LA SFIDA FEMMINILE ALLO STATALISMO
Ribaltare
la legittimazione del discorso dell’odio\ Ribaltare l’“obbedienza promiscua” a
“trasmissioni aberranti”\ Riconoscere e
valorizzare le comuni esistenze con
l’altro e con l’altra\ “Tutti quelli che sono qui mi approverebbero, se il
timore non frenasse le lingue. Ma la tirannide fra molti altri vantaggi ha
anche quello di fare e dire ciò che vuole”
L’imbarcazione
della marina americana Trenton ha soccorso 40 persone in mezzo al mare. Li ha
accolti a bordo martedì, dopo che un gommone che li trasportava si era
rovesciato, al largo della Libia. Ha chiesto supporto alla nave della ong Sea
Watch, che l’ha raggiunta, portando cibo e coperte, ma non si è fatta carico
dei sopravvissuti in assenza di un porto sicuro dove attraccare. Roma non lo
aveva concesso. Dopo due giorni, la nave americana è stata costretta a
scaricare in mare i corpi dei migranti deceduti e in queste ore si sta
dirigendo verso Augusta. Trasporta i superstiti, ma non ha celle frigorifere,
perciò ha abbandonato i morti tra le onde. La sepoltura di questi corpi che non
contano è stata affidata al Mediterraneo, come in così tanti altri casi che non
riusciamo più a tenere il conto.
Dopo
ciò che è successo alla Aquarius, come ha ricostruito Gennaro Avallone su
questo stesso sito, le dichiarazioni di chi opera in mare si fanno caute, e
terribili: “Morti non possiamo prenderne, non abbiamo celle. E i superstiti li
prendiamo solo se ci assegnano contestualmente un porto sicuro che non sia più
lontano di 36 ore di navigazione”. La proibizione di approdi sulle cose
italiane, imposta del governo leghista, genera ovvie esitazioni e obbligate
omissioni. L’abbandono dei corpi dei defunti è considerata una decisione
estrema nel diritto del mare ma d’altro lato le ong vengono “minacciate” da
Salvini di ricevere “lo stesso trattamento dell’Aquarius”.
Ho
ripreso in mano Antigone e riletto il discorso con cui si
oppone al tiranno Creonte, dopo aver disobbedito all’editto che proibiva la
sepoltura del corpo del fratello Polinice, considerato un traditore e
abbandonato da straniero, allo strazio dei corvi e agli avvoltoi,
fuori dalle mura di Tebe: “Non fu Zeus a imporre tale proibizione, né fu la
Giustizia pia, che abita sotterra, a fissar tale legge. Non potevo pensare che
i tuoi proclami potessero violare quelle leggi del Cielo non scritte che non da
oggi e da ieri, ma da sempre, sugli uomini si ergono immortali. Queste leggi
non sono di oggi o di ieri: da sempre esse Sono; non si sa da
quando siano apparse. Avrei potuto affrontare il furore dei numi per timore di
un uomo arrogante?”[1].
Ho
ripreso in mano Judit Butler che rilegge Antigone e afferma: “Riflettevo su
questa figura domandandomi dei tentativi del femminismo di confrontarsi con lo
Stato e di sfidarlo. Mi pareva che Antigone potesse contrapporsi alla tendenza
a cercare l’appoggio della autorità dello Stato e delle istituzioni per
realizzare gli scopi politici del femminismo per i quali le nuove femministe
lottavano […] In realtà troviamo Antigone difesa e sostenuta da Luce Irigaray
che la identifica con il principio della sfida femminile allo statalismo e
ne fa un esempio di antiautoritarismo”[2].
I
tempi in cui ci è dato di vivere richiedono che noi si ritrovi
un universo valoriale e simbolico che sostenga la durezza e il pericolo della
sfida al potere e l’atto di rivendicarla. Ci sono state mobilitazioni immediate
in questi giorni, alcune città, italiane ed europee, e i loro sindaci, si sono
dati disponibili ad accogliere le navi ostracizzate da Salvini, un movimento di città solidali sta
assumendo un profilo. Nella giornata di ieri –io debbo scriverlo perché
trovare parole che sostengano gli atti è
fondamentale e ciò che deve spaventare è solo l’annichilimento – ho sentito il
Papa denunciare in modo esplicito l’orrore di tali momenti, appositamente
creati perché si generi la paura dell’altro, del povero “gente
portatrice di insicurezza, instabilità, disorientamento dalle abitudini
quotidiane e, pertanto, da respingere e tenere lontani”. Ha accusato “il nostro
essere talmente intrappolati in una cultura che obbliga a guardarsi allo
specchio e ad accudire oltremisura sé stessi, da ritenere che un gesto di
altruismo possa bastare a rendere soddisfatti, senza lasciarsi compromettere
direttamente”.
Compromettersi
direttamente. Agire. Sappiamo da tempo che i cambiamenti che un periodo come
questo richiedono – e sempre più richiederanno – implicano una rivoluzione che
passi, prima di tutto, attraverso ciascuna e ciascuno di noi. Michel Foucault
ci ha messo in guardia dal nemico ricorrente che possiamo trovarci davanti (dentro),
“l’avversario strategico”: “il fascismo […]. E non soltanto il
fascismo storico di Hitler e Mussolini, che ha saputo mobilitare e impiegare
così bene il desiderio delle masse, ma anche il fascismo che è in noi, che
possiede i nostri spiriti e le nostre condotte quotidiane, il fascismo che ci
fa amare il potere, desiderare proprio la cosa che ci domina e ci sfrutta”[3].
“Come
liberare i nostri discorsi e i nostri atti, i nostri cuori e i nostri desideri
dal fascismo? Come lavar via il fascismo che si è
incrostato nel nostro comportamento?” chiede Foucault.
Ribaltare
la legittimazione del discorso dell’odio. Ribaltare l’“obbedienza promiscua” a
“trasmissioni aberranti”.
Riconoscere e valorizzare quelle che sono già le relazioni negli spazi, nei
quartieri, nelle comuni esistenze, con l’altro, con l’altra. Le
esperienze materiali tra corpi e corpi che innervano la realtà quotidiana sono
assolutamente più avanti dell’ottusità dei governanti. Riconoscere che è
l’identica precarietà e povertà prodotta dal potere quella che ci sta
ammazzando, da una parte o dall’altra del mare. Rafforzare le reti dissidenti.
È insomma, ancora, la radice della rivendicazione di Antigone: “Tutti quelli
che sono qui mi approverebbero, se il timore non frenasse le lingue. Ma la
tirannide fra molti altri vantaggi ha anche quello di fare e dire ciò che
vuole”.
Siamo
tormentati dalle nostre solitudini, dalle spirali del silenzio generate dal
dispositivo di precarietà, che impone il “quieto vivere” individualista ma non
produce alcuna pace, neppure un lieve sollievo.
Creonte
incalza Antigone: “Tu non ti vergogni a volerti diversa da loro?”.
Nasce,
una volta di più, proprio oggi, proprio qui, il tema della disobbedienza e del
coraggio, che è anche il tema dell’orgoglio di incarnare un’idea diversa del
mondo e dei rapporti sociali. Va denunciato il problema etico e politico di
questo Paese che si sta inabissando verso la disumanità, non riconoscendo
accoglienza né ai vivi né ai morti. Non accettare, non abituarsi
all’orrore, avendo presente che tutto è già successo e che non si può rischiare
di essere complici. Rifiutare di ritualizzare la catastrofe, rimanendo
spettatori e spettatrici sulla sponda, ma trovando, viceversa, parole e azioni
per immaginare e costruire un differente epilogo. Capire allora bene,
innanzitutto, e combattere, gli atteggiamenti che ci “normalizzano” e ci
portano ad accettare storture sociali e molteplici ingiustizie, rifugiandoci in
una finzione di tranquillità che “non basta a rendere buona una vita cattiva”
(Liana Borghi).
NOTE
[1] Sofocle, Edipo re –
Edipo a Colono – Antigone, a cura di Dario Del Corno, Oscar Mondadori,
Milano 2006, secondo episodio, vv. 376-581
[2] J. Butler, La
rivendicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la morte, Bollati
Boringhieri, Torino 2003, pag. 11
[3] Michel
Foucault Prefazione alla traduzione americana di “Anti Edipo –
Capitalismo e schizofrenia (Les éditions de Minuit, Paris, 1972) di Gilles
Deleuze e Félix Guattari, 1977.