di Militant -
De Magistris è speculare
alle giunte grilline. Questo ci è sembrato chiaro a Napoli, e in un certo senso
descrive anche la maturità di quel processo, che ha saputo elaborare una
posizione intelligente e dialettica in rapporto ad un esperimento politico
interessante ma “altro” da noi
Qualcosa sta cambiando nella palude
movimentista? Può essere. Di certo, le due assemblee di Napoli di sabato scorso
sono un passaggio importante, nuovo, che costringe a una riflessione. Non è
solo la grande partecipazione, più di 200 persone in un sabato di metà luglio,
il dato incoraggiante. È piuttosto la
qualità complessiva del dibattito, dei temi affrontati e del cammino immaginato
che ci fa essere ottimisti. Ci aspettano mesi decisivi: le contorsioni del Pd,
l’esperimento politico napoletano, il referendum, il post-Brexit, la
speculazione finanziaria che tornerà ad agitare spettri in autunno. Andiamo con
ordine. Il voto amministrativo dello scorso giugno ha scomposto un quadro
politico in via di assestamento, aprendo fratture potenziali che obbligano i
movimenti a giocarsi la partita. Le giunte di Torino, Roma e Napoli, in questo
senso, potrebbero (il condizionale è d’obbligo) incrinare il dogma europeista
dei vincoli di bilancio e del patto di stabilità. Una battaglia tutta da
giocare, possibile ma non per questo probabile. Oltretutto, se a Napoli è
presente una dimensione soggettiva della giunta in grado di raccogliere più
coscientemente la sfida, non è detto che lo stesso si verifichi nei due
maggiori comuni governati dal M5S. Sarà, come probabile, uno scontro anche
interno a quel movimento, tra la sua parte “sociale” e quella che nel frattempo
sta assumendo un profilo più accomodante con le istituzioni e la
“governamentalità”. Il pellegrinaggio di Di Maio nei centri del potere
internazionale (la city londinese e Israele), in questo senso
descrive anche una tensione nel movimento grillino, che probabilmente sarà
destinata ad emergere in ogni momento critico (e ce ne saranno tanti, di qui ad
ottobre). Sono dinamiche che non possono vederci spettatori inermi, per quanto
interne ad un partito verticista e a-democratico. In questo senso, il processo
immaginato a Napoli ci sembra l’unica strada percorribile per tornare ad
incidere nella realtà. Non proporre sintesi politiche od organizzative,
condivisioni “a freddo”, operazioni di maquillage politico che
nascono e muoiono nel giro di una manifestazione, “costituenti” multicolori o
ambigui contenitori post-moderni, ma individuare degli obiettivi comuni e
su quelli perseguire un “fronte di lotta” in grado di sfruttare anche le
necessità delle tre città “atipiche”. Perché c’è un dato inequivocabile da
tenere in considerazione: o le tre giunte pongono il problema della rottura dei
patti di stabilità, o la loro esperienza politica è destinata a fallire
miseramente, oltretutto consegnando alle destre la rappresentanza di quella
stessa volontà di rottura. Rottura dei vincoli europei e lotta alla
privatizzazione dell’economia pubblica sono i due maggiori terreni di confronto
possibili tra movimenti e giunte comunali di Torino, Roma e Napoli. Su questo
piano o interveniamo a gamba tesa o scompariamo politicamente, perdendo
un’occasione più unica che rara che ci ha presentato la crisi della governance europea.
Ribadiamo: non si tratta di appoggiare
questa o quella giunta, favorendo dei processi politici che vedrebbero
fagocitare le istanze più radicali dei movimenti per riarticolarle in nuovi
percorsi di compatibilità istituzionale e politica. In questo senso, nonostante
una certa diversità soggettiva, De Magistris è speculare alle giunte grilline.
Questo ci è sembrato chiaro a Napoli, e in un certo senso descrive anche la
maturità di quel processo, che ha saputo elaborare una posizione intelligente e
dialettica in rapporto ad un esperimento politico interessante ma “altro” da
noi. Questo non vuol dire nasconderci i reciproci interessi che potrebbero
verificarsi. Non si tratta di tatticismi politicisti, sia chiaro, quanto di
riproporre un piano della lotta calato in uno scenario oggettivamente diverso.
Uno scenario che vedrà il suo culmine nel referendum costituzionale, e questo è
l’altro grande scenario posto di fronte a noi.
Avremo, ad ottobre o quando converrà
piazzarlo a Renzi, il “nostro” referendum sull’Unione europea. La vittoria del
SI chiuderebbe uno scenario, stabilizzerebbe il quadro e consoliderebbe il
“liberismo democratico” al potere. Sarebbe il primo voto “pro-Ue” laddove è
stato possibile votare in questa Europa post-democratica. Qualsiasi sia il
quesito tecnico, sarebbe così veicolato dalla propaganda europeista, e in
questo senso ri-assesterebbe anche un quadro politico continentale in
pericolosa crisi di legittimità. La vittoria dei NO, al contrario,
contribuirebbe allo sfaldamento in atto del progetto europeista, alla crisi del
renzismo e alle sue dimissioni, alla rottura nel Pd, all’instabilità generale e
al probabile attacco speculativo che riguarderà l’Italia. Già si parla, sui
giornali, di Mario Draghi come possibile sostituto temporaneo di Renzi per una
fase di commissariamento à la Monti. Scenari futuribili, ma
che descrivono la portata della posta in gioco. Non è un referendum “sulla
Costituzione”, ma un referendum sul potere politico europeista, incarnato in
Italia dal Pd di Renzi.
È altresì vero, come detto a Napoli, che la
battaglia sul referendum deve assumere un risvolto sociale prioritario,
sottraendolo sia alla natura “tecnica” del quesito, sia al politicismo del
“tutto fuorché Renzi” che ci accomunerebbe al resto del panorama politico che
ha già iniziato la sua campagna per il NO. Il nostro voto al referendum non
sarà per preservare la “nostra Costituzione”, che è la stessa Costituzione del
pareggio di bilancio, ma per esprimere il rifiuto delle politiche liberiste
italiane ed europee che stanno imponendo una crisi economica che serve e
ristrutturare l’interno panorama produttivo e l’intero mercato del lavoro
continentale. Il referendum è allora la conclusione parziale di un percorso che
dovrà vertere sui temi più in sintonia con quella parte di popolazione che ha
già consegnato l’avviso di sfratto al governo tramite il voto amministrativo.
Oltretutto, una vittoria dei NO favorirebbe anche una continuazione della lotta
che al quel punto diverrebbe centrale nelle sorti politiche del paese.
Dovremmo, in altre parole, fare di tutto per intestarci i meriti politici di
una lotta al governo Renzi che altrimenti verrebbero raccolti dalle ipotesi
reazionarie o da un M5S a quel punto in grado di governare ma adeguandosi alle
politiche liberali-liberiste, perdendo per strada la carica anti-sistema data
da un pezzo del suo elettorato.
Questi sono gli obiettivi di qui
all’autunno, e su questo piano si gioca la nostra capacità di mettere da parte
le differenze politiche – che pure ci sono e rimarranno – in vista di un
obiettivo più alto: quello di incidere nella rottura, spostando a sinistra ciò
che può prodursi comunque da destra (Brexit docet). Non si tratta di nascondere
o diluire le nostre diversità, ma avere coscienza che, in una fase di estremo
minoritarismo che impedisce qualsiasi ipotesi di autosufficienza, o lavoriamo
su qui pochi e centrali obiettivi comuni che abbiamo, o continueremo
nell’insignificanza lasciando alle destre la rappresentanza del malcontento
popolare contro Renzi e la Ue. Hic Rodus, Hic Salta.