di Ferruccio Gambino-
Questo
abstrat della prefazione al volume collettaneo Il Regime del Salario (Asterios Editore, Trieste -2005),
coerentemente a quanto premette l’autore, “vuole limitarsi a offrire qualche
coordinata per rammentare che il fenomeno di frammentazione della forza-lavoro
è in realtà una serie di tentativi che procedono da tempo e che vanno di pari
passo con più aggressivi esperimenti in altri continenti e in particolare nell’Asia
orientale”1
(...) Quando
nel 1931 Pierre Laval, allora primo ministro francese (e futuro primo ministro
filonazista del regime di Vichy), andava dicendo che la Grande Depressione non
toccava la Francia sottintendeva che, con il benevolo concorso dei poteri
pubblici e privati, la crisi stava già ricadendo sulle spalle degli immigrati e
di quei francesi che non disponevano di strumenti politici per contrastare il
deterioramento sociale. Oggi non c’è più il Laval del 1931 ma ci sono i
disoccupatori e i precarizzatori dell’Eurozona su commissariamento di
Bruxelles. In breve, pare che sia diventato decente che quanti siedono al
comando nell’Eurozona si mostrino affranti dalla disoccupazione e dalla
precarizzazione, molto meno affranti dai profughi.
La
cifra cruciale di questa «preoccupazione» ha un nome e si chiama NAWRU (Non-Accelerating Wage Rate of Unemployment),
il tasso di disoccupazione (e precarizzazione) tale da non generare pressioni
salariali. Questo potere di contenimento delle cosiddette spinte inflative
attraverso la disoccupazione e la precarizzazione è in realtà l’imbrigliamento
dei salari, con il loro spostamento progressivo nell’area del lavoro precario. Annualmente
la Commissione europea appioppa a ogni Paese un suo NAWRU, ossia un tasso di
disoccupazione tale da non generare aumenti salariali: per il 2015 il NAWRU ha
varcato la soglia del 10% per l’Italia, è salito al 25% per la Spagna, all’11%
per la Francia ed è sceso al 5% per la Germania. Al fine di assicurare una
certa tranquillità ai poteri finanziari, la Commissione fissa il NAWRU sempre
più in alto per i Paesi «a rischio», arrogandosi un potere predittivo che nessuna
istituzione le ha concesso. Nell’ovattato, generale riserbo sull’argomento
spicca il ritegno della BCE, un’elegante autocensura nei confronti dei massimi
sostenitori del NAWRU che si annidano tra le aquile del cancellierato e della
Bundesbank.
Fin
dagli anni 1990 la struttura di potere in Italia ha cercato con alterne vicende
di seguire la ricetta praticata prima da Reagan e Thatcher e poi applicata più
prudentemente dai socialdemocratici tedeschi. Il ritmo di applicazione della
ricetta è venuto accelerando negli anni recenti. In realtà, le grandi manovre
italiane erano cominciate già nel 1992, erano proseguite sia con il piano di
riduzione delle pensioni attraverso la conversione del sistema retributivo nel
sistema contributivo (governo Dini, 1995) sia con una prima prova sul mercato
del lavoro (governo Prodi, 1996). Sulla scia del governo Schröder, in Italia le
grandi manovre avevano ripreso vigore con la vittoria della destra al governo
(governo Berlusconi, 2001-2006). La destra si era esposta nel 2002 decidendo di
aggredire lo statuto dei lavoratori e in particolare di abrogare l’articolo 18
che vietava il licenziamento senza giusta causa. Seguivano gli inevitabili
sorrisi dei socialdemocratici tedeschi che sanno fare più cautamente e meglio.
le manifestazioni di milioni di oppositori in tutta Italia nel marzo 2002
mettevano in quarantena l’attacco frontale all’articolo 18 dello Statuto dei
lavoratori, ma non mettevano fine alle macchinazioni revansciste del padronato.
In altri termini, la strategia della famosa «cauta prudenza» che l’Uomo di Arcore
aveva adottato per sventare i controlli contro l’evasione fiscale del suo
elettorato (primo governo Berlusconi, 1994-95) non valeva nei confronti dello
Statuto dei lavoratori. La sconfitta del 2002 è risultata bruciante ma non
definitiva. Prima sono stati rimessi insieme i cocci e poi sono stati chiamati
a raccolta i poteri economici, politici e mediatici, i quali nell’arco di una
dozzina d’anni hanno ridotto l’articolo 18 a un guscio vuoto fino alla sua
abolizione (2014).
Lo
stillicidio di misure e ancor più di pratiche quotidiane contro la forza-lavoro
ha deteriorato non soltanto le condizioni ma anche i rapporti di lavoro tra
compagni/e di lavoro, desocializzando ambienti dove in precedenza la
solidarietà aveva a lungo prevalso, nonostante il clima di crisi. Inoltre, la
frustrazione che ne è seguita si è ritorta ulteriormente contro il sindacato,
dissolvendo diffusamente i legami che si erano già indeboliti fin dagli anni
1980, ossia da quando il sindacato aveva cercato di pilotare a favore dei suoi
fedelissimi le liste degli ammessi e degli esclusi dalla cassaintegrazione. La
posta in gioco diventava dunque il monopolio delle decisioni riguardanti le
maestranze. Il datore di lavoro andava riprendendosi il diritto assoluto di
assumere e licenziare. La parentesi della più che quarantennale limitazione
all’arbitrio del licenziamento grazie all’articolo 18 volgeva al termine,
cancellata dalla insindacabilità del licenziamento. esclusa così di fatto la
magistratura da gran parte delle decisioni in materia, rimane la monetizzazione
del licenziamento a mezzo di una semplice indennità pecuniaria. Per un’azienda
in Italia un normale licenziamento può essere trattato poco più che come una
questione di voucher.
Domandiamoci:
qual è il modello verso il quale il capitale odierno, in Europa come altrove,
intende avviarsi? Semplificando, il modello è quello del lavoro migrante: in
breve, scarsi diritti civili, precarietà lavorativa e abitativa, difficoltà e
addirittura impossibilità di trasmettere la vita per chi percepisce i salari da
lavoro migrante. L’esercizio di quel che resta dei diritti politici e sindacali
è messo in naftalina, la perdita del posto di lavoro è deciso su di un pezzo di
carta padronale, e – contrariamente a gran parte della schiavitù moderna – il
diritto di trasmettere la vita è rimandato a tempi migliori – e di fatto negato
ai molti che hanno perso la speranza di ottenere un salario adeguato a
mantenere la prole. Oggi in Italia i grandi mezzi di comunicazione nazionali
gongolano per la previsione della produzione di 650mila auto all’anno. Pochi
notano che le nascite sono scese ben al di sotto di tale cifra: 509mila nel
2014, la più bassa natalità dall’unità d’Italia. Il saldo naturale della
popolazione del 2014 è negativo (meno 100mila unità), cifra del biennio di
guerra 1917-18. Si tratta di una tendenza internazionale che trova il suo
centro in Cina e nel suo regime di fabbrica-dormitorio2 ma che va
estendendosi per varie cause – tra cui le forme della precarietà del lavoro e
dei regimi lavorativi – in molti paesi industrializzati e in via
d’industrializzazione. Al fondo della compressione della forza-lavoro e della
sua precarietà è in gioco il diritto alla generatività, il diritto alla vita e
alla trasmissione della vita.
1. Cfr. Ferruccio
Gambino – Devi Sacchetto, Alla catena sotto una triplice cappa,
Introduzione a Pun Ngai – Jenny Chan – Mark Selden, Morire per un Iphone. La
Apple, la Foxconn e la lotta degli operai cinesi, Milano, JakaBook, 2015,
pp. 11-21.
2. Ferruccio Gambino
– Devi Sacchetto, Le spine del lavoro
liquido globale, Introduzione a Pun Ngai, Cina, la società armoniosa. Sfruttamento e resistenza degli operai
migranti, Milano, Jaca Book, 2012: