di Franco Milanesi -
“Bisogna stare attenti a non considerare
la spiritualità come un benessere interiore, la cura di sé per trovare
l’armonia con il mondo. Non è la palestra dove andare a fare ginnastica
dell’anima (…) Stare in pace con sé vuol dire entrare in guerra col mondo”. La teologia, quindi, è fondamentalmente una
necessità della politica “non della politica en géneral, che è quella delle
classi dominanti, dei padroni del mondo, ma di quella dei subalterni, dei
dominati” (Mario Tronti)
Era dai tempi de La politica al tramonto (Einaudi, 1998)
che Mario Tronti non offriva pagine di tale densità e ambizione. Il titolo di
quest’ultimo suo volume, Dello spirito libero. Frammenti di vita e di
pensiero (il Saggiatore, 2015), non tragga in inganno: non siamo di
fronte ad alcun ripiegamento intimistico e neppure a una torsione
autobiografica. Si tratta certo di un bilancio e di un lavoro di sintesi, ma
non meno di un riorientamento teorico che nel solco della fedeltà all’idea di
un “pensare per agire”, pone il pensiero all’altezza dell’attuale potenza
dell’avversario. Da ciò, la centralità del tema dello spirito e dalla libertà
interiore. Nei più recenti scritti di Tronti il carattere antropologico della
politica, potremmo dire il suo radicamento nella “natura umana”, era stato
messo frequentemente a tema. Ora è collocato in primo piano a partire dalla
registrazione del “buco antropologico” (61) che grava sul marxismo, un deficit
che ha inibito innanzi tutto la comprensione dei motivi dell’egemonia borghese,
capace di catturare e fidelizzare corpi e menti mettendo a valore desideri e
aspettative. Si potrebbe rilevare che a partire dall’elaborazione del paradigma
biopolitico lo spostamento dell’attenzione dal dominio al disciplinamento
indicava proprio questa cattura capillare della vita. Ma l’argomentazione
trontiana vale anche in misura delle complementarietà (e dunque della
diversità) che mantiene rispetto agli approdi foucaultiani di una parte del
postoperaismo. Un differenza che in questo testo si evidenzia nel metodo
storico-interpretativo, nella costellazione dei riferimenti teorici, nella
lettura della composizione di classe.
Il Novecento, come si sa, è per Tronti il secolo della grande politica,
capace di trasformare a fondo le forme del vivere collettivo. Il secolo che ha
visto la forza organizzata degli ultimi condurre un vittorioso assalto al
cielo, evento di cui Tronti vuole tenere ferma memoria non per farne un culto
cristallizzato ma un pensiero attivante che muovendo dalla consapevolezza della
sconfitta vada predisponendo forze da lanciare contro questo presente,
ossimorica realtà percorsa da un immoto agitarsi, da una perenne transizione
all’identico.
Nel XX secolo il riconoscimento alla base della dialettica servo-signore si
fondava su un’irriducibile differenza tra le parti. Le forme organizzate della
politica canalizzavano e davano forza a questo confronto-scontro e un endemico
stato d’eccezione apriva e chiudeva fasi rivoluzionarie e progetti, dinamiche
costituenti e formalizzazioni normative. Qui Tronti attiva uno dei suoi primi
“scandalosi” dispositivi che conduce a ripensare il nesso guerra-pace.
(Un’avvertenza: Tronti è un estremista del pensiero in misura dalla sua distanza
da ogni retorica della “provocazione”. Estremo è il pensiero che corre sul
limite, non quello che programmaticamente si propone di “irritare”. Questo,
diremo, è il condimento eccitante del conformismo borghese). Dunque, la guerra
come scuotimento del tempo e metamorfosi, creazione di forme dell’essere
sociale. La rivoluzione d’ottobre, la seconda guerra dei trent’anni, la guerra
fredda, i popoli in armi. E intanto, il keynesismo, il Welfare, la grande paura
borghese e le concessioni riformiste, le trincee avanzate conquistate dalla
classe operaia e dalle sue organizzazioni. Lo schmittiano Tronti ha sempre
affermato che la politica è civilizzazione della guerra. Non si distrugge il
luogo comune, lo si modifica nel conflitto di forze opposte. Ma il Novecento ci
insegna anche che in politica la costruzione del novum (non la
modificazione dei dettagli dell’esistente) sorge dallo stato d’eccezione, dalla
fibrillazione e dall’implosione dell’ordine. La riflessione sulla rivoluzione
bolscevica e la storia sovietica trovano così in queste pagine un ulteriore
motivo. Andava fatta, la rivoluzione, e la si fece grazie al genio tattico di
Lenin. Ma, dopo, si sarebbero dovuti adottare tempi lunghi, tempi, diciamo,
“antropologici” che prevedessero pause, aggiustamenti, correzioni di rotta.
Costituente comunista assieme alla costituzione dell’uomo sovietico. Se la
rivoluzione è un atto tirannico – certo non democratico – e se va chiarito che
la buona riforma può esserci solo dopo il successo rivoluzionario, questa cesura
deve poi essere chiusa, trasformata in un processo che prevede prudenza,
lentezze e deviazioni, ricercando consenso e non ossessiva incentivazione di
potere. Non solo o non più “imporsi”, ma farsi istituzione, uscire
dall’eccezionalità. Se il comunismo, dice Tronti, avesse previsto i tempi più
lunghi di una maturazione di consapevolezza sociale, altra sarebbe
stata la sua storia e dunque quella dell’intero Novecento. Non avere voluto (e
anche potuto, nel fuoco della seconda guerra dei trent’anni) operare secondo
questo rallentamento di ritmo ha imposto l’idea che la violenza potesse
compensare l’assenza di forza politica. In estrema sintesi questo è stato lo
stalinismo, anche se quel lungo periodo, in particolare gli accadimenti
avvenuti negli sconosciuti recessi della vita sovietica, deve essere ancora
sottratto al senso comune storiografico e consegnato ai pochi studiosi, come
Rita di Leo, in grado di offrirne una lettura non subordinata a alle esigenze
dei piccoli attori contemporanei.
Un seconda errore, preludio del disastro, procede da questa
mancata messa in forma dell’uomo comunista. Rincorrere i modelli produttivi e
di consumo dell’Occidente con un’imitazione fiacca e ridicola (sempre accade,
anche su scale ben più piccole ridotte, quando da sinistra si adottano i modi
della destra) non poteva che portare alla conclusione che conosciamo. Il ’91
(non certo l’89) è dunque l’evento che segna la sconfitta. Poteva essere
evitato il crollo dell’URSS, poteva essere governato in altro modo? Non
sappiamo, ma certo non avrebbe dovuto essere governato dagli uomini ultimi, i
Gorbaciov, gli Eltsin, ci voleva, dice Tronti, un Bismarck all’altezza della
situazione. Era necessario, insomma, un surplus di politica e di visione
strategica in grande. Se si può affermare che il comunismo non ha portato a
termine la missione, esso ha comunque determinato un salto di coscienza che
rimarrà per chi verrà: la libertà sta nello spirito rivoluzionario russo, non
nel mondo omologato americano.
Questa realtà è dunque divenuta globale, nostra, senza un oltre, senza
possibilità di sconfinamento. L’avanzata e la vittoria della parte avversaria
sono state rapide. Guerra di rapina e conquista che sfonda, reprime, piega e
soprattutto egemonizza. Consenso e bastone, “commedia” e guerra. Tronti
descrivere le procedure di funzionamento che disegnano questa gabbia entro cui
si svolge, quotidianamente, la sconfitta delle classi subalterne. Il capitale
si è imposto grazie alla capacità di “fare sistema” tra economia, mentalità
borghese, democrazia politica. Se la sinistra ha storicamente contrastato il
modo di produzione capitalistico e preso le distanze dal “tipo” umano borghese,
più difficoltà ha avuto a sviluppare una Kritik della
democrazia fattasi senso comune, medio modo d’essere, sintesi definitiva
omologante. È attraverso la democrazia, che è al tempo stesso ideologia e
istituzione, che il capitale è penetrato in interiore homine con
i suoi spiriti animali, mistificati dalla feticizzazione, dalla
spettacolarizzazione e dal definitivo nascondimento del carattere sociale del
rapporto di capitale. “La democrazia reale è riuscita là dove ha fallito il
socialismo reale: ha creato l’uomo nuovo. Solo che lo ha creato nella figura
dell’ultimo uomo. Non ha caso, giustamente dal suo punto di vista, ha declamato
in sé la fine della storia” (p. 185).
Il Novecento che sta alle nostre spalle, dunque, transita verso un oltre
che poggia sul compimento della Zivilisation borghese e sulla
sconfitta della Kulturoperaia. Tronti insiste sul carattere
sistemico del dominio in atto. Il tecnocapitalismo si rivela come un meccanismo
raffinato, un potere macchinino che si muove, nelle sue procedure sostanziali,
secondo automatismi in grado di articolare intelligentemente le parti
correggendone i “difetti”. Anche nella fase attuale di crisi strutturale, esito
del delirio di onnipotenza del vincitore rimasto solo sul campo con la spada
sguainata contro un inesistente nemico, mentre il capitale procede con maggiori
sforzi e sempre più si disvela la sua funzione puramente distruttiva di uomini,
natura e cose, il sistema mostra più capacità di annichilimento del dissenso
che di ripresa.
Se questo è ciò che lo sguardo del realista registra, come e dove forzare
questa strutturazione compatta, apparentemente senza crepe, priva di appigli
per elaborare alterità? Come fare implodere un presente insopportabile, in cui
“nulla accade, nulla di ciò che veramente cambia, trasforma, rovescia,
sovverte” e la storia umana appare “ferma, su un punto di equilibrio,
inamovibile, inattaccabile” (36)?
Il compito che Tronti si riserva è quello di tracciare un filo di ragione
politica – in uno stile frammentato, fessurato, “novecentesco” nel senso della
grande avanguardia che nel secolo scorso smontò dall’interno la falsa
consequenzialità della ragione borghese – che si muove innanzi tutto sul
terreno della storia perché “la messa in campo di un conflitto di
interpretazioni del passato” è sempre legata a giudizio sul presente (77). Si
deve allora fare un “uso strategico del passato” (82) per non essere subalterni
alle visioni dei vincitori e ripensare il senso complessivo, cioè politico e
non meno antropologico, del deposito di lotte della storia operaia. Tra le
leggiadre apologie del postmoderno, rigettate con ironia, e l’idea di una
modernità incompiuta da rimettere sui binari di un “responsabile” riformismo,
Tronti osserva come “quel” moderno, nato capitalistico e borghese, si sia certo
inverato e in qualche modo concluso nel Novecento, ma abbia anche lasciato
dietro di sé la memoria di una modernità altra, tutta operaia e politica. Non
solo, per smontare ogni pretesa assolutistica del pensiero borghese devono
essere ripensate tutte le voci che possano increspare, anche di poco, il piano
liscio del dominio poiché “la tradizione non è il passato, ma è quello che del
passato resta nelle nostre mani come irriducibile al presente” (23). Tronti ci
aveva abituati a libere scorribande nel Novecento. Alcuni temi sono ripresi,
altri del tutto inediti: Luperini, Warburg, Mann, Rathenau, la rivoluzione conservatrice
e soprattutto Carl Schmitt, vera bussola per orientare il pensiero nel magna
incandescente del politico. Particolarmente intensa è in questo testo
l’attenzione che Tronti dedica al nesso tra comunismo e pensiero cristiano
perché la “contrapposizione frontale di questi due orizzonti grandemente umani
è stata una sciagura per la modernità, che l’attuale sempre più degradante
disagio di civiltà ci mette quotidianamente sotto gli occhi” (151). Non si
tratta ovviamente di “aderire” al cristianesimo, né di enfatizzarne la funzione
di pensiero combattente contro l’ordo borghese. Ma il cristianesimo
ci offre una lunga tradizione di spiritualità e interiorità declinate fuori e
dentro la mondanità, dimensioni che la persona politica può recuperare per
un’azione “dentro e contro” la realtà in atto.
Affrontare il “problema” della libertà diviene dirimente. Bisogna sottrarla
alla retorica liberal-borghese che ne ha fatto architrave del liberismo e del
neoliberismo (termine che Tronti non ama, cogliendo più la continuità che la
frattura del piano del capitale). Libertà interiore significa depurare il sé
dalle scorie borghesi quasi, diremo, una sorta di autodisciplina
dell’intelligenza contro il nuovo totalitarismo democratico. Il rischio di un
ritiro nella sfera chiusa dell’interiorità è eluso dalla precisa indicazione
del carattere preliminare di questa acquisizione di spiritualità libera,
conquistata non per stare fuori da mondo ma ben piantati nel suo mezzo, non per
puntare il dito, ma per liberare questo tempo dalla sua cupa immanenza.
“Bisogna stare attenti a non considerare la spiritualità come un benessere
interiore, la cura di sé per trovare l’armonia con il mondo. Non è la palestra
dove andare a fare ginnastica dell’anima (…) Stare in pace con sé vuol dire entrare
in guerra col mondo” (227)
Da molti anni Tronti, e non solo lui, ha aperto la riflessione politica
alla tematica della trascendenza come orizzonte di alterità radicale. In questo
testo essa è declinata dentro la teologica politica, incardinata con i motivi
del profetismo e del messianesimo. “La teologia è una necessità della politica.
Ripeto, non della politica en géneral, che è quella delle classi
dominanti, dei padroni del mondo, ma di quella dei subalterni, dei dominati”.
Così in un pamphlet (Mario Tronti, Il nano e il
manichino. La teologia come lingua della politica, Castelvecchi 2015, p.
57) che andrebbe affiancato a questo denso volume per aiutare a chiarire quale
apporto alla sfera del politico possono dare l’apocalittica e la profezia.
Perché profezia? Perché la tensione profetica è l’appello di riscossa degli
ultimi che reclamano e delineano le possibilità di un mondo altro; perché il
profetismo è denuncia dell’eterno presente colonizzato dal capitale; perché è
parola “inaudita”, inascoltabile nel chiacchiericcio del linguaggio
mediatizzato. Certo, possono permanere differenze di compiti e “c’è chi si
sente chiamato a consolare le afflizioni degli oppressi e chi si sente chiamato
a combattere i soprusi degli oppressori” (156) ma la necessità, più volte
ribadita, dell’inscindibilità strategica della battaglia politica da quella
culturale riduce fortemente le distanze e porta alla ricerca di alleanze e di
compagni di viaggio.
In un testo altamente politico in cui, come si è
detto, la sguardo rivolto all’interiorità è fatto valere come preambolo
necessario dell’agire pratico, si potrebbero rintracciare alcune “lacune”
relative alle dinamiche globali della soggettivazione e dell’antagonismo, alle
trasformazioni del lavoro vivo o agli interrogativi legati all’organizzazione
del dissenso. Un vuoto ascrivibile in parte a un pessimismo che sembra dare il
gioco per chiuso, con una sconfitta senza appello dei subalterni. Tanto che, se
è vero che Tronti dichiara ancora possibile la riscossa, pare improbabile
radicarla nella terra desolata da lui descritta o affidarne le sorti soltanto
all’impalpabile dimensione del profetismo e alla rammemorazione del passato
(“solo chi è stato comunista nel Novecento può vivere fino in fondo la
condizione di spirito libero”, 293). Ma proprio questa palpabile oscillazione
tra speranza e pessimismo – che appartiene del resto alla sostanza stessa della
teologia politica – fa spiccare in modo ancora più netto le parti più preziose
e innovative del libro. Non solo se ne ricava ancora una volta un inesauribile
senso di gratitudine per un pensatore che da più di cinquant’anni offre alla
sinistra antagonista più che una semplice raccolta di concetti una vera
“sintassi-chiave” di straordinaria efficacia per la comprensione della società
e del politico. Tronti, in questo volume, ha voluto spostare la direzione del
pensiero per dimostrare tutta la portata politica dell’animo umano e del suo
“spirito”. Perché se è giusto ricordare contro l’individualismo borghese –
monade ossessionata dall’esposizione pubblica – che il soggetto è sempre una
costruzione sociale, è non meno vero che una società diversa non può che essere
costruita solo da un’umanità che abbia saputo liberare la propria interiorità.
Alla domanda se questo atto di liberazione da agire in interiore homine debba
precedere o seguire la liberazione pratico-politica risponderemo – parafrasando
l’affermazione trontiana secondo cui “non c’è classe senza lotta di classe” –
che non ci sarà liberazione, del mondo e del soggetto, senza lotta per la
liberazione.