto agli stati nei confronti di tutte le persone che ricadono nella loro giurisdizione, come qualunque migrante soccorso in operazioni coordinate da una autorità statale, si potrebbero ipotizzare ricorsi alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Mentre se il conflitto tra gli stati nella individuazione di un POS ( porto sicuro di sbarco) si dovesse ripetere, dovrebbe occuparsene la Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Se qualcuno spera di ricattare i vertici di Bruxelles per estorcere una modifica del Regolamento Dublino giocando sulla pelle dei disperati raccolti in mare dalle navi delle ONG, e poi si allea con quei governi sovranisti, come Orban in Ungheria e Kurz in Austria, che hanno bloccato qualunque modifica migliorativa dello stesso Regolamento, bocciando le proposte di compromesso del Parlamento europeo, compie una operazione disumana, falsificatricee  priva di prospettiva politica. L’Unione Europea diventerà ancora una volta terreno di scontro elettorale e se queste linee nazionaliste prevarrano, magari con le elezioni del prossimo anno, alle quali guarda già Salvini, sarà il sucidio dell’Europa. Saranno anche gli entusiasti elettori dei partiti populisti e sovranisti che ne pagheranno le conseguenze, ancora più gravi della possibile fine dell’euro.

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