lunedì 6 luglio 2015

Jobs Act: la fine del diritto del lavoro in Italia (estratto)

di Clash City Workers - 
questa ed altre leggi analoghe vengono da lontano, dalla crisi globale del capitalismo, da istituti internazionali come l'OCSE e la BCE e soprattutto dal modo in cui i lavoratori sono stati messi in concorrenza tra loro a livello mondiale negli ultimi trent'anni
Lavoratori di tutto il mondo... massacratevi!
Quella del Jobs Act non è solo una storia italiana, ma si inserisce in un quadro internazionale di ridefinizione dei rapporti di classe che mira a far fronte alla crisi strutturale del capitale, oggi più manifesta che mai, e che ha nell’attacco al lavoro uno dei suoi strumenti principali. Pur da diverse situazioni di partenza, i lavoratori europei, chi prima e chi dopo, si trovano costretti a subire le manovre padronali di aumento della flessibilità/precarietà, aumento della produttività (e cioè dello sfruttamento), azzeramento delle rappresentanze sindacali, ecc. attraverso un attacco al lavoro che non è azzardato dire coordinato a livello europeo.
Per capirlo torniamo a parlare delle politiche della BCE, ed in particolare di un vecchio intervento che Mario Draghi fece due anni fa presso il Consiglio dell’Unione Europea. In quell’occasione il presidente della BCE mostrava come il segreto dei paesi “virtuosi”, cioè quelli che come la Germania registravano un avanzo nel bilancio, fosse che la crescita dei salari nominali fino al 2008 è stata pari al pari, o addirittura al di sotto, della produttività del lavoro. Negli altri paesi, come l’Italia, i salari sarebbero invece cresciuti “un po’ troppo”. La soluzione per essere “tutti virtuosi” e scongiurare definitivamente la crisi del debito dei paesi dell’Eurozona, sarebbe quindi quella di allineare i salari nominali all’andamento della produttività. Insomma il prezzo della crescita sarebbe una gigantesca decrescita dei salari, soprattutto considerato che a conformarsi all’andamento della produttività sono i salari nominali, cioè quelli che non tengono conto dell’inflazione, perché quelli reali sono già da tempo dappertutto più bassi della produttività! La soluzione proposta sarebbe quindi quella di continuare e accentuare quel lungo processo che negli ultimi trent’anni ha portato ad un gigantesco trasferimento di ricchezza dai salari ai profitti.
Gli effetti delle le politiche deflattive della Germania (e non solo) diventano lo strumento attraverso cui aggredire le condizioni di lavoro degli altri paesi. Dietro il famoso ‘modello tedesco’ infatti, si nasconde, in realtà, proprio una politica dei bassi salari. Questi sono alla base di un modello di capitalismo di tipo “mercantilista” trainato dalla domanda estera: con l’entrata in vigore nel 2003 della riforma Hartz, si è avviato un processo di liberalizzazione del mercato del lavoro che ha agito a diversi livelli, accelerando gradualmente, tra il 2003 e il 2007, le tendenze di allungamento degli orari lavorativi e di riduzione del salario diretto (con il conseguente allargameno del segmento dei bassi salari), e indiretto, attraverso sostanziali e pesanti tagli al welfare e la riduzione della durata e dell’entità dei sussidi di disoccupazione. Stando alle statistiche si può vedere che i salari medi sono cresciuti più dell'inflazione e della produttività solo nel 2012, dopo oltre dieci anni di ristagno! Un lavoratore su cinque in Germania lavora tuttora per meno di 9 euro l'ora: è la quota maggiore di salari bassi, rispetto al reddito medio nazionale, in tutta l'Europa occidentale. Insomma, il miracolo tedesco, il boom delle esportazioni, il gap di competitività aperto con gli altri paesi, dalla Francia in giù, di cui tanto spesso sentiamo parlare è stato in realtà pagato dai lavoratori!
Il più avanzato sistema produttivo ha permesso alla Germania di mantenere delle condizioni di lavoro migliori di quelle di altri paesi senza dover intaccare la competitività delle proprie merci. Intanto procedeva verso una diminuzione relativa dei salari e peggioramento nelle condizioni di lavoro. Così un paese più avanzato è stato in grado di fare dumping salariale verso paesi, come l’Italia e la Grecia, in cui si lavora di più e con salari più bassi per poi rinfacciargli di “vivere al di sopra delle proprie possibilità”! 
Se tutto ciò sta permettendo al momento alla Germania ed altri paesi forti di resistere alla crisi e anzi approfittarne, concedendo anche qualche miglioramento ai propri lavoratori (vedi l’aumento del salario minimo), l’avanzare della crisi ed il peggioramento drammatico delle condizioni di lavoro negli altri paesi, presto colpirà anche i paesi del centro ed i loro lavoratori. Le imprese potranno spostarsi nei paesi periferici per approfittare della manodopera a prezzo sempre più basso o i lavoratori di questi paesi potranno spostarsi in quelli del centro disposti a lavorare a salari più bassi di quelli dei lavoratori autoctoni.
Dopo anni di manovre di austerity fallimentari è difficile infatti credere che queste politiche siano veramente destinate a far terminare la crisi. La borghesia non ne sa uscire e prova semplicemente ad approfittarne. L’unica fiducia che gli interessa ristabilire è quella di poter sfruttare a proprio piacimento i lavoratori. Di fronte a questa necessità tutto il resto è secondario. Come scriveva l’economista polacco Kalecki a proposito degli “effetti politici della piena occupazione”: “la "disciplina nelle fabbriche" e la "stabilità politica" sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti. L'istinto di classe dice loro che una continua piena occupazione non è "sana" dal loro punto di vista perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema capitalistico normale.”
Se quindi si impegna in manovre che sembrano irrazionali o assurde, è solo perché sono il frutto irrazionale e assurdo, ma inevitabile, della logica di un “modo di produzione entro il quale l’operaio esiste per i bisogni di valorizzazione di valori esistenti, invece che, viceversa, la ricchezza materiale per i bisogni di sviluppo dell’operaio” ed in cui di conseguenza l’accumulazione di ricchezza all’uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto, come diceva Marx.
Se, infatti, in un periodo di così grave crisi i capitalisti non hanno di certo il problema di combattere la minaccia della piena occupazione, hanno comunque l’opportunità di approfittare al massimo della dilagante disoccupazione. Quella disoccupazione il cui principale effetto politico è quello di mettere in concorrenza disperata i proletari, condannati a farsi la guerra gli uni contro gli altri per ottenere le poche briciole a disposizione. Mettendo i “precari” contro i “garantiti”, i giovani contro i vecchi, le donne contro gli uomini, la riforma del lavoro in Italia fa leva sugli interessi (e la disperazione) dei singoli individui contro gli interessi della classe a cui appartengono. Lo scenario che si apre è quello di una competizione al ribasso tra lavoratori sempre più ricattabili, controllati, minacciati… uno scenario in cui ogni proletario finirà per fare la guerra all’altro pur di guadagnare le poche briciole concesse dal padrone di turno. Il Jobs Act ratifica giuridicamente questa situazione di fatto, contribuendo allo stesso tempo a rafforzarla. 
Recepisce inoltre e rafforza, anche quelle politiche europee che a livello continentale mettono gli interessi dei lavoratori di alcuni paesi contro quelli degli altri.
Si tratta della solita vecchia strategia della borghesia, che pare urlare: proletari di tutto il mondo, scannatevi!
Che fare?
L’Italia, come altri paesi d’Europa, è stata interessata da numerose mobilitazioni sin dallo scoppiare della crisi: a partire dal 2008 con il movimento studentesco che coinvolse centinaia di migliaia di studenti in tutta Italia contro i tagli all’Università pubblica previsti dal Governo. Seguito e accompagnato poi dalle lotte dei metalmeccanici della FIAT nel 2010 contro il piano del CEO Marchionne (che in qualche modo anticipava le misure dell’attuale Governo), in grado di raccogliere la solidarietà e coinvolgere centinaia di migliaia di lavoratori e cittadini. A dimostrazione del livello di mobilitazione, basti dire che il 15 Ottobre 2011, nella giornata mondiale di protesta convocata dal movimento spagnolo, Roma era la seconda piazza del mondo per numero di partecipanti.
Anche in virtù delle proprie contraddizioni interne, quel movimento non ha saputo però fare fronte all’inasprirsi della crisi ed alle improvvise e profonde trasformazioni istituzionali che questa ha portato con sé: la fine del ventennio Berlusconiano, l’insediarsi di un Governo tecnico ed infine l’ascesa di Renzi.
Un segnale importante è sembrato arrivare poi il 19 Ottobre 2013, quando il crescente movimento di lotta per la casa, protagonista di numerose occupazioni in tutta Italia, unito ai sindacati di base, portò nuovamente decine di migliaia di persone in piazza unite da una prospettiva anticapitalista. Anche in questo caso però il movimento non è stato in grado di trovare un’adeguata traduzione politica alle proprie istanze. La scena sembra quindi dominata unicamente dal procedere inesorabile della crisi verso una progressiva svalorizzazione della forza-lavoro e dai piani neoliberisti di un Governo che ne è diretta espressione giuridica.
Sotto la superficie calma e inamovibile di questa situazione, rimane il potenziale incendiario rappresentato da chi quotidianamente sul posto di lavoro paga gli effetti di questa crisi. Come abbiamo detto, la recente riforma del lavoro è destinata soltanto a gettare benzina sul fuoco. Ed infatti, appena se ne è cominciato a parlare, si è assistito ad un’imponente reazione: il 25 Ottobre 2014 quasi un milione di lavoratori scendono in piazza con la CGIL, il principale sindacato italiano, proprio contro il Jobs Act; il 14 Novembre scioperano anche i metalmeccanici della FIOM ed i lavoratori della logistica del SICOBAS, proprio nello stesso giorno in cui alcuni movimenti sociali e sindacati di base avevano chiamato una mobilitazione nazionale contro il Governo e le sue politiche; il 12 Dicembre, poco dopo l’approvazione in parlamento della riforma, arriva finalmente il giorno dello sciopero generale.
Certo, molte di queste mobilitazioni sono state organizzate da un sindacato, la CGIL, che negli ultimi anni non ha mai posto un reale ostacolo ai piani dei capitalisti ed anzi ne è stato spesso alleato se non promotore, e che è sembrato preoccupato fondamentalmente di uscire dall’isolamento a cui lo sta condannando il Governo Renzi e riguadagnare spazio nei tavoli negoziali, piuttosto che salvaguardare realmente gli interessi dei lavoratori. Forse il motivo per cui la mobilitazione è stata debole proprio nel momento in cui doveva essere più forte, cioè subito dopo lo sciopero generale e prima dell’approvazione dei decreti attuativi del Jobs Act a Marzo, è che il sindacato ancora sperava di avere una qualche sponda politica all’interno dell’ala “critica” del partito di maggioranza (PD).
Nonostante questo però, rimane importante la dimensione e la forza di queste mobilitazioni, che sono state in grado di raccogliere anche molto consenso tra l’opinione pubblica, ormai sempre più disaffezionata al Governo. E soprattutto è da segnalare la presenza in queste giornate non solo dei movimenti, ma anche di alcuni segmenti di forza lavoro particolarmente combattiva e per niente allineata alle posizioni della CGIL, in primis i facchini della logistica. Un segnale importante verso l’identificazione di parole d’ordine politiche comuni ed il superamento di quelle divisioni tra lavoratori precari e garantiti che tanto hanno pesato nelle sconfitte degli ultimi anni. Un portato inevitabile, ed involontario, dell’omogeneizzazione al ribasso delle recenti misure governative.
Certo, il capitale ha ancora tante armi in mano, attraverso le frontiere dei suoi stati limita il movimento dei lavoratori e mette quelli autoctoni contro quelli stranieri; attraverso la minaccia della delocalizzazione, riesce a far accettare condizioni di lavoro sempre peggiori. Questo significa soltanto che sviluppare un piano internazionale di lotta rappresenta un compito sempre più urgente e necessario.
Non è facile, ma è possibile. Dipende solo da noi.
Per leggere l’articolo integrale  http://clashcityworkers.org/