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COMMONWARE -
gettare le basi per un
“noi” che non sia ristretto a un ceto politico marginale rispetto alla
composizione di classe. Dobbiamo sviluppare uno sguardo strabico, con un occhio che guardi
alla difesa e avanzamento dell’esistente, con l’altro che individui le
scommesse e i campi di azione strategici
Dovremmo,
bisognerebbe, sarebbe necessario. E poi ancora: se dicessimo, se sostenessimo,
se ci alleassimo. Il tutto condito da: i movimenti devono, i movimenti non
capiscono, i movimenti sbagliano. Lenin aveva dato al sogno dure fondamenta
materialiste, un secolo e passa dopo il sogno è tornato a svolazzare nei molli
cieli dell’ideologia. Ancor prima di questo, c’è un problema che salta
immediatamente agli occhi: il problema del noi.
Chi
è il “noi” che enuncia la posizione corretta, che si lamenta di quella
mancante, che suggerisce con piglio normativo ai movimenti ciò che dovrebbero
fare? Abbiamo l’impressione che questo “noi” sia spesso quello di gruppi o
singoli che parlano in vece di un assente, i movimenti, o assumendo una
presunta rappresentanza simbolica di un soggetto (la classe, il precariato, la
moltitudine, ecc.).
Partiamo
infatti da una pacata constatazione. Al momento – al di là di specifiche
situazioni – i movimenti o non ci sono, o faticano terribilmente ad assumere
forma complessiva. A partire dagli anni Settanta in Italia abbiamo vissuto
all’interno di un’anomalia: dire militante di movimento ha un senso specifico,
indica non una visione spontaneista contrapposta all’organizzazione, bensì una
collocazione organizzata e progettualmente autonoma contrapposta alla
rappresentanza. Da quell’epoca nel mondo anglosassone e a livello
internazionale l’espressione “movimenti sociali” ha invece assunto tutt’altre
caratteristiche e significato. Si tratta di mobilitazioni “single issue”, il
cui inizio e la cui fine coincidono con la durata dell’istanza per cui o contro
cui lottano. Prima e dopo è come se non ci fosse nulla. Ed è poi un caso che i
teorici dell’evento vengano da un paese come la Francia, in cui le lotte sono
fiammate tanto intense quanto prive di sedimentazione? Questa anomalia italiana
non si è esaurita: persiste un tessuto di realtà organizzate che,
indipendentemente dall’esistenza o dall’assenza di lotte conclamate, porta
avanti sul piano territoriale i propri percorsi e gestisce le proprie strutture.
Ciò è un’indubbia ricchezza, perché permette di affrontare in modo organizzato
quello che c’è e di porsi continuamente il problema della costruzione di quello
che non c’è. In certe situazioni diventa un limite, perché porta a scambiare la
gestione dell’esistente con il movimento, ad assumere la rappresentanza di
quello che non c’è e a bloccare quello che potrebbe esserci.
Questa
pacata constatazione conduce spesso a delle conseguenze tra loro speculari. Da
un lato vi è il rischio dell’autocompiacimento in tale dato di realtà,
rivendicando l’identificazione tra rappresentanza e movimento, immaginando
l’antagonismo come una progressiva e lineare accumulazione di strutture e
militanti. La gestione è tutto, il fine è nulla. Dall’altro lato vi è la tentazione
di sbarazzarsi in modo presuntuoso di quello che c’è, ritenendolo inutile o
addirittura dannoso, per affermare hic et nunc l’idea
risolutiva. Il movimento è nulla, l’astrazione è tutto. La coscienza a posto
dell’evoluzionismo antagonista e l’ambizione di contare immediatamente del
nuovismo vitalista, partendo da poli opposti, convergono nel medesimo
risultato: la sostanziale irrilevanza o marginalità politica di quel “noi”,
ovvero il ceto militante di “movimento”.
Senza
pretese di esaustività proviamo a porre alcune questioni, partendo come sempre
dalla critica di quello che c’è (al cui interno noi ci collochiamo) e
immaginando lo spazio del possibile. Che passa anche per la distruzione delle
sacre icone.
Il
mito del ratto d’Europa
Una
sacra icona di questo “noi” è oggi il dibattito sull’Europa. Pro o contro,
bisogna prendere posizione. Anzi, data la sovrapposizione di cui sopra, il
movimento deve prendere posizione! Proviamo a buttarla lì: e se l’assunzione
della priorità di questo dibattito fosse un atto di subalternità rispetto al
quadro istituzionale che l’ha creato?
Il
mito è presto detto. L’Europa viene rapita e violentata da Zeus (gli Stati
Uniti? l’ordoliberalismo?), diventa poi regina e opprime la sua nuova
popolazione. Alcuni rivendicano il ritorno al regno di Tiro, per difendersi
dalla nuova regina. Finiscono così per dichiararsi sudditi del sovrano
tradizionale. Altri partono alla ricerca della vera presunta identità di Europa
e vogliono salvarla dai rapitori. Solo che al loro passaggio non fondano città,
ma si sottomettono alla nuova regina. Europeismo a prescindere, anti-europeismo
nostalgico. Attorno a questo mito si sono create due teologie politiche. Una
scomunica tutto ciò che si oppone all’affermazione europeista, tacciandolo come
sovranista e statalista. L’altra scomunica tutto ciò che puzza di Europa,
tacciandolo come neoliberista. E se entrambe le opzioni fossero le peggiori? Se
dunque il problema fosse proprio sbarazzarsi del campo dialettico che presenta
queste come le uniche opzioni possibili tra cui scegliere e situarsi?
I
campi e le opzioni sono sempre storicamente determinati, valgono quindi per un
certo lasso di tempo: qualche anno prima è troppo presto, qualche anno dopo è
troppo tardi. Per un materialista dovrebbe essere una banalità. Marx analizzò
la parabola delle rivendicazioni nazionali in Europa, quella che all’epoca si
chiamava una loro “funzione progressiva” e il suo esaurirsi. Lenin, in una nota
polemica con Rosa Luxemburg, sosteneva la necessità non di negare bensì di
trasformare i movimenti per l’autodeterminazione nazionale. In particolare
andava dato un “colore comunista” alle lotte anti-coloniali, a partire
dall’eccedenza rivoluzionaria rispetto alle semplici rivendicazioni
democratiche. Questo spazio di possibilità è finito con la formazione degli
Stati postcoloniali, nuova forma di comando di un capitale divenuto globale.
Del resto, chi aveva confuso la “funzione progressiva” con un dogma eterno
aveva finito per appoggiare le imprese coloniali e la guerra mondiale: è la
storia della Seconda Internazionale. Un secolo dopo, chi ha confuso
l’europeismo con l’unica “funzione progressiva” possibile contro lo
Stato-nazione rischia di trovarsi disarmato o peggio ancora complice di fronte
alla guerra diffusa della crisi e dell’austerity (qualcuno nel 1999 arrivò
addirittura ad appoggiare l’intervento militare in Serbia, come occasione per
un’Europa indipendente dal punto di vista militare).
Allora,
dobbiamo innanzitutto rompere il ricatto “o con l’Europa o con il sovranismo”.
Partendo da un bagno di realtà: l’Europa reale è quella dell’austerità, non ce
ne sono altre. Esiste infatti un “anti-europeismo” radicato nella composizione
di classe che non ha niente a che vedere con la nostalgia per la sovranità
nazionale, come vorrebbero i sostenitori dell’opzione statalista di sinistra,
quanto invece con l’opposizione alle condizioni di impoverimento di cui
l’Unione Europea è responsabile. Se mai vi è stato un momento in cui una
posizione europeista ha avuto quella che Marx e Lenin chiamavano “funzione
progressiva”, quel momento è definitivamente passato. Ripetere gli stessi
discorsi fuori dalla contingenza politica in cui sono nati – ignorando l’arco
temporale che ha portato da una fase espansiva a una fase recessiva – non è
solo inutile, quanto dannoso. La frammentazione imposta dalla crisi si può
rovesciare combattendo in primo luogo chi quella frammentazione l’ha prodotta:
la ricostruzione di una prospettiva di quello che è stato l’internazionalismo
proletario passa quindi per la fuoriuscita da questo campo dialettico, e la
rottura della macchina di governo europea. Passa cioè per una ricomposizione
transnazionale contro il mosto della Ue e contro il suo gemello nazionalista.
Se non iniziamo a porci questo tipo di problema, lasciamo la critica di tale
macchina nelle mani della destra, come già sta avvenendo. Con risultati
disastrosi.
Si
dirà: voi non date soluzioni! Rispondiamo innanzitutto che queste soluzioni non
appartengono all’astrazione del pensiero, ma a una pratica pensante e al “noi”
di questa pratica. “Noi” non siamo un partito, “noi” non siamo costretti a dare
indicazioni di voto, “noi” non dobbiamo risolvere le contraddizioni che
appartengono al campo delle forme politiche assunte nel corso dello sviluppo
capitalistico, come quella tra europeismo e sovranismo. “Noi” cerchiamo di
utilizzare le contraddizioni che all’interno di queste forme politiche si
aprono, per attaccarle e distruggerle. Così è stato per la sovranità nazionale,
così è per la sovranità sovranazionale.
Si
dirà ancora: cosa ne verrà dopo, se non date soluzioni? Non vi rendete conto
che l’unica alternativa all’Europa è un ritorno alla gabbia della sovranità
nazionale? Rispondiamo in modo pacato: è come dire che chi criticava lo
Stato-nazione era per un ritorno ai ducati e ai regionalismi medievali.
Stupidaggini che sono appartenute a un’altra teologia politica, quella del
marxismo ortodosso. La rottura della macchina di governo europea è un processo,
che non dipende dalla nostra volontà, ma dalla materialità delle condizioni
esistenti. È dentro questo processo che vanno immaginate e costruite nuove
forme politiche, contrapponendosi per l’appunto a quel revanscismo nazionalista
che è il terreno della destra. La costruzione del possibile è legata alla
rottura dell’esistente. È fin troppo noto come Marx definiva la Comune di
Parigi: “la forma politica finalmente scoperta”. Il che significa: qualcosa che
non esisteva, che era al di fuori della dialettica interna al campo del dominio
(Stato borghese o regionalismo feudale). Non si trattava di passare il fucile
da una spalla all’altra, ma di distruggere le forme politiche precedenti. Mutatis
mutandis, un pensiero rivoluzionario deve collocarsi all’altezza di questa
sfida, ovvero della costruzione delle condizioni di possibilità per la rottura
e la creazione di nuove forme politiche.
Stiamo
dicendo delle ovvietà. Ma ci pare di vivere in una fase, purtroppo, in cui
anche dire ovvietà non è scontato, per evitare quelle rassicuranti fughe
nell’autoreferenzialità che oggi costituiscono una delle cifre degli ambiti
teorici e politici di “movimento”.
Divenire
strabici
Il
problema del “noi” e delle sacre icone ritorna anche, e spesso in modo
eclatante, a ogni tornata elettorale. Non abbiamo trovato entusiasmante il
dibattito pro o contro Syriza, abbiamo trovato addirittura grottesco l’ennesimo
tentativo di una sua lineare traduzione nel contesto italiano. Abbiamo cercato
e cerchiamo di capire a partire dal nostro punto di vista, non di schierarci
rinunciandovi. In altri termini, ci sembra poco utile raffigurare un rapporto
astratto tra movimenti e istituzioni, per cui i primi hanno necessariamente
bisogno dei secondi per contare, o per cui vengono necessariamente fagocitati
nel momento in cui vi entrano a contatto. Non siamo tra coloro che ritengono
che tutto ciò che puzzi di istituzioni non lo si possa utilizzare a nessun
livello e per nessun fine, per affidarci a una teologia delle lotte che finisce
per essere speculare all’affidamento istituzionale. Non pensiamo che l’opportunismo
vada necessariamente cercato nel guardare con favore tattico anche un’ipotesi
di uso istituzionale, laddove questo si ponga in relazione alle lotte e apra
contraddizioni e spazi avanzati. Quando facemmo questo sobrio ragionamento
rispetto al Movimento 5 stelle, apriti cielo! L’opportunismo si annida invece
nel proporre un mistificato rapporto tra orizzontalità e verticalità, affidando
la prima ai movimenti e la seconda al politico, erroneamente intese come le
istituzioni esistenti. Certo che vi è un problema irrisolto del rapporto tra
orizzontalità e verticalità, ma si pone su un piano di immanenza ai movimenti.
La verticalità delle istituzioni esistenti ci interessa nella misura in cui lì
vanno aperte delle contraddizioni in cui si possa inserire la verticalità
dell’organizzazione autonoma, per romperle e creare nuovi spazi e forme
politiche.
D’altro
canto, continuando con il bagno di realtà, il caso di Syriza o quello di
Podemos mostrano la necessità di fare i conti innanzitutto con quello che è,
senza proiettarvi i propri desideri. La coalizione di Tsipras e Varoufakis, per
esempio, sa che il voto che l’ha portata al governo è un voto contro
l’austerity e dunque in buona misura anche un voto contro l’Europa. Non è
perciò un caso e non è uno scandalo che si sia alleata con un piccolo partito
di destra anti-europeista. E non è un caso che nei discorsi di Podemos – che
con il Movimento 5 stelle condivide varie caratteristiche di composizione e
linguaggio, con buona pace dell’italica riproposizione coalizionale della
sinistra – la parola “patria” sia molto più presente della parola “Europa”.
Piaccia o non piaccia, questo è. Anche l’esito delle trattative tra la Grecia e
l’Unione Europea andrebbe analizzato al di fuori della dialettica tra i pro e i
contro Tsipras. Se noi assumiamo che Syriza non poteva fare più di quello che
ha fatto, ossia che la macchina di governo europea non offre altra possibilità,
non capiamo come ciò si possa conciliare con la teologia politica europeista, e
come si possa ritenere che con qualche mese in più la situazione possa
cambiare. Proprio perché non potevano fare di più, allora quello che “noi”
dobbiamo fare non è questo – per quanto possiamo e dobbiamo utilizzare tutte le
contraddizioni che a quel livello si aprono, anche laddove vengono aperte da
forze socialdemocratiche.
L’urgenza,
in altri termini, non è quella di avere voce in capitolo sul piano della
“verticalità”, né di adagiarsi compiaciuti su quello dell’“orizzontalità”.
L’urgenza è quella di gettare le basi per un “noi” che non sia ristretto a un
ceto politico marginale rispetto alla composizione di classe. Dobbiamo
sviluppare uno sguardo strabico, con un occhio che guardi alla
difesa e avanzamento dell’esistente, con l’altro che individui le scommesse e i
campi di azione strategici. Dire che il lavoro politico ha un respiro
strategico di medio-lungo periodo non significa restaurare il mito del “sol
dell’avvenire”, o sottovalutare l’hic et nunc. Al contrario, significa
creare le condizioni di possibilità e soggettività per saltare in avanti. Senza
questo sguardo flessibile sul reale piantato in un punto di vista rigido, il
rischio che tutti “noi” corriamo è quello della marginalità: marginali
nell’accontentarsi di gestire frammenti che credono di rappresentare il
movimento, marginali – ed è ovviamente molto peggio – nella presunzione di
avere le idee giuste che aspettano solo di allearsi con una forza che le faccia
contare nei luoghi del potere. Ci sono fasi in cui l’urgenza non si sposa con
la fretta della scorciatoia, ma con la calma di un ricominciare che – come ci
hanno insegnato – non significa tornare indietro. Cogliere l’occasione e
costruire progetto: è sulla ricomposizione di questa urgenza che il “noi” si
deve misurare.