di C. Bernardi, F. Brancaccio, D. Festa e B. M. Meninni -
pubblicamo l’introduzione dei curatori del volume “Fare
Spazio. Pratiche del comune e diritto alla città” (ed. Mimesis). Una
sperimentazione collettiva sui temi del comune e del diritto alla città a
partire dalla collaborazione tra la LUM, l'Istituto Svizzero di Roma e il Nuovo
Cinema Palazzo
Questo
libro s’inscrive nella traiettoria tracciata dal ciclo di seminari Dalle
pratiche del «comune» al diritto alla città, tenutosi nel corso del 2013 e
organizzato dal Nuovo Cinema Palazzo in collaborazione con l’Istituto Svizzero
di Roma e la Libera Università Metropolitana. Rispetto a quel significativo
percorso, tuttavia, non rappresenta una semplice raccolta di materiali di
studio, né una collezione dei contributi preparati in occasione dei singoli
incontri. Piuttosto, si costituisce come progetto editoriale che abbraccia e
arricchisce le connessioni e le trame intessute da quel lavoro, nella forma di
una nuova produzione. In questo senso, si presenta come un secondo spazio e
momento di riflessione che, pur nella sua autonomia, raccoglie e fa proprio ciò
che ha animato la costruzione dell’attività seminariale: creare, attraverso la
sperimentazione metodologica e l’elaborazione discorsiva, una convergenza tra
pratica e teoria, situandola nell’attualità del dibattito sui beni comuni.
L’accostamento del tema del comune a quello del diritto alla città porta con
sé, quindi, il significato di una scelta – di merito e di metodo – ben precisa:
ripensare la spazializzazione del diritto, traducendola nei termini di
un’azione politica che attraversi tanto lo spazio urbano, quanto quello, più
ampio, dell’Europa.
Questo
gesto non solo riguarda una questione semantica, ma sottende anche una
dimensione sostanziale: il definitivo congedo dallo storicismo che ha
caratterizzato la produzione dei saperi nella modernità. La riarticolazione del
concetto di spazialità dischiude una prospettiva in cui lo spazio assume la
stessa importanza del tempo nell’ambito della ricerca nelle scienze sociali:
non più mero contenitore, sfondo o prodotto del rapporto tra soggetti e ambiente,
ma esso stesso fattore di produzione direttamente implicato nella loro
costruzione. Da tale scelta metodologica scaturisce una duplice apertura alla
transdisciplinarietà e alla molteplicità dei campi d’azione. Lo sguardo
centrato sullo spazio, infatti, cerca di rintracciare processualità ed eventi
che s’intrecciano a partire da luoghi e spazi, generando altri luoghi e altri
spazi. Non si tratta di enfatizzare la prossimità come dimensione privilegiata
dei processi politici e analitici, ma di pensare i luoghi nel loro carattere
relazionale e situato. Il taglio transdiciplinare è necessario a un approccio
che tenti di cogliere la complessità delle differenze tra i vari piani del
processo di produzione dei saperi. Un interrogare, dunque, la cui cifra
distintiva è proprio quella di uno spostamento laterale, attraverso il quale
l’operazione di spaziatura si dà come posizione a un tempo concreta e
materiale, simbolica e vissuta, incarnata nella/dalla strutturazione sociale
riprodotta e/o trasformata dall’agire singolare e collettivo. Per questo, pur
essendo a fondamento di un’indagine analitica, la svolta spaziale non
appartiene solamente al registro accademico; non è possibile infatti coglierne
l’attualità se è concepita come mera creazione di idee spaziali e politiche,
cioè come slegata dalla produzione/azione di spazialità quali modalità di
dispiegamento della soggettività.
Il volume
offre questo approccio, stabilendo delle congiunzioni che spiegano
l’organizzazione interna dei suoi contenuti.
La prima
parte, incentrata sul diritto, propone di disarticolare il concetto di norma
nella sua accezione formalistica di testo definitivamente dato; di dislocarne
la produzione in quanto emanazione univoca ed esclusiva della sovranità
statale; di deterritorializzarne l’uso da parte dell’ordinamento esistente,
mettendo così in discussione la dicotomia legale/illegale per indagare pratiche
alternative, generatrici di legittimità.
Se
infatti, come ogni altro codice, anche quello giuridico è l’esito di un’azione
di scrittura, la sua spazializzazione apre all’eccedenza del significato
racchiuso nel suo sapere. A partire dalla critica, non si dà allora solo
decostruzione, bensì anche ricodificazione, il cui movimento non ripiega
all’interno erodendo il senso del diritto, ma si fa estroverso e trasformativo,
lasciando sgorgare nuovi modi di intenderne la produzione: a loro volta atti
performativi della riappropriazione del diritto.
La
riappropriazione diviene così un atto creativo. L’uso dell’armamentario tecnico
e dogmatico del diritto non è più strumentale, ma finalizzato all’invenzione di
nuovi istituti e alla trasformazione di quelli esistenti.
Attenzione
particolare viene quindi data alla performatività: per questo la seconda parte
intende separare il giuridico dalla pura astrazione, per connetterlo alla
città, ambito privilegiato per rintracciare la materialità degli esiti
politici, economici e sociali dell’attuale progetto neoliberale. Lo spazio
urbano è, senza dubbio, l’oggetto primario di una forma di governo che
manifesta tutto il senso dell’inadeguatezza delle istituzioni vigenti. Una
crisi resa esplicita proprio dall’impossibilità di distinguere l’ambito
pubblico da quello privato all’interno di un modello di governamentalità
sottomesso alle logiche estrattive e speculative del capitalismo globale. È qui
che il ragionamento sui fenomeni urbani si rivolge a nuove forme di enclosure, confini che stabiliscono
segregazione, periferizzazione e producono nuove centralità fondate sui
principi individualistici della competizione e sul dominio della convenzione
finanziaria nella circolazione di beni e servizi.
Stabilire
la co-appartenenza nello spazio tanto del giuridico che della città permette
però di inquadrare quest’ultima anche come luogo della pratica quotidiana,
della lotta come spostamento laterale. Qui, diritto e città intercettano il
piano dei commons urbani:
ontologicamente eterogenei e situati, eppure spazializzati, espressioni di territorialità e assemblaggi
articolati da soggettività politiche che sperimentano relazioni alternative a
quelle dettate dall’assoggettamento al consumo e alla rendita.
Una
composizione eterogenea in cui la cittadinanza non è uno status legato alla
nazionalità o alla residenza, ma è attivata nel progetto di creare nuove
istituzioni, orientate all’accesso alle utilità generate dai beni. Utilità, è
importante sottolinearlo, che non derivano dalla natura intrinseca dei beni ma
che sono sempre il prodotto di
un’attività comune di trasformazione. Tale prospettiva disvela una città che
vive come opera collettiva, non mercificabile, dove solo grazie alla
cooperazione i bisogni possono trovare soddisfacimento.
La
cittadinanza, intesa come pratica espansiva e non solo come un diritto, ci
conduce alla terza parte del volume, dedicata all’Europa, che – ripensata nella
sua spazializzazione e nella variabilità delle gerarchie – diviene piano di
urgenza per nuove condizioni di possibilità della forma politica. Una forma deforme, quella dello spazio europeo,
processuale e instabile, ma proprio per questo sfida aperta alla
problematizzazione dei riferimenti geografici consolidati e della tradizione
democratica. Questa apertura è anche analitica e concettuale e mette in
evidenza come la mutabilità dei processi di centralizzazione e periferizzazione
corrisponde ad altrettante distribuzioni e gerarchizzazioni di territori che
avvengono attraverso la moltiplicazione di confini – tanto immateriali, quanto
materiali e militarizzati –, la modulazione di regionalità transnazionali e la
regolazione differenziale di popolazioni.
Un’inedita spazializzazione del capitalismo che, oltre la vera e propria
produzione di spazio, ridisloca i confini immateriali quali segni capaci
d’inscriversi attraverso i corpi e sui corpi, incarnando nuove disuguaglianze economiche
e sociali. La chiusura, al contrario, si pone come ciò che mantiene intatto
l’ingranaggio territoriale dello Stato-nazione che soffoca il processo
costituente democratico – imbrigliando la cittadinanza in un intreccio
regressivo con la classe e la razza – ed è limite epistemico alla comprensione
del presente, tanto quanto lo è il suo dissolvimento nello spazio liscio del
globalismo.
Qui il
comune è un ragionare nell’Europa: a un tempo pensiero, immaginazione e pratica
di un percorso che mette in discussione la visione depoliticizzata – dunque
ideologica – dell’ontologia piatta, di quella costruzione, funzionale alla
conservazione dello status quo e alla
ristrutturazione delle incipienti gerarchie, in cui l’integrazione alla ragione
del capitalismo globale appare l’unica via reale, naturale e percorribile,
dunque auspicabile. Attraverso la creazione dei commons, lo spazio europeo si costituisce così quale luogo di
federazione delle lotte, condizione attuale delle soggettività che – nelle e
dalle piazze delle città – riattivano l’uso della legittimità. Quel corpo
vivente che genera surplus di
democrazia e ripoliticizza la sua direzione, sia nell’orizzontalità della rete
organizzata, sia nelle scalarità delle formazioni sociali.
Lo spostamento laterale che attraversa
l’idea progettuale muove dal riconoscimento di un presupposto fondamentale:
l’insufficienza dell’uso mutualmente esclusivo di categorie che pretendono di
interpretare la realtà. Al contrario, la spazializzazione si fa promotrice di
una prospettiva relazionale e dell’esplorazione analitica della mutabilità. La
capacità trasformativa risiede allora in quel limite che è l’apertura di
possibilità dato dallo scardinamento dei meccanismi esistenti e
dall’attivazione di inediti assemblaggi istituzionali. Si dà così un doppio
movimento in cui coesiste sia la tensione ad allargare le maglie strette del
capitalismo globale – preso nella sua griglia epistemica e nel suo ordine
economico-politico –, sia a potenziare quella capacità costituente che solo il
comune può generare. È correndo lungo questo crinale che le pratiche politiche
divengono artefici di un fare spazio,
invadendo quei luoghi che gli sono preclusi e animando forme cooperative di
produzione. Anche questo volume, quindi, desidera farsi artefice di una propria
spazializzazione, dando corpo a un processo virtuoso dove elaborazione e prassi
politica si compenetrano, e in cui la scrittura è generata dalla progettualità
della messa in comune di saperi e conoscenze. Opera collettiva animata da
soggettività eterogenee che creano spazio da disseminare altrove.